Vit. “D” e diabete
La carenza di vitamina “D” è, di fatto, uno dei principali problemi pubblici di salute nel mondo a causa della sua diffusione in progressivo aumento e dei rischi potenziali di malattie a essa connessi. In particolare, studi sperimentali più recenti hanno fornito anche la crescente evidenza sul suo sostanziale ruolo sulla secrezione pancreatica d’insulina e sulla sua azione periferica attraverso il legame al suo specifico recettore VDR. Da una parte, invero, le evidenze osservazionali principalmente degli studi trasversali, hanno dimostrato, come la dieta povera di vitamina o, comunque, i suoi livelli sierici siano inversamente correlati all'intolleranza glucidica, alla resistenza all'insulina, alla diminuzione della sua secrezione e all’aumento, quindi, del rischio della sindrome metabolica.
D’altra parte, altri studi osservazionali hanno riportato l’associazione, o la sua mancanza, tra i polimorfismi VDR e il diabete di tipo 2, la glicemia a digiuno, l’intolleranza al glucosio, la sensibilità e la secrezione d’insulina e i livelli di calcitriolo.
Le evidenze della ricerca di base e gli studi osservazionali hanno, quindi, suggerito come il consumo di vitamina “D” o di alimenti, che ne siano ricchi, possa proteggere contro lo sviluppo di diabete tipo 2, attraverso un effetto benefico sull’insulina e sull’omeostasi glucidica.
Tale dato assume, di certo, maggiore importanza se si tiene conto che il diabete mellito si sta dimostrando dagli ultimi decenni una malattia epidemica,
colpendo più di 170 milioni di persone in tutto il mondo con incremento stimato intorno al 42% entro il 2025 tra gli adulti dei paesi sviluppati e al 170% tra quelli dei paesi in via di sviluppo. Peraltro, l'insulino-resistenza e la disfunzione progressiva delle cellule βdel pancreas sono ormai indicate come i due fondamentali passaggi nella patogenesi della malattia. A tal punto viene da domandarsi: l’epidemia del diabete e dell’ipovitaminosi “D” sono una coincidenza reale?
Peraltro, in via collaterale, altri dati di studi osservazionali e sperimentali suggeriscono diversi effetti fisiologici della vitamina, come quelli riguardanti i parametri metabolici singoli o combinati, quali l’adiposità, la pressione sanguigna, il metabolismo dei lipidi, l'intolleranza glucidica, la secrezione d’insulina e l’insieme della sindrome metabolica. La vitamina, in effetti, può influire direttamente nella patogenesi del diabete legandosi, come detto, alle cellule βin funzione del suo recettore VDR. Difatti, l’alterazione del gene VDR ha dimostrato nei topi una marcata compromissione nella capacità secretoria insulinica con una riduzione dei livelli mRNA dell’ormone, pur mantenendosi normali la massa delle isole, la loro architettura e gli isolotti di neogenesi. Pur tuttavia, la vitamina può anche influenzare indirettamente la secrezione insulinica calcio-dipendente tramite la regolazione del trasporto del calcio attraverso la ß-cellula. D'altro canto, il suo effetto sulla resistenza insulinica può non essere diretto e potrebbe derivare dai suoi effetti benefici sulla adiposità. Comunque, diversi altri meccanismi possono entrare in causa, come lo stimolo dell’espressione dei recettori per l'insulina, la regolazione del pool del calcio e la modulazione di espressione e dell’attività delle citochine, tutte condizioni che possono spiegare anche il miglioramento dell'azione insulinica sui tessuti periferici.
I dati sull'uomo, inoltre, supportano l'ipotesi che i bassi livelli di vitamina si associano all’alterata funzione delle cellule β, all'insulinoresistenza e all’intolleranza al glucosio. Molti sono, infatti, gli studi trasversali che hanno esaminato tra i non diabetici l’associazione tra dieta o tra i livelli della vitamina con i biomarcatori surrogati dell’omeostasi del glucosio, come l’HbA1c, l’emoglobina glicosilata, l’HOMA-IR, modello di valutazione della resistenza all'insulina e l’HOMA-B, modello di funzione delle cellule β.
L'evidenza epidemiologica, relativa al rapporto dei bassi livelli di vitamina “D” in circolo con l’iperglicemia, l'insulinoresistenza o il diabete di tipo 2, deriva principalmente dalle ricerche cross sectional, anche se nelle malattie croniche sarebbe preferibile per lo studio a lungo termine un’analisi prospettica di coorte. Pur tuttavia, i dati prospettici sui livelli di vitamina “D” e l’incidenza del diabete di tipo 2 sono relativamente limitati.
Liu E della Tufts University, di Boston e collaboratori hanno esaminato (J Nutr 2009, 139:329–334) l’associazione tra 25 OH D e i marcatori del fenotipo insulino-resistente in 808 non diabetici del Framingham Offspring Study. Sono state, così, ottenute la glicemia e l’insulinemia a digiuno e dopo test orale di tolleranza al glucosio (OGTT) con calcolo dell’HOMA-IR (modello di valutazione omeostatico dell’insulino-resistenza) e dell’indice l’ISI 0, 120 (indice di sensibilità all'insulina). Hanno anche misurato l’adiponectina plasmatica, i trigliceridi, le concentrazioni del colesterolo HDL, quali marcatori anch’essi del fenotipo insulino-resistente. Dopo aggiustamento per l’età, il sesso, la BMI, la circonferenza vita e lo stato di fumatore, le concentrazioni plasmatiche di 25 (OH) D si rivelavano inversamente associate con la glicemia a digiuno, le concentrazioni d’insulina e l’HOMA-IR. In confronto con i partecipanti della categoria del più basso terzile di 25 (OH) D, quelli del più alto avevano una concentrazione più bassa dell’1,6% di glicemia a digiuno (p-trend = 0,007), del 9,8% d’insulina plasmatica a digiuno (p-trend = 0,001), e un 12,7% in meno di punteggio HOMA-IR (p-trend <0,001). Dopo aggiustamento per età e sesso, la 25 (OH) D si associava positivamente con l’ISI 0, 120, l’adiponectina plasmatica e il colesterolo HDL, mentre inversamente con i trigliceridi. Tali associazioni, però, non erano più significative dopo una nuova regolazione per l’IMC, la circonferenza vita e lo stato di fumatore. Questi risultati suggerivano agli AA che la vitamina “D” può essere un fattore determinante per lo sviluppo del diabete mellito di tipo 2.