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notiziario Settembre 2011 N°8 - VITAMINA “D” E MALATTIE CARDIOMETABOLICHE - Potenziale ruolo del PTH e della D3 nell’omeostasi energetica

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Indice
notiziario Settembre 2011 N°8 - VITAMINA “D” E MALATTIE CARDIOMETABOLICHE
Vit. “D” e diabete
Vitamina “D” e prediabete
25 (OH) D e glicemia a digiuno e dopo 2-h a dieci anni
Vit. “D” associata alla sensibilità insulinica nelle donne afro-americane, ma non nelle americane- europee
Supplementazione di vit. D più calcio e funzione delle cellule β
Vit. “D2” e yogurt propizi per il diabetico
Vit. “D” e obesità
Potenziale ruolo del PTH e della D3 nell’omeostasi energetica
Vit. “D”, insulino-sensibilità e IMC nell'obesità
Aumento di vit. “D” con la perdita di peso
Razza e tipo di obesità nei bambini carenti di vit. “D”
Supplementazionedi vitamina D per neonati e le madri che allattano
Vit. “D” e sindrome metabolica
La bassa vit. “D” negli adolescenti può predire i fattori di rischio cardiovascolare?
Tutte le pagine

Potenziale ruolo del PTH e della D3 nell’omeostasi energetica

Invero, il meccanismo attraverso il quale il calcio della dieta può regolare il metabolismo energetico dovrebbe derivare dalla sua capacità di controllare, almeno acutamente, i livelli degli ormoni, dell'ormone paratiroideo (PTH) e dell’1,25(OH)2D. Difatti, nella bassa assunzione la calcemia si riduce stimolando il rilascio di PTH che, a sua volta, attiva l’1α-idrossilasi renale per la conversione della 25OHD nel suo metabolita attivo, 1,25 (OH) 2D. Il PTH e la 1,25 (OH)2D agiscono coordinatamente, quindi, sull’intestino, reni e ossa per aumentare i livelli di calcio nel siero.
Pertanto, è interessante considerare come la soppressione dei livelli del PTH, derivante da un miglioramento dello stato della vitamina “D”, possa anche contribuire a regolare l'accumulo di massa grassa dell’organismo.
L. M. Resnick del Wayne State University Medical Center, Detroit e collaboratori hanno avanzato la teoria "ionica" basata sull’elevata presenza di calcio intracellulare, riduzione del magnesio, del pH intracellulare con insorgenza e sviluppo d’ipertensione, diabete di tipo 2, obesità e altre manifestazioni della sindrome metabolica (Diabetes Care, vol. 14, no. 6, pp. 505–520, 1991). In effetti, il calcio intracellulare sembra avere un effetto bifasico sulla differenziazione dei preadipociti in adipociti. I suoi bassi livelli sierici, che possono derivare dalla scarsa assunzione con la dieta o dalla carenza di vitamina “D”, portano, peraltro, a un’elevazione secondaria del PTH, a sua volta causa di un aumento del calcio intracellulare e, quindi, di una maggiore differenziazione dei preadipociti in adipociti. Viene inibita anche la funzione della GLUT-4 con ostacolo all’assorbimento del glucosio mediato dall'insulina.

D'altra parte, l'aumento di calcio nella dieta sembra essere associato all’inibizione della 1,25 OH D sierica con conseguente diminuzione dei livelli intracellulari di calcio e, quindi, con riduzione dell’adipogenesi. Ci sono anche prove crescenti che suggeriscono che l'aumento del calcio intracellulare abbia un effetto stimolante sullo HSD (adipocyte 11-beta hydroxysteroid dehydrogenase) tipo 1, che, con attività simile all’angiotensina 2, porta all’aumentata produzione di cortisolo negli adipociti. Peraltro, vi è una crescente evidenza dell’alta prevalenza d’insufficienza di vitamina “D” durante la gravidanza e che l'ambiente intrauterino possa produrre effetti immediati e duraturi sulla salute della prole.

I bassi livelli materni di vitamina durante la gravidanza sono considerati ormai collegati a diversi esiti di salute della prole. Essi vanno dagli effetti periconcezionali alle malattie d’insorgenza adulta e i livelli di 25 (OH) D materni e del cordone ombelicale infantile sono strettamente correlati. I neonati, dal loro canto, presentano spesso crisi epilettiche e convulsioni comunemente a causa di calcio basso nel sangue, in forma così comune che si adotta in molti casi l’uso di un’iniezione di calcio in via di prevenzione. Ed è del 1978, per l’appunto, la scoperta che si può evitare facilmente l'ipocalcemia con la vitamina “D”, pratica non sempre seguita dagli ostetrici.

Peraltro, i trial osservazionali sullo stato della vitamina “D” nella gestante e sulle caratteristiche fisiche della progenie sono pochi e forniscono ancora risultati contrastanti. Inoltre, gli studi stanno confrontando le donne che non seguono in sostanza alcuna assunzione di vitamina, rispetto a quelle con dosi differenziate. Per esempio, con l’assunzione di circa 600 UI il giorno le donne avrebbero una maggiore probabilità di avere bambini di peso normale, rispetto alle dosi inferiori alle 300 UI/die. Lo stato della vitamina “D” nella gestante viene misurato sulla base dei suoi livelli sierici e di altri indicatori di carenza, come l’aumento del PTH e dei markers del turnover osseo. Questi cambiamenti cominciano ad apparire con valori di 25OHD inferiori ai 61 nmol / L (Jesudason et al. 2002). Da tale valore, appare utile la seguente classificazione:

  • § deficit Lieve da 41 a 60 nmol / L,
  • § deficit moderato da 26 a 40 nmol / L,
  • § deficit grave con livelli inferiori ai 26 nmol / L.

In particolare Morley R e collaboratori (J. Clin. Endocrinol. Metab. 2006, 91, 906-912) hanno trovato nelle madri con bassi livelli di vitamina “D” gestazioni più brevi (da 0,7 settimane, 95% IC -1,3, -0,1) e i bambini con crescita intrauterina delle ossa lunghe più scarsa.
Scholl, T.O e collaboratori dell’University of Medicine and Dentistry of New Jersey, sulla base del rilievo di una significativa più bassa assunzione totale di vitamina “D” nelle gravide afro-americane e ispaniche, soprattutto portoricane, nelle pluripare e obese o in sovrappeso, dopo controllo per le variabili potenziali confondenti, hanno dimostrato che l'assunzione totale della vitamina si associava ad aumento di peso nascita del neonato (Early Hum. Dev. 2009, 85, 231-234). Le gravide sotto degli attuali adeguati livelli (<5mg / die o 200 UI) avevano neonati con peso alla nascita significativamente più basso (p <0,05).

Weiler H dell’University of Manitoba, Winnipeg, Man e colleghi nel loro studio avendo, invece, riscontrato che i neonati carenti di vitamina “D” erano in media più pesanti e più lunghi rispetto a quelli con livelli adeguati (CMAJ2005;172(6):757-61).Gli AA concludevano che: 

  1. i neonati con carenza di vitamina avevano un impatto positivo sul peso e la lunghezza alla nascita, in modo non coerente con studi precedenti, che avevano rilevato come la carenza materna avesse un effetto negativo o non sul peso della prole,
  2. la carenza di vitamina dei bambini, ma non quella materna, comporta una riduzione della massa ossea infantile rispetto al peso corporeo; rilievo in contrasto con la scarsa letteratura.
  3. le donne e i neonati nella zona di Winnipeg del Canada erano a rischio di carenza di vitamina “D”, mettendo in evidenza una lacuna importante nel sistema sanitario del loro paese, peraltro, in coerenza con le osservazioni in tutto il mondo.

Peraltro, ulteriori esami di questi risultati portano a suggerire che gli effetti possono variare secondo il genotipo VDR della prole. In tale contestro, infatti, Zmuda, J.M dell’University of Pittsburgh e collaboratori (Epidemiol Rev. 2000;22(2):203-17) hanno riscontrato all'interno della prole di madri carenti di vitamina “D” un peso alla nascita inferiore a quelli con il genotipo FF o Ff, in cui l'allele F è associato a un aumento dell'attività del recettore della vitamina, ma non nella prole con genotipo ff (P dopo aggiustamento per i potenziali fattori di confondimento = 0,02).



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