25 (OH) D e glicemia a digiuno e dopo 2-h a dieci anni
Forouhi NG dell’Institute of Metabolic Science, Cambridge, UK e collaboratori, accumulandosi le evidenze epidemiologiche tra ipovitaminosi “D” e diabete di tipo 2 con i relativi rischi metabolici, hanno svolto un’indagine prospettica su 524 uomini e donne, scelti a caso nella popolazione dello studio Ely, non diabetici, di età dai 40 e ai 69 anni. Il gruppo era dotato di rilievi della 25 (OH) D, dell’IGF-1 sierici, dello stato glicemico, lipidico, insulinico, antropometrico, pressorio e del rischio di sindrome metabolica. (Diabetes 2008, 57:2619–2625).
La 25 (OH) D, aggiustata per età media, risultava maggiore negli uomini (64,5 nmol / l [IC 95% 61,2-67,9]) rispetto alle donne (57,2 nmol / l [54.4,60.0]) e variava con la stagione (più alta a fine estate). Dopo aggiustamento per età, sesso, fumo, IMC, stagione e valore di base di ogni variabile metabolica, la 25 (OH) D basale si associava, in modo inversamente proporzionale, al rischio per dieci anni d’iperglicemia (glicemia a digiuno: beta = -0,0023, p = 0,019; 2-h glucosio: beta = -0,0097, p = 0,006), d’insulino-resistenza (beta insulina a digiuno = -0,1467, p = 0,010; modello di valutazione omeostasi della resistenza all'insulina [HOMA-IR]: beta = -0,0059, p = 0,005) e della sindrome metabolica punteggio z (beta = -0,0016, p = 0,048). L’associazione con la glicemia a 2-h, l'insulina e l’HOMA-IR rimaneva significativa anche dopo aggiustamento per l’IGF-1, l'ormone paratiroideo, il calcio, l’attività fisica e la classe sociale.
Peraltro, altre evidenze suggeriscono che la vitamina “D” attiva, l’1 bis, 25 (OH) 2D3, previene il diabete di tipo 1 in modelli animali, modificando la differenziazione delle cellule T, modulando l'azione delle cellule dendritiche e inducendo la secrezione di citochine con il riequilibrio delle cellule T regolatorie. Su tali basi, la supplementazione con alte dosi nei primi anni di vita dovrebbe proteggere dal diabete di tipo 1. Difatti, l’attività dell’1a,25(OH)2D3 è mediata dal suo recettore secondo target in cui sono compresi i regolatori trascrizionali per cui essa viene a influenzare la trascrizione genica ed anche la funzione delle cellule β.
Variazioni genomiche del metabolismo della vitamina “D” e della sua azione sulle cellule bersaglio hanno, quindi, il potere di predisporre al diabete tipo 1. Peraltro, in individui geneticamente predisposti la sua carenza durante la gravidanza aumenta probabilmente l'incidenza di malattie autoimmuni e, quindi, del diabete di tipo 1. La supplementazione vitaminica in queste circostanze potrebbe, pertanto, aiutare a prevenire e curare la malattia. D’altro canto, gli studi sull’associazione tra i polimorfismi del gene VDR e il diabete di tipo 2 sono ancora scarsi e con risultati inconsistenti. Pur tuttavia, dati prospettici, sebbene limitati, tendono a sostenere, anche in tal caso, un’associazione inversa tra i livelli sierici di 25 (OH) D e l’incidenza della malattia. Peraltro, la prova diretta di studi randomizzati sugli effetti degli integratori vitaminici sull'omeostasi insulinica sono anch’essi limitati.
Più recentemente Anastassios G. Pittas del Tufts New England Medical Center in Boston e collaboratori, proprio per determinare la relazione tra la vitamina e il rischio di diabete, hanno analizzato i dati del Diabetes Prevention Program (DPP), confrontando le modificazioni intense dello stile di vita o la metformina con il placebo (Diabetes Care online on March 23, 2011). Il follow-up medio della coorte di 2.039 persone, valutate per l’incidente di diabete, era di 3,2 anni e i controlli plasmatici di vitamina “D” erano annuali. I partecipanti con livelli di vitamina nel più alto terzile (concentrazione media = 30.1 ng / mL) presentavano un hazard ratio di 0,74 (IC 95% 0,59 a 0,93) per lo sviluppo di diabete, rispetto a quelli con livelli nel più basso terzile (concentrazione mediana, 12,8 ng / mL). Si dimostrava anche un effetto dose-dipendente per i livelli di vitamina. L'hazard ratio per l'incidenza di diabete era più bassa (0,46, 95% IC, da 0,23 a 0,90) nelle persone con il più alto livello (50 ng / ml o superiore), rispetto a quelle con i livelli più bassi (inferiori a 12 ng / ml). In un’analisi dei sottogruppi per terzili di vitamina “D”, l'associazione risultava simile nel gruppo placebo (0,72, 95% IC, 0.53 a 0,96) e il gruppo stile di vita (0,80, 95% IC, 0.54 a 1,14). Secondo gli AA questo studio offre diversi vantaggi metodologici rispetto ai precedenti poiché lo stato vitaminico è stato valutato più volte durante il follow-up, non solo una volta al basale, comprendendo anche una vasta popolazione clinicamente rilevante ad alto rischio per il diabete, con una quota rilevante di partecipanti non bianchi. Tutto ciò, infatti, da garanzia di migliore validità esterna dei risultati. Pur tuttavia, si è trattato di uno studio osservazionale che non può escludere fattori confondenti, per cui, aggiungono gli AA, sarebbe prematuro raccomandare la vitamina “D” specificamente per la prevenzione del diabete. Comunque, questa ricerca prospettica conferma l’associazione tra i livelli di vitamina “D” e il rischio di diabete, anche con la correzione per il peso corporeo, senza alcuna soglia assoluta di 25-idrossi vitamina “D” sierica.
D’altra parte Jennifer G. Robinson dell’University of Iowa e collaboratori in un’analisi post-hoc di tre studi caso-controllo per fratture, cancro del colon e cancro al seno in cui veniva misurata la 25 (OH) D sierica nelle donne partecipanti al WHI (Women’s Health Initiative), libere da diabete al basale su 5.140 donne, di età media di 66 anni, seguite per una media di 7,3 anni, verificavano lo sviluppo di diabete in 317, il 6,2%. In tali soggetti la 25 (OH) D non si dimostrava associata con l'incidenza del diabete, né vi era alcuna relazione quando valutate secondo l’IMC, la razza / etnia, lo stato della malattia cardiovascolare (Diabetes Care. Posted online February 2, 2011).