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notiziario Settembre 2011 N°8 - VITAMINA “D” E MALATTIE CARDIOMETABOLICHE

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Indice
notiziario Settembre 2011 N°8 - VITAMINA “D” E MALATTIE CARDIOMETABOLICHE
Vit. “D” e diabete
Vitamina “D” e prediabete
25 (OH) D e glicemia a digiuno e dopo 2-h a dieci anni
Vit. “D” associata alla sensibilità insulinica nelle donne afro-americane, ma non nelle americane- europee
Supplementazione di vit. D più calcio e funzione delle cellule β
Vit. “D2” e yogurt propizi per il diabetico
Vit. “D” e obesità
Potenziale ruolo del PTH e della D3 nell’omeostasi energetica
Vit. “D”, insulino-sensibilità e IMC nell'obesità
Aumento di vit. “D” con la perdita di peso
Razza e tipo di obesità nei bambini carenti di vit. “D”
Supplementazionedi vitamina D per neonati e le madri che allattano
Vit. “D” e sindrome metabolica
La bassa vit. “D” negli adolescenti può predire i fattori di rischio cardiovascolare?
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NOTIZIARIO Settembre 2011 N°8

"VITAMINA “D” E MALATTIE CARDIOMETABOLICHE"

 

A cura di:
Giuseppe Di Lascio

 

Con la collaborazione di:

Bagalino Alessia, Bauzulli Doriana, Di Lascio Alessandro, Di Lascio Susanna, Levi Della Vida Andrea, Melilli Simonetta, Pallotta Pasqualino, Sesana Giovanna, Stazzi Claudio, Zimmatore Elena

 


Vit. “D” e diabete

La carenza di vitamina “D” è, di fatto, uno dei principali problemi pubblici di salute nel mondo a causa della sua diffusione in progressivo aumento e dei rischi potenziali di malattie a essa connessi. In particolare, studi sperimentali più recenti hanno fornito anche la crescente evidenza sul suo sostanziale ruolo sulla secrezione pancreatica d’insulina e sulla sua azione periferica attraverso il legame al suo specifico recettore VDR. Da una parte, invero, le evidenze osservazionali principalmente degli studi trasversali, hanno dimostrato, come la dieta povera di vitamina o, comunque, i suoi livelli sierici siano inversamente correlati all'intolleranza glucidica, alla resistenza all'insulina, alla diminuzione della sua secrezione e all’aumento, quindi, del rischio della sindrome metabolica.

D’altra parte, altri studi osservazionali hanno riportato l’associazione, o la sua mancanza, tra i polimorfismi VDR e il diabete di tipo 2, la glicemia a digiuno, l’intolleranza al glucosio, la sensibilità e la secrezione d’insulina e i livelli di calcitriolo.

Le evidenze della ricerca di base e gli studi osservazionali hanno, quindi, suggerito come il consumo di vitamina “D” o di alimenti, che ne siano ricchi, possa proteggere contro lo sviluppo di diabete tipo 2, attraverso un effetto benefico sull’insulina e sull’omeostasi glucidica.

Tale dato assume, di certo, maggiore importanza se si tiene conto che il diabete mellito si sta dimostrando dagli ultimi decenni una malattia epidemica, 

colpendo più di 170 milioni di persone in tutto il mondo con incremento stimato intorno al 42% entro il 2025 tra gli adulti dei paesi sviluppati e al 170% tra quelli dei paesi in via di sviluppo. Peraltro, l'insulino-resistenza e la disfunzione progressiva delle cellule βdel pancreas sono ormai indicate come i due fondamentali passaggi nella patogenesi della malattia. A tal punto viene da domandarsi: l’epidemia del diabete e dell’ipovitaminosi “D” sono una coincidenza reale?

Peraltro, in via collaterale, altri dati di studi osservazionali e sperimentali suggeriscono diversi effetti fisiologici della vitamina, come quelli riguardanti i parametri metabolici singoli o combinati, quali l’adiposità, la pressione sanguigna, il metabolismo dei lipidi, l'intolleranza glucidica, la secrezione d’insulina e l’insieme della sindrome metabolica. La vitamina, in effetti, può influire direttamente nella patogenesi del diabete legandosi, come detto, alle cellule βin funzione del suo recettore VDR. Difatti, l’alterazione del gene VDR ha dimostrato nei topi una marcata compromissione nella capacità secretoria insulinica con una riduzione dei livelli mRNA dell’ormone, pur mantenendosi normali la massa delle isole, la loro  architettura e gli isolotti di neogenesi. Pur tuttavia, la vitamina può anche influenzare indirettamente la secrezione insulinica calcio-dipendente tramite la regolazione del trasporto del calcio attraverso la ß-cellula. D'altro canto, il suo effetto sulla resistenza insulinica può non essere diretto e potrebbe derivare dai suoi effetti benefici sulla adiposità. Comunque, diversi altri meccanismi possono entrare in causa, come lo stimolo dell’espressione dei recettori per l'insulina, la regolazione del pool del calcio e la modulazione di espressione e dell’attività delle citochine, tutte condizioni che possono spiegare anche il miglioramento dell'azione insulinica sui tessuti periferici.

 

I dati sull'uomo, inoltre, supportano l'ipotesi che i bassi livelli di vitamina si associano all’alterata funzione delle cellule β, all'insulinoresistenza e all’intolleranza al glucosio. Molti sono, infatti, gli studi trasversali che hanno esaminato tra i non diabetici l’associazione tra dieta o tra i livelli della vitamina con i biomarcatori surrogati dell’omeostasi del glucosio, come l’HbA1c, l’emoglobina glicosilata, l’HOMA-IR, modello di valutazione della resistenza all'insulina e l’HOMA-B, modello di funzione delle cellule β.

L'evidenza epidemiologica, relativa al rapporto dei bassi livelli di vitamina “D” in circolo con l’iperglicemia, l'insulinoresistenza o il diabete di tipo 2, deriva principalmente dalle ricerche cross sectional, anche se nelle malattie croniche sarebbe preferibile per lo studio a lungo termine un’analisi prospettica di coorte. Pur tuttavia, i dati prospettici sui livelli di vitamina “D” e l’incidenza del diabete di tipo 2 sono relativamente limitati.

 

Liu E della Tufts University, di Boston e collaboratori hanno esaminato (J Nutr 2009, 139:329–334) l’associazione tra 25 OH D e i marcatori del fenotipo insulino-resistente in 808 non diabetici del Framingham Offspring Study. Sono state, così, ottenute la glicemia e l’insulinemia a digiuno e dopo test orale di tolleranza al glucosio (OGTT) con calcolo dell’HOMA-IR (modello di valutazione omeostatico dell’insulino-resistenza) e dell’indice l’ISI 0, 120 (indice di sensibilità all'insulina). Hanno anche misurato l’adiponectina plasmatica, i trigliceridi, le concentrazioni del colesterolo HDL, quali marcatori anch’essi del fenotipo insulino-resistente. Dopo aggiustamento per l’età, il sesso, la BMI, la circonferenza vita e lo stato di fumatore, le concentrazioni plasmatiche di 25 (OH) D si rivelavano inversamente associate con la glicemia a digiuno, le concentrazioni d’insulina e l’HOMA-IR. In confronto con i partecipanti della categoria del più basso terzile di 25 (OH) D, quelli del più alto avevano una concentrazione più bassa dell’1,6% di glicemia a digiuno (p-trend = 0,007), del 9,8% d’insulina plasmatica a digiuno (p-trend = 0,001), e un 12,7% in meno di punteggio HOMA-IR (p-trend <0,001). Dopo aggiustamento per età e sesso, la 25 (OH) D si associava positivamente con l’ISI 0, 120, l’adiponectina plasmatica e il colesterolo HDL, mentre inversamente con i trigliceridi. Tali associazioni, però, non erano più significative dopo una nuova regolazione per l’IMC, la circonferenza vita e lo stato di fumatore. Questi risultati suggerivano agli AA che la vitamina “D” può essere un fattore determinante per lo sviluppo del diabete mellito di tipo 2.

 

Vitamina “D” e prediabete

In continuità con quanto riportato, Anoop Shankar della West Virginia University School of Medicine, e collaboratori, sempre sulla base degli studi sugli animali sui bassi valori di 25-idrossivitamina D (25 [OH] D) connessi alla riduzione della sintesi e della secrezione d’insulina e, quindi, di essere coinvolti nella patogenesi del diabete, hanno esaminato  12.719 partecipanti, nel 52,5% donne, del NHANES III (III National Health and Nutrition Examination Survey),  di età oltre i 20 anni, non diabetici (Diabetes Care 34:1114-9. 2011). I valori sierici di25 (OH) D sono stati classificati in quartili (≤ 17,7, 17,8-24,5, 24,6-32,4,> 32,4 ng / mL). Il prediabete è stato definito sulla base della glicemia a 2-h dal pasto di 140-199 mg / dL o della glicemia a digiuno di 110-125 mg / dL o del valore di HbA1c 5,7-6,4%. Il prediabete è, difatti, una fase precoce nel continuum del diabete in cui si definisce l’aumentato rischio di sviluppare la malattia e in cui gli sforzi di prevenzione hanno dimostrato di essere efficaci nel ritardarla o prevenirla.

La 25 (OH) D sierica si è dimostrata associata con il prediabete dopo aggiustamento per età, sesso, razza / etnia, stagione, regione geografica, fumo, assunzione di alcol, IMC, attività fisica all'aperto, consumo di latte, vitamina “D” alimentare, pressione sanguigna, colesterolo, proteina C-reattiva e velocità di filtrazione glomerulare. Rispetto al 4° quartile di 25 (OH) D, con funzioni di referente, l'odds ratio di prediabete associato al quartile 1 è stato 1,47 (IC95% 1,16-1,85, p trend = 0.001). L’analisi dei sottogruppi, secondo l’esame del rapporto tra 25 (OH) D e prediabete per sesso, BMI e categorie d’ipertensione, ha mostrato un’associazione costante positiva.  

Tali risultati hanno permesso agli AA di concludere che i livelli bassi sierici di 25 (OH) D erano associati con il prediabete in un campione rappresentativo di adulti statunitensi.

 

25 (OH) D e glicemia a digiuno e dopo 2-h a dieci anni

Forouhi NG dell’Institute of Metabolic Science, Cambridge, UK e collaboratori, accumulandosi le evidenze epidemiologiche tra ipovitaminosi “D” e diabete di tipo 2 con i relativi rischi metabolici, hanno svolto un’indagine prospettica su 524 uomini e donne, scelti a caso nella popolazione dello studio Ely, non diabetici, di età dai 40 e ai 69 anni. Il gruppo era dotato di rilievi della 25 (OH) D, dell’IGF-1 sierici, dello stato glicemico, lipidico, insulinico, antropometrico, pressorio e del rischio di sindrome metabolica. (Diabetes 2008, 57:2619–2625).

La 25 (OH) D, aggiustata per età media, risultava maggiore negli uomini (64,5 nmol / l [IC 95% 61,2-67,9]) rispetto alle donne (57,2 nmol / l [54.4,60.0]) e variava con la stagione (più alta a fine estate). Dopo aggiustamento per età, sesso, fumo, IMC, stagione e valore di base di ogni variabile metabolica, la 25 (OH) D basale si associava, in modo inversamente proporzionale, al rischio per dieci anni d’iperglicemia (glicemia a digiuno: beta = -0,0023, p = 0,019; 2-h glucosio: beta = -0,0097, p = 0,006), d’insulino-resistenza (beta insulina a digiuno = -0,1467, p = 0,010; modello di valutazione omeostasi della resistenza all'insulina [HOMA-IR]: beta = -0,0059, p = 0,005) e della sindrome metabolica punteggio z (beta = -0,0016, p = 0,048). L’associazione con la glicemia a 2-h, l'insulina e l’HOMA-IR rimaneva significativa anche dopo aggiustamento per l’IGF-1, l'ormone paratiroideo, il calcio, l’attività fisica e la classe sociale.
Peraltro, altre evidenze suggeriscono che la vitamina “D” attiva, l’1 bis, 25 (OH) 2D3, previene il diabete di tipo 1 in modelli animali, modificando la differenziazione delle cellule T, modulando l'azione delle cellule dendritiche e inducendo la secrezione di citochine con il riequilibrio delle cellule T regolatorie. Su tali basi, la supplementazione con alte dosi nei primi anni di vita dovrebbe proteggere dal diabete di tipo 1. Difatti, l’attività dell’1a,25(OH)2D3 è mediata dal suo recettore secondo target in cui sono compresi i regolatori trascrizionali per cui essa viene a influenzare la trascrizione genica ed anche la funzione delle cellule β.

Variazioni genomiche del metabolismo della vitamina “D” e della sua azione sulle cellule bersaglio hanno, quindi, il potere di predisporre al diabete tipo 1. Peraltro, in individui geneticamente predisposti la sua carenza durante la gravidanza aumenta probabilmente l'incidenza di malattie autoimmuni e, quindi, del diabete di tipo 1. La supplementazione vitaminica in queste circostanze potrebbe, pertanto, aiutare a prevenire e curare la malattia. D’altro canto, gli studi sull’associazione tra i polimorfismi del gene VDR e il diabete di tipo 2 sono ancora scarsi e con risultati inconsistenti. Pur tuttavia, dati prospettici, sebbene limitati, tendono a sostenere, anche in tal caso, un’associazione inversa tra i livelli sierici di 25 (OH) D e l’incidenza della malattia. Peraltro, la prova diretta di studi randomizzati sugli effetti degli integratori vitaminici sull'omeostasi insulinica sono anch’essi limitati.

Più recentemente Anastassios G. Pittas del Tufts New England Medical Center in Boston e collaboratori, proprio per determinare la relazione tra la vitamina e il rischio di diabete, hanno analizzato i dati del Diabetes Prevention Program (DPP), confrontando le modificazioni intense dello stile di vita o la metformina con il placebo (Diabetes Care online on March 23, 2011). Il follow-up medio della coorte di 2.039 persone, valutate per l’incidente di diabete, era di 3,2 anni e i controlli plasmatici di vitamina “D” erano annuali. I partecipanti con livelli di vitamina nel più alto terzile (concentrazione media = 30.1 ng / mL) presentavano un hazard ratio di 0,74 (IC 95% 0,59 a 0,93) per lo sviluppo di diabete, rispetto a quelli con livelli nel più basso terzile (concentrazione mediana, 12,8 ng / mL). Si dimostrava anche un effetto dose-dipendente per i livelli di vitamina. L'hazard ratio per l'incidenza di diabete era più bassa (0,46, 95% IC, da 0,23 a 0,90) nelle persone con il più alto livello (50 ng / ml o superiore), rispetto a quelle con i livelli più bassi (inferiori a 12 ng / ml). In un’analisi dei sottogruppi per terzili di vitamina “D”, l'associazione risultava simile nel gruppo placebo (0,72, 95% IC, 0.53 a 0,96) e il gruppo stile di vita (0,80, 95% IC, 0.54 a 1,14). Secondo gli AA questo studio offre diversi vantaggi metodologici rispetto ai precedenti poiché lo stato vitaminico è stato valutato più volte durante il follow-up, non solo una volta al basale, comprendendo anche una vasta popolazione clinicamente rilevante ad alto rischio per il diabete, con una quota rilevante di partecipanti non bianchi. Tutto ciò, infatti, da garanzia di migliore validità esterna dei risultati. Pur tuttavia, si è trattato di uno studio osservazionale che non può escludere fattori confondenti, per cui, aggiungono gli AA, sarebbe prematuro raccomandare la vitamina “D” specificamente per la prevenzione del diabete. Comunque, questa ricerca prospettica conferma l’associazione tra i livelli di vitamina “D” e il rischio di diabete, anche con la correzione per il peso corporeo, senza alcuna soglia assoluta di 25-idrossi vitamina “D” sierica.

D’altra parte Jennifer G. Robinson dell’University of Iowa e collaboratori in un’analisi post-hoc di tre studi caso-controllo per fratture, cancro del colon e cancro al seno in cui veniva misurata la 25 (OH) D sierica nelle donne partecipanti al WHI (Women’s Health Initiative), libere da diabete al basale su 5.140 donne, di età media di 66 anni, seguite per una media di 7,3 anni, verificavano lo sviluppo di diabete in 317, il 6,2%. In tali soggetti la 25 (OH) D non si dimostrava associata con l'incidenza del diabete, né vi era alcuna relazione quando valutate secondo l’IMC, la razza / etnia, lo stato della malattia cardiovascolare (Diabetes Care. Posted online February 2, 2011).


Vit. “D”associata alla sensibilità insulinica nelle donne afro-americane, ma non nelle americane-europee 

La prevalenza del diabete di tipo 2 è più alta tra gli afro-americani (AA) vs gli americani di origine europea (EA), indipendentemente dall’obesità e dagli altri fattori confondenti noti. Anche se la ragione di questa disparità non è ben chiara, è possibile che i livelli, relativamente bassi di vitamina “D” tra AA, possano avere un ben determinato ruolo, in rapporto alle evidenze ottenute sulla sua influenza sulla sensibilità all'insulina.
Jessica A Alvarez dell’University of Alabama at Birmingham e collaboratori, per verificare questa ipotesi, hanno studiato 115 afro-americane (AA) e 137 europee americane (EA), sane, in premenopausa, in dieta record di 4 giorni, determinando l'indice di sensibilità all'insulina (SI) e l’HOMA-IR (Nutrition & Metabolism 2010 7:28).

La Vit. “D” si associava positivamente con la SI (β standardizzato = 0.18, P = 0,05) e inversamente all’HOMA-IR (β = -0,26 standardizzato, P = 0,007) nelle AA con relazioni indipendenti dall’età, dal grasso corporeo totale, dall’apporto energetico e dalle kcal% dei grassi. La vitamina, invece, non risultava significativamente associata con gli indici di sensibilità all'insulina / resistenza nelle EA (β = 0,03 standardizzato, P = 0,74 e β = 0,02 standardizzati, P = 0,85 per il SI e HOMA-IR, rispettivamente). Similarmente alla vitamina “D”, il calcio nella dieta si associava con la SI e l’HOMA-IR nelle AA ma non nelle EA. Tali risultati suggerirebbero la promozione di apporto vitaminico e di calcio per ridurre il rischio di diabete di tipo 2 nelle donne di colore (vedi anche notiziario settembre 2010 N°9).

 


Supplementazione di vit. D più calcio e funzione delle cellule β

Joanna Mitri del Tufts Medical Center, Boston e collaboratori, sempre sulla base della ancora non piena evidenza degli studi osservazionali che hanno rilevato un più alto rischio di diabete di tipo 2 in caso di una carenza di vitamina “D” e di calcio, hanno voluto valutare se la supplementazione ad hoc potesse migliorare l'omeostasi glucidica negli adulti ad alto rischio della malattia (Am J Clin Nutr 2011 94: 486-494). Hanno, così, randomizzato novantadue adulti d’età media di cinquantasette anni, con un indice di massa corporea media di trentadue e di emoglobina glicata 5,9%, in doppio cieco, con controllo con placebo a colecalciferolo 2.000 UI/die o carbonato di calcio 400 mg due volte al giorno per sedici settimane. L'outcome primario era rappresentato dal cambiamento nella funzione delle cellule β pancreatiche, misurata dal disposition index, derivato nell’IVGTT dal prodotto fra AIRg e SI e basato sull’assunto che l’adattamento della β cellula all’insulino-resistenza segue una precisa legge iperbolica. Altri risultati sono stati la risposta insulinica acuta, la sensibilità all'insulina e le misure della glicemia. Il disposition index aumentava nel gruppo con interazione vitaminica, mentre diminuiva in quello senza (variazione media aggiustata ± SE: 300 ± 130 rispetto ai -126 ± 127, rispettivamente, p = 0,011). Spiegazione di ciò era data dal miglioramento della secrezione insulinica (62 ± 39 rispetto ai -36 ± 37 mU • L-1 • min, rispettivamente, p = 0,046). L’HbA1c aumentava di meno, ma non significativamente, nel gruppo con vitamina “D” rispetto a quello senza (0,06 ± 0,03% rispetto a 0,14 ± 0,03%, rispettivamente, p = 0,081). Non si segnava alcuna differenza significativa dei risultati in rapporto al calcio. Tale studio permetterebbe, quindi, di concludere che negli adulti a rischio di diabete di tipo 2 l'integrazione a breve termine con colecalciferolo migliorerebbe la funzione delle cellule β, mentre avrebbe un effetto marginale nell’attenuare l'aumento della HbA1c.


Vit. “D2” e yogurt propizi per il diabetico

Tirang Neyestani del Nutrition and Food Technology Research Institute in Iran e collaboratori, sulla base degli studi precedenti sul ruolo della vitamina “D” nel diabete, senza una chiara dimostrazione di causa ed effetto, hanno arruolato novanta diabetici adulti, dividendoli in tre gruppi di trenta persone sulla base del consumo due volte il giorno di yogurt: il primo in forma semplice, il secondo fortificato con vitamina “D” e il terzo doppiamente fortificato con supplemento vitaminico e calcio (American Journal of Clinical Nutrition, online February 2, 2011). Lo yogurt nel primo caso conteneva 150 milligrammi di calcio, nel secondo 500 unità internazionali di vitamina “D” e 150 milligrammi di calcio e nel terzo 500 UI di vitamina e 250 mg di calcio. Dopo dodici settimane gli autori riscontravano un notevole miglioramento della glicemia nei gruppi con vitamina, rispetto a quello con solo yogurt. La glicemia media del primo gruppo era aumentata da 187 a 203 mg / dL, mentre negli altri due gruppi si era ridotta da 184 a circa 172 mg/dL. Il primo gruppo segnava anche un aumento dei livelli di emoglobina A1c, mentre in entrambi gli altri gruppi era diminuita. Inoltre, le persone con yogurt fortificato perdevano una media da uno a 2.5 Kg durante lo studio, mentre quelle del gruppo con yogurt normale segnavano lo stesso peso corporeo. Secondo gli AA questo studio ribadirebbe, pertanto, l’effetto positivo della vitamina “D” nel diabete di tipo 2.


Vit. “D” e obesità

Le basse concentrazioni circolanti di vitamina “D” sono comuni nell'obesità potendo anche rappresentare un potenziale meccanismo per l'elevato rischio di alcuni tumori e per gli esiti cardiovascolari osservati in questa patologia. 

Invero, nell’obesità è presente un’infiammazione di basso grado nel tessuto adiposo con immissione nel flusso sanguigno di molecole infiammatorie. In via collaterale, negli studi di linea cellulare ed anche clinici la vitamina “D” ha dimostrato di avere la capacità di ridurre l'infiammazione e la crescita cellulare. Essa, peraltro, si deposita in tutti i tessuti dell’organismo come calcidiolo, 25 (OH) D, e man mano che aumentano le riserve di grasso, non aumentando proporzionalmente la sua produzione e \ o assunzione, si riduce in quantità, mettendo l’individuo a rischio di tutte le malattie connesse alle due patologie. Di fatto, considerato il rilievo di diffusione epidemica di entrambe obesità e carenza di vitamina “D”, anche in tal caso viene da domandarsi se la circostanza assuma solo un valore casuale o interdipendente.

John Cannell, Director of the Vitamin “D” Council, in un suo articolo del 2004, "Obesity and Vitamin D”, scriveva che un numero crescente di ricerche suggerisce che si tratti di più di una coincidenza e che si possono elencare diverse circostanze a favore, quali:

  • quando le popolazioni aborigene migrano dall’alta quota, con raggi UV più intensi e più determinanti per la produzione di vitamina, alla bassa, aumenta il grasso corporeo,
  • la maggiore assunzione di calcio si associa costantemente a minore peso corporeo, poiché la vitamina ne aumenta significativamente l'assorbimento,
  • la combinazione di vitamina e calcio riduce la conseguente assunzione spontanea di cibo e aumenta il metabolismo dei grassi,
  • le anomalie genetiche del recettore della vitamina (i così detti polimorfismi VDR ) si associano con il peso corporeo e la massa grassa (i pazienti con polimorfismi VDR hanno ridotta attività della vitamina a livello dei recettori),
  • i livelli di paratormone sanguigno, elevati in carenza di vitamina “D”, predicono l'obesità,
  • dal 1981 gli studi hanno costantemente dimostrato che la 25 (OH) D è più bassa negli obesi,
  • l'obesità si associa a morte precoce e i bassi livelli di vitamina sono più probabili in inverno (v’è evidenza da diversi anni della maggiore incidenza delle morti in inverno),
  • gli obesi, quando esposti alla luce ultravioletta o quando assumono supplementi di vitamina “D”, raggiungono livelli di 25 (OH) D inferiori. Sembrerebbe, difatti, che l’eccesso di grasso sequestri la vitamina, con compromissione della capacità di alzarne i valori plasmatici,

Pur tuttavia, è ancora da chiarire se l'eccesso di peso contribuisca ad abbassare i livelli della vitamina o se i suoi bassi livelli possano causare l'eccesso di peso. Gli studi, comunque, indicano che tra le due condizioni esiste certamente un rapporto.

Dorothy Teegarden dello Human Nutrition and Nutritional Biology at University of Chicago ha dimostrato già nel 2000, con gli studi del suo gruppo di lavoro, una correlazione negativa tra l’assunzione di calcio o di prodotti lattiero-caseari e il grasso corporeo, evidenziando anche il ruolo regolatore dell’1,25-diidrossivitamina D e dell'ormone paratiroideo sull’’insulino-resistenza.


Potenziale ruolo del PTH e della D3 nell’omeostasi energetica

Invero, il meccanismo attraverso il quale il calcio della dieta può regolare il metabolismo energetico dovrebbe derivare dalla sua capacità di controllare, almeno acutamente, i livelli degli ormoni, dell'ormone paratiroideo (PTH) e dell’1,25(OH)2D. Difatti, nella bassa assunzione la calcemia si riduce stimolando il rilascio di PTH che, a sua volta, attiva l’1α-idrossilasi renale per la conversione della 25OHD nel suo metabolita attivo, 1,25 (OH) 2D. Il PTH e la 1,25 (OH)2D agiscono coordinatamente, quindi, sull’intestino, reni e ossa per aumentare i livelli di calcio nel siero.
Pertanto, è interessante considerare come la soppressione dei livelli del PTH, derivante da un miglioramento dello stato della vitamina “D”, possa anche contribuire a regolare l'accumulo di massa grassa dell’organismo.
L. M. Resnick del Wayne State University Medical Center, Detroit e collaboratori hanno avanzato la teoria "ionica" basata sull’elevata presenza di calcio intracellulare, riduzione del magnesio, del pH intracellulare con insorgenza e sviluppo d’ipertensione, diabete di tipo 2, obesità e altre manifestazioni della sindrome metabolica (Diabetes Care, vol. 14, no. 6, pp. 505–520, 1991). In effetti, il calcio intracellulare sembra avere un effetto bifasico sulla differenziazione dei preadipociti in adipociti. I suoi bassi livelli sierici, che possono derivare dalla scarsa assunzione con la dieta o dalla carenza di vitamina “D”, portano, peraltro, a un’elevazione secondaria del PTH, a sua volta causa di un aumento del calcio intracellulare e, quindi, di una maggiore differenziazione dei preadipociti in adipociti. Viene inibita anche la funzione della GLUT-4 con ostacolo all’assorbimento del glucosio mediato dall'insulina.

D'altra parte, l'aumento di calcio nella dieta sembra essere associato all’inibizione della 1,25 OH D sierica con conseguente diminuzione dei livelli intracellulari di calcio e, quindi, con riduzione dell’adipogenesi. Ci sono anche prove crescenti che suggeriscono che l'aumento del calcio intracellulare abbia un effetto stimolante sullo HSD (adipocyte 11-beta hydroxysteroid dehydrogenase) tipo 1, che, con attività simile all’angiotensina 2, porta all’aumentata produzione di cortisolo negli adipociti. Peraltro, vi è una crescente evidenza dell’alta prevalenza d’insufficienza di vitamina “D” durante la gravidanza e che l'ambiente intrauterino possa produrre effetti immediati e duraturi sulla salute della prole.

I bassi livelli materni di vitamina durante la gravidanza sono considerati ormai collegati a diversi esiti di salute della prole. Essi vanno dagli effetti periconcezionali alle malattie d’insorgenza adulta e i livelli di 25 (OH) D materni e del cordone ombelicale infantile sono strettamente correlati. I neonati, dal loro canto, presentano spesso crisi epilettiche e convulsioni comunemente a causa di calcio basso nel sangue, in forma così comune che si adotta in molti casi l’uso di un’iniezione di calcio in via di prevenzione. Ed è del 1978, per l’appunto, la scoperta che si può evitare facilmente l'ipocalcemia con la vitamina “D”, pratica non sempre seguita dagli ostetrici.

Peraltro, i trial osservazionali sullo stato della vitamina “D” nella gestante e sulle caratteristiche fisiche della progenie sono pochi e forniscono ancora risultati contrastanti. Inoltre, gli studi stanno confrontando le donne che non seguono in sostanza alcuna assunzione di vitamina, rispetto a quelle con dosi differenziate. Per esempio, con l’assunzione di circa 600 UI il giorno le donne avrebbero una maggiore probabilità di avere bambini di peso normale, rispetto alle dosi inferiori alle 300 UI/die. Lo stato della vitamina “D” nella gestante viene misurato sulla base dei suoi livelli sierici e di altri indicatori di carenza, come l’aumento del PTH e dei markers del turnover osseo. Questi cambiamenti cominciano ad apparire con valori di 25OHD inferiori ai 61 nmol / L (Jesudason et al. 2002). Da tale valore, appare utile la seguente classificazione:

  • § deficit Lieve da 41 a 60 nmol / L,
  • § deficit moderato da 26 a 40 nmol / L,
  • § deficit grave con livelli inferiori ai 26 nmol / L.

In particolare Morley R e collaboratori (J. Clin. Endocrinol. Metab. 2006, 91, 906-912) hanno trovato nelle madri con bassi livelli di vitamina “D” gestazioni più brevi (da 0,7 settimane, 95% IC -1,3, -0,1) e i bambini con crescita intrauterina delle ossa lunghe più scarsa.
Scholl, T.O e collaboratori dell’University of Medicine and Dentistry of New Jersey, sulla base del rilievo di una significativa più bassa assunzione totale di vitamina “D” nelle gravide afro-americane e ispaniche, soprattutto portoricane, nelle pluripare e obese o in sovrappeso, dopo controllo per le variabili potenziali confondenti, hanno dimostrato che l'assunzione totale della vitamina si associava ad aumento di peso nascita del neonato (Early Hum. Dev. 2009, 85, 231-234). Le gravide sotto degli attuali adeguati livelli (<5mg / die o 200 UI) avevano neonati con peso alla nascita significativamente più basso (p <0,05).

Weiler H dell’University of Manitoba, Winnipeg, Man e colleghi nel loro studio avendo, invece, riscontrato che i neonati carenti di vitamina “D” erano in media più pesanti e più lunghi rispetto a quelli con livelli adeguati (CMAJ2005;172(6):757-61).Gli AA concludevano che: 

  1. i neonati con carenza di vitamina avevano un impatto positivo sul peso e la lunghezza alla nascita, in modo non coerente con studi precedenti, che avevano rilevato come la carenza materna avesse un effetto negativo o non sul peso della prole,
  2. la carenza di vitamina dei bambini, ma non quella materna, comporta una riduzione della massa ossea infantile rispetto al peso corporeo; rilievo in contrasto con la scarsa letteratura.
  3. le donne e i neonati nella zona di Winnipeg del Canada erano a rischio di carenza di vitamina “D”, mettendo in evidenza una lacuna importante nel sistema sanitario del loro paese, peraltro, in coerenza con le osservazioni in tutto il mondo.

Peraltro, ulteriori esami di questi risultati portano a suggerire che gli effetti possono variare secondo il genotipo VDR della prole. In tale contestro, infatti, Zmuda, J.M dell’University of Pittsburgh e collaboratori (Epidemiol Rev. 2000;22(2):203-17) hanno riscontrato all'interno della prole di madri carenti di vitamina “D” un peso alla nascita inferiore a quelli con il genotipo FF o Ff, in cui l'allele F è associato a un aumento dell'attività del recettore della vitamina, ma non nella prole con genotipo ff (P dopo aggiustamento per i potenziali fattori di confondimento = 0,02).


Vit. “D”, insulino-sensibilità e IMC nell'obesità

Muscogiuri G e collaboratori dell’Endocrinology, Catholic University, Rome, considerando che la prevalenza d’ipovitaminosi “D” è alta tra i soggetti obesi e che è stata postulata la bassa concentrazione di 25-idrossivitamina D (25 (OH) D) come fattore di rischio per il diabete di tipo 2, sulla base che la relazione in tali meriti con l’insulino-sensibilità non risultava ben studiata, hanno voluto indagare tale rapporto con la tecnica del clamp glicemico (Obesity (Silver Spring). 2010 Oct;18(10):1906-10. Epub 2010 Feb 11). Hanno, quindi, reclutato trentanove soggetti senza storia nota di diabete mellito ed hanno riscontrato che quelli con bassi livelli di 25 (OH) D (<50 nmol / l) avevano valori più alti di IMC (p = 0,048), di ormone paratiroideo (PTH) (P = 0.040), di trigliceridi (p = 0,048), di colesterolo totale (p = 0,012) e ​​a bassa densità (LDL) (p = 0.044).  Inferiori risultavano, invece, i termini d’insulino-sensibilità, valutati nello studio (p = 0,047) e c'era una correlazione significativa tra 25 (OH) D con l’IMC (r = -0,58, p = 0,01), il PTH (r = -0,44, p <0,01), l’insulino-sensibilità (r = 0.43, p <0,01), il colesterolo totale (r = -0,34, p = 0,030), le LDL (r = -0,40, p = 0,023), i trigliceridi (r = 0.45, p = 0,01) ma non con le HDL. L’IMC è risultato il più potente predittore della concentrazione di 25 (OH) D (r = -0,52, p <0,01), mentre l’insulino-sensibilità non è stata significativa. Lo studio suggerirebbe, secondo gli AA, che non esiste una relazione causa-effetto tra vitamina “D” e insulino-sensibilità. Nell'obesità, in effetti, sia la bassa concentrazione di 25 (OH) D sia insulino-resistenza sembrerebbero dipendere dalla dimensione corporea.


Aumento di vit. “D” con la perdita di peso

Caitlin Mason, del Fred Hutchinson Cancer Research Center di Seattle, Washington e colleghi, con l'obiettivo di indagare gli effetti di dodici mesi di perdita di peso attraverso la restrizione calorica e l’esercizio fisico sui livelli sierici della 25 (OH) D, hanno studiato 438 donne in sovrappeso e obese in postmenopausa, randomizzate a modificazioni della dieta (n = 118), dell’esercizio fisico (n = 117), della dieta più esercizio fisico (n = 117), verso un gruppo di controllo (n = 87). Il gruppo sotto intervento dietetico ha ricevuto l’obiettivo del 10% di perdita di peso, secondo un programma di ridotto contenuto calorico, mentre quello sotto intervento dell’esercizio ha osservato quarantacinque minuti di attività aerobica il giorno per cinque giorni / settimanali, d’intensità da moderata a vigorosa. Utilizzando un immunodosaggio competitivo di chemiluminescenza, i ricercatori hanno misurato i livelli sierici della 25 (OH)D al basale e a dodici mesi. I gruppi sotto intervento attivo e quelli di controllo non hanno mostrato differenze significative della 25 (OH)D del siero. Le donne con perdita di peso minore del 5%, dal 5% al ​​9,9%, dal 10% al 14,9% o del 15% o più del peso di base avevano rispettivamente incrementi medi della 25 (OH)D di 2,1 - 2,7 - 3,3 e 7,7 ng / mL (p trend = 0,002). Lo stato della vitamina al basale non si associava con qualsiasi modulazione degli effetti degli interventi sulla perdita di peso o dei cambiamenti nella composizione corporea a dodici mesi di follow-up. Un maggior livello di perdita di peso, attraverso la dieta o un ridotto contenuto calorico o maggiore esercizio fisico, si associava, invece, a un aumento della 25 (OH)D circolante. Nello studio vi è stato il limite di non poter determinare se lo stato della vitamina “D” potesse aver influenzato la perdita di peso e se l'esposizione solare potesse aver contribuito in qualche modo sui risultati (Am J Clin Nutr. Published online May 25, 2011).


Razza e tipo di obesità nei bambini carenti di vit. “D”

Silva A. Arslanian dell’University of Pittsburgh School of Medicine, Pennsylvania e collaboratori hanno voluto valutare l'associazione tra lo stato di vitamina “D”, adiposità totale e addominale e lipidi nei bambini di razza bianca verso quelli di colore (J Clin Endocrinol Metab. 2011; 96:1560-1567). Hanno, così, sottoposto 237 bambini obesi e non, bianchi e neri dagli otto ai diciotto anni a misurazione della 25-idrossivitamina D (25 [OH]D) plasmatica, dell’adiposità (indice di massa corporea [IMC] con la percentuale del grasso corporeo totale, del tessuto adiposo viscerale IVAT], e di quello sottocutaneo [SAT]) e dei lipidi a digiuno. L'età media era di 12,7 ± 2,2 anni, il 47% erano neri, il 47% erano obesi e il 43% erano maschi.
Per l'intera coorte la concentrazione di 25 (OH)D è stata di 19,4 ± 7,4 ng / mL e la sua carenza, definita da valori inferiori ai 20 ng / mL, era presente nel 40% dei bambini bianchi e nel 73% dei neri. Nella coorte complessiva vi era un'associazione inversa tra la 25 (OH)D e l’IMC, l’IMC percentile, la percentuale di grasso corporeo totale, il VAT e il SAT. Vi era, invece, un'associazione positiva con il livello di colesterolo HDL. Rispetto alla loro corrispondente controparte non deficiente in vitamina, i bianchi carenti avevano un più alto VAT, mentre i neri con deficit avevano più alto il SAT. Predittivi indipendenti significativi dello stato di 25 (OH)D erano la razza, la stagione, lo stato puberale e il VAT. Le probabilità di carenza erano più alte nella razza nera, rispetto alla bianca (odds ratio [OR], 6,00, p <.001), nel sesso femminile vs maschile (OR, 2.01, P = 0,023), nei bambini in età prepuberale vs il puberale (OR, 2,88, p = 0,012) e in inverno / primavera vs estate / autunno (OR, 2.29, P = 0,010). Inoltre, per ogni incremento di 10 cm ² del VAT vi era un aumento dell'OR per la carenza di vitamina di 1,087 (p = 0,042). L’esame congiunto dei giovani bianchi e neri dimostrava che i livelli più bassi di 25 (OH) D erano associati a misure di adiposità superiori e di HDL inferiori.


Supplementazione di vitamina D per neonati e le madri che allattano

Il latte umano, che contiene in genere una concentrazione di vitamina “D” di 25 UI per litro o meno, spesso non è sufficiente a mantenere da solo i livelli della sostanza nel neonato per cui molte madri che allattano richiedono in via ottimale una supplementazione.

Nel 2003, l'American Academy of Pediatrics raccomandava 200 UI di vitamina “D” da utilizzare come integrazione per tutti i neonati dai primi due mesi dalla nascita, ma più recentemente, nel 2008, la dose è stata portata a un minimo di 400 UI/die durante i primi giorni di vita per prevenirne la carenza e, quindi, il rachitismo. Oltre a tale malattia e al rischio di sviluppo del DM di tipo I, possono, peraltro, derivare dai livelli insufficienti di vitamina nei bambini e le loro madri altre condizioni di salute sia in fase pediatrica sia nell’adulto. Per tale motivo le organizzazioni sanitarie nazionali, come nel 2007 la Canadian Pediatric Society, hanno consigliato fino a 2000 UI di vitamina “D3” per le mamme in gravidanza e in allattamento con esami del sangue periodici per controllarne i livelli insieme al calcio. Da ricordare che i medici dovrebbero controllare la 25-OH-D sierica e non la 1,25-OH2-D nei neonati con disturbi di malassorbimento o che assumono farmaci anticonvulsivanti perché potrebbe essere necessaria un’ulteriore integrazione superiore alle 400UI/die. I valori attualidi25-OH-D che determinano sufficienza nei bambini sono corrispondenti ai 20 ng /ml come per gli adulti. Importante è, in ogni caso, fare massima attenzione alle varie cause di carenza di vitamina.

Adeguate quantità di vitamina possono essere, comunque, raggiunte con l’uso dei prodotti attualmente disponibili multivitaminici contenenti 400 UI.


Vit. “D” e sindrome metabolica

Hanne L. Gulseth dell’Oslo University Hospital e collaboratori, dal loro canto, hanno valutato i dati di 446 caucasici, di età compresa tra i 35 e i 70 anni, con IMC 20-40 kg/m2, reclutati nel 2005 e 2006 per lo studio Lipgene (NCT00429195) in otto paesi europei (Diabetes Care 33:923–925, 2010). Tutti i soggetti avevano la sindrome metabolica definita da tre o più criteri del NCEP ATP –III (National Cholesterol Education Program Adult Treatment Panel-III). È stato eseguito il test endovenoso (IVGTT) di tolleranza al glucosio e si è misurata la sensibilità insulinica, l’insulinoresistenza, la vitamina D2 e D3. La loro ricerca non ha dimostrato significative associazioni tra i parametri di secrezione e azione dell’insulina derivata dall’IVGTT e le concentrazioni nel siero di “D3”. La concentrazione sierica della 25 (OH)D3 è stata di 57,1 ± 26,0 nmol / l (media ± DS), range 13.7–170.4 nmol/l. Solo novantuno, il 20% dei soggetti, avevano livelli pari a 75 nmol / l, mentre la maggioranza, 227 pazienti, aveva deficit biochimici di vitamina pari a 50 nmol / l. Gli Autori hanno voluto anche precisare che in altre ricerche si erano ottenuti risultati in contrasto con i loro.

In particolare, Chiu KC e collaboratori (Am J Clin Nutr 2004;79:820 – 825), avevano osservato un'associazione positiva, rimasta significativa anche dopo aggiustamento per l’IMC, tra lo stato vitaminico e l'insulinosensibilità in 126 studenti indagati per la tolleranza al glucosio con il clamp iperglicemico. Secondo gli Autori la ragione di tali contrasti risiederebbe nelle differenze delle popolazioni di studio o nei metodi utilizzati per la valutazione della sensibilità all'insulina. Le relazioni significative tra 25 (OH) D e insulina a digiuno e HOMA-IR, riportate da Forouhi NG e collaboratori (Diabetes 2008;57:2619–2625), da Lu L e collaboratori (Diabetes Care 2009;32:1278–1283) e da Liu E e collaboratori (J Nutr 2009;139:329–334), dovrebbero, sempre per gli studiosi, dipendere dal fatto che la popolazione dei loro soggetti studiati con sindrome metabolica era costituita da un gruppo più omogeneo. In conclusione, le evidenze, sino a oggi accumulate sia sugli animali di laboratorio sia sull’uomo, indicherebbero un ruolo essenziale per la vitamina “D” nei riguardi della secrezione e azione dell'insulina con rischio di diabete, e di sindrome metabolica. Pur tuttavia, risulta ancora necessario ottenere ulteriori dati che possano garantire il valore e l’affidabilità della supplementazione su larga scala della vitamina per ridurre l'incidenza di queste malattie.
Peraltro, Anastassios G Pittas e colleghi del Tufts Medical Center, Boston nella loro matanalisi (Ann Intern Med 2010; 152:307-314) avevano concluso che l'associazione tra stato della vitamina "D" e gli esiti cardiometabolici era ancora un dato incerto (vedi notiziario marzo 2010 N°3).


La bassa vit. “D” negli adolescenti può predire i fattori di rischio cardiovascolare?

JaredP Reis dello Johns Hopkins Medical Institutions di Baltimora e collaboratori, sulla base che poco è stato studiato sul legame tra i livelli di vitamina “D” e i fattori di rischio cardiovascolare negli adolescenti, hanno analizzato (Pediatrics2009;124:e371–e379)i dati di3.577 adolescenti dai dodici ai diciannove anni, nel 51% maschi, partecipanti al NHANES 2001-2004 (National Health and Nutrition Examination Survey). La media di 25 (OH) D sierica era di 24,8 ng / mL e quelli con i livelli di vitamina “D” nel quartile più basso (<15 ng / mL) avevano molto maggiore probabilità, quasi quattro volte, di sindrome metabolica, iperglicemia, ipertensione, rispetto a quelli del più alto quartile (> 26 ng / mL), indipendentemente dai fattori confondenti, compresa l’obesità (vedi anche notiziario marzo 2010 N°3).

Vijay Ganji del Georgia State University, Atlanta e collaboratori, considerando che nei bambini le associazioni tra i livelli sierici di 25 (OH)D e la sindrome metabolica (S.M.), insulino-resistenza (IR) e l'infiammazione non sono ancora abbastanza chiare, hanno svolto uno studio utilizzando i più aggiornati dati statunitensi sulla 25 (OH)D, rilasciati dal National Center for Health Statistics nel mese di novembre 2010 (Am J Clin Nutr 2011; 94:1 225-233). Hanno, così revisionato tre cicli del NHANES (2001-2002, 2003-2004 e 2005-2006) per 5.867 adolescenti, di età compresa tra 12-19 anni, per studiare l'associazione, multivariata e aggiustata per regressione, tra la vitamina e la prevalenza di S.M. e diversi fattori di rischio cardiometabolico. La probabilità di S.M. si realizzava significativamente più marcatamente nel primo terzile di 25 (OH)D rispetto al terzo terzile (odds ratio: 1,71, IC 95%: 1,11, 2,65, p <0,01). La circonferenza vita (p <0,0001), la pressione arteriosa sistolica (p = 0,01) e il modello di valutazione omeostatico, indice d’insulino-resistenza (p = 0,001) erano inversamente proporzionali, mentre le HDL (p <0,0001) lo erano direttamente. Nessuna associazione si osservava tra la 25 (OH)D e la proteina C-reattiva (p = 0,18). In conclusione, sulla base dei dati dei test aggiustati, la 25 (OH)D risultava significativamente associata con alcuni fattori di rischio cardiometabolico a prescindere dall’obesità. Sembrerebbe, di conseguenza, giustificata la supplementazione nei bambini con S.M. e cattivo stato di vitamina “D” per invertire i fattori di rischio cardiometabolico.
Sara A Chacko dellUniversity of California, Los Angeles e collaboratori sulla base degli scarsi dati sulla relazione tra la bassa 25 (OH)D con i lipidi, hanno compiuto un’analisi trasversale (Am J Clin Nutr 2011; 94:1 209-217) su 292 donne studiando le concentrazioni sieriche della vitamina, dell’insulina a digiuno, del glucosio, dei lipidi, considerando la presenza di adiposità e della sindrome metabolica. Le donne di età compresa tra i 50-79 anni, erano tutte in postmenopausa, partecipanti al WHI-CaD (Women's Health Initiative Calcium–Vitamin D). Nei modelli di regressione lineare ponderata, aggiustati per età, razza, etnia, mese di prelievo del sangue, regione, caso-controllo di stato, fumo, alcol, attività fisica e storia dei fattori di rischio cardiometabolico, si rilevava un'associazione inversa tra la 25 (OH)D con l’adiposità [indice di massa corporea (IMC): β = -1,12 ± 0,30, p = 0,0002; circonferenza vita: β = -3,57 ± 0,49, p <0,0001; rapporto vita-fianchi: β = -0,01 ± 0,002, P <0,0001], trigliceridi (β = -0,10 ± 0,02, p <0,0001) e rapporto trigliceridi/HDL-colesterolo (β = -0,11 ± 0,03, p = 0,0003). L’odds ratio multivariato, aggiustato per la sindrome metabolica per il più alto (≥ 52 nmol / l) rispetto al più basso (<35 nmol / L) terzile di 25 (OH) sierica era 0.28 (IC 95%: 0,14, 0,56). L’associazione rimaneva significativa anche dopo aggiustamento per l’indice di massa corporea. Non si osservava, invece, una significativa associazione con il colesterolo LDL, il colesterolo HDL, l'insulina, il glucosio, la valutazione del modello omeostatico d’insulino-resistenza (HOMA-IR) o la valutazione del modello omeostatico della funzione delle cellule β (HOMA-β). In conclusione, ai più alti livelli di 25 (OH)D corrisponderebbero nelle donne in postmenopausa inverse condizioni di adiposità, trigliceridi, rapporto trigliceridi/colesterolo HDL e la sindrome metabolica, ma non le LDL, le HDL, l’insulina, la glicemia, l’HOMA-IR e l’HOMA- β.

 

 

 

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Sei qui: Notiziario AMEC Anno 2011 notiziario Settembre 2011 N°8 - VITAMINA “D” E MALATTIE CARDIOMETABOLICHE