NOTIZIARIO Luglio 2012 N°7
"NUTRIENTI E SALUTE COGNITIVO-MENTALE E CARDIOVASCOLARE"
A cura di:
Giuseppe Di Lascio §
Susanna Di Lascio***
Con la collaborazione di:
I meccanismi del cambiamento cognitivo legato all’età
Numerosi studi sono ormai dedicati all’esplorazione dei meccanismi che determinano le malattie cardiovascolari e neurodegenerative e complessivamente alla progressiva senescenza con il suo inesorabile declino delle funzioni. Pur tuttavia, la vita comune e la letteratura scientifica offrono ridondanza di esempi d’individui che invecchiano in salute senza subire un rapido declino delle loro capacità cognitive e cardiovascolari. Comunque, quando presenti, queste menomazioni sono spesso precedute da infezioni, interventi chirurgici, o lesioni, a dimostrazione ultima che il cervello e l’apparato cardiovascolare dell’anziano sono particolarmente vulnerabili. Di certo, questi processi s’intrecciano attraverso percorsi metabolici multipli, ma la natura delle loro potenziali interazioni nel modulare l'invecchiamento funzionale, soprattutto cognitivo, resta ancora difficile da chiarire nella sua complessità. L'invecchiamento può innescare, in effetti, come per il processo aterosclerotico, il rilascio di citochine proinfiammatorie dalla microglia del cervello che, se prolungato in risposta a lesioni o infezioni, può provocare danni o morte dei neuroni invecchiati. Inoltre, le citochine in eccesso possono interferire con l'attivazione dei geni immediati precoci, compromettendo la memoria.
D’altro canto, lo stress ossidativo tende a compromettere l’equilibrio di molecole importanti per la funzione cognitiva. A tal proposito gli NMDA (N-Methyl-D-Aspartate), recettori ionotropici postsinaptici dell'acido glutammico, importanti per il potenziamento a lungo termine sembrano particolarmente sensibili a questo effetto. Sorprendentemente, molti degli effetti dell'invecchiamento possono essere alleviati da un agente riducente, suggerendo la loro reversibilità.
Il ruolo dell’insulina e quello dell’insulino-resistenza sul sistema cardiovascolare sono oggi giorno ben noti. Sul decadimento cognitivo legato all'età e sulla malattia di Alzheimer gli stessi sono stati anche studiati attentamente. In particolare, l’insulinoresistenza comporta un’alterazione del metabolismo del glucosio cerebrale, una ridotta clearance della beta-amiloide, un’aumentata infiammazione e, quindi, una disfunzione cognitiva. Al contrario, gli interventi che migliorano la sensibilità all'insulina, come l'esercizio fisico e alcuni fattori dietetici e farmacologici, hanno dimostrato una protezione nei confronti della disfunzione cognitiva e dell’Alzheimer.
Yaffe K dell’University of California e collaboratori, proprio in conformità a diversi, precedenti studi sul possibile ruolo dei fattori di rischio cardiovascolare nel determinismo dell’invecchiamento cognitivo e della particolare prevalenza della sindrome metabolica negli anziani, hanno inteso verificare nelle donne di tarda età l'associazione di quest’ultima con la compromissione cognitiva (Arch Neurol. 2009 Mar;66(3):324-8).
Lo studio è stato condotto presso 180 centri clinici in venticinque paesi per un totale di 4.895 anziane di età media di 66.2 anni, con osteoporosi ma senza compromissione cognitiva. In un totale di 497 donne, il 10,2%, con sindrome metabolica trentasei, il 7,2%, sviluppavano il deterioramento cognitivo rispetto alle 181, pari al 4,1% su 4.398 senza la sindrome (odds ratio aggiustata per età, 1,66; intervallo di confidenza al 95%, 1,14-2,41). Il numero medio (SD) delle componenti della sindrome metabolica per tutte le donne era di 1,0 (1,1); 518, il 10,6%, erano obese, 895, il 18,3%, ipertrigliceridemiche, 1.200, il 24,5%, avevano basse HDL, 1.944, il 39,7%, l’ipertensione e 381, il 7,8%, l’iperglicemia a digiuno. L’aumento del rischio aggiustato per l’età di sviluppare il decadimento cognitivo era 23,0% (odds ratio, 1.23; intervallo di confidenza al 95%, 1,09-1,39) per ogni unità di aumento del numero delle componenti. L’ulteriore aggiustamento multivariato riduceva di poco l'effetto. In conclusione, secondo gli Autori, lo studio rivelava nelle donne anziane l'associazione tra la sindrome metabolica e il numero delle sue componenti con il rischio di sviluppare decadimento cognitivo.
Per loro conto, Suzanne Craft dell’University of Washington e collaboratori, sulla base della crescente evidenza della ricerca di base e degli studi epidemiologici sull'uomo, secondo cui le anomalie dell’infiammazione, dello stress ossidativo e del metabolismo si sono viste in associazione con il declino cognitivo e la perdita delle funzioni dell’invecchiamento, hanno voluto riassumere i dati della letteratura scientifica nei meriti (J Gerontol A Biol Sci Med Sci (2012) 67 (7): 754-759). Hanno, così, presentato le evidenze contestuali, tracciando i ruoli dei processi e i percorsi in materia del declino cognitivo correlato all’età, indicando anche i possibili obiettivi d'intervento negli anziani dementi. Gli Autori hanno discusso anche di argomenti specifici, riguardanti ad esempio le differenze nella produzione delle citochine con l’età a seguito di una lesione o di un'infezione, i meccanismi alla base delle variazioni indotte dallo stress ossidativo dell'area di consolidamento della memoria, gli effetti di segnalazione e di memoria dell'insulina sul cervello e l'associazione tra la sindrome metabolica e il declino cognitivo negli anziani. Queste segnalazioni sottolineano i progressi nella comprensione attuale dei meccanismi e dei modificatori del declino cognitivo correlato all’età e forniscono una visione degli obiettivi potenziali per promuovere la salute cognitiva nella popolazione più anziana.
Acidi grassi omega-3 e salute mentale
Alcuni studi epidemiologici sulle popolazioni hanno suggerito l'associazione tra l’alto consumo di pesce e il minor rischio di danni alla salute, tra cui le malattie cardiovascolari, ampiamente studiate, e la demenza. In effetti, nella coorte originale del Framingham Study i soggetti con i più alti livelli di DHA (docosahexaenoic acid) presentavano anche una riduzione del 47% di tutte le cause di demenza e in particolare un rischio del 39% inferiore di sviluppo del morbo di Alzheimer. A tale proposito, è già stato riportato lo studio di Bayer-Carter nel notiziario del maggio 2012 (Arch Neurol. 2011;68(6):743-752).
Per loro conto, Sydenham E della London School of Hygiene & Tropical Medicine e collaboratori hanno eseguito una revisione della letteratura scientifica per valutare gli effetti della supplementazione degli ω-3 PUFA per la prevenzione della demenza e il declino cognitivo nelle persone anziane cognitivamente sane (Br J Nutr. 2012 Jun;107 Suppl 2:S152-8). Hanno, così, analizzato studi clinici controllati randomizzati d’intervento con ω-3 PUFA, comprendenti l'acido alfa linolenico (ALA) e due acidi grassi a catena più lunga, l'acido eicosapentaenoico (EPA) e docosaesaenoico (DHA), per un minimo di sei mesi in persone di età dai sessanta anni e oltre, senza demenza o deficit cognitivo iniziali. Hanno, quindi, calcolato la differenza media (DM) o le differenze medie standardizzate (DMS) e gli intervalli di confidenza al 95% (IC) su un’intention-to-treat e riassunto narrativamente le informazioni sulla sicurezza e l’aderenza.
Per la revisione sono stati, quindi, selezionati dall’ALOIS (Cochrane Dementia and Cognitive Improvement's Specialized Register) tre studi di alta metodologia, sulla base del loro disegno randomizzato.
Le informazioni sulla funzione cognitiva all'inizio degli studi erano disponibili in 4.080 partecipanti randomizzati in tre trial. Alla fine del follow-up, i dati erano disponibili in 3.536 persone. In due degli studi i partecipanti hanno ricevuto capsule in gel con ω-3 PUFA (l'intervento) o con olio di oliva o di girasole (placebo) per sei o ventiquattro mesi. Nell’altro, i partecipanti hanno ricevuto crema di margarina per quaranta mesi. La margarina per il gruppo d’intervento conteneva, invece, ω-3 PUFA. Due studi avevano, come outcome primario, la salute cognitiva, il terzo le malattie cardiovascolari con in più la salute cognitiva. Nessuno degli studi esaminava l'effetto degli ω-3 PUFA sull’incidente di demenza. In due studi, che hanno coinvolto 3.221 partecipanti, al follow-up finale (24 o 40 mesi successivi d’intervento) non vi era alcuna differenza al punteggio della MMSE (Mini Mental State Examination) tra il gruppo degli ω-3 e quello del placebo [DM -0,07 (IC 95% da -0.25 a 0,10)]. Nei due studi con 1.043 partecipanti altri test delle funzioni cognitive, quali l'apprendimento della parola, il Digit Span, cioè la ripetizione di cifre in avanti e a rovescio, e la fluenza verbale non dimostravano alcun effetto benefico dalla supplementazione degli ω-3 PUFA. I partecipanti in entrambi i gruppi d’intervento e in quello di controllo non sperimentavano durante il trial nessun ancorché piccolo declino cognitivo. Il principale effetto collaterale riportato per gli ω-3 PUFA interessava solo lievi problemi gastrointestinali. Nel complesso, si riportavano minori eventi avversi in meno del 15% dei partecipanti e le relazioni tra i gruppi d’intervento erano ben bilanciate. L'adesione al completamento delle prove era in media superiore al 90%. Tutti e tre gli studi inclusi in questa revisione erano, peraltro, di alta qualità metodologica. Secondo gli Autori, l’evidenza diretta degli effetti degli ω-3 PUFA sull’incidenza della demenza sarebbe stata, quindi, carente. Le prove disponibili non avrebbero dimostrato alcun beneficio con la supplementazione sulla funzione cognitiva degli anziani cognitivamente sani. Pur tuttavia, questi acidi grassi erano stati generalmente ben tollerati.
Per il particolare rilievo d’interesse della revisione è d’uopo riportare succintamente di seguito i particolari salienti degli studi presi in considerazione.
Il primo dei Paesi Bassi di Van de Rest della Wageningen University e collaboratori su 302 anziani di sessantacinque anni e oltre, con età media di settanta anni, per il 55% maschi, assegnati in modo casuale a ricevere in un gruppo di novantasei persone alte dosi di 900 mg di ω-3 PUFA in sei capsule di gelatina molle (EPA 1093 mg + 847 mg di DHA) per un totale di 1800 mg/die, in un altro di 100 soggetti un basso dosaggio di 400 mg (EPA 226 mg + 176 mg di DHA) e nell’ultimo di 106 unità un’alta quantità di olio di girasole come placebo (Journal of the American Geriatrics Society, 2009, 57: 1481–1486). La QOL (quality of life) era valutata con la WHOQOL-BREF QOL (World Health Organization QOL questionnaire) riguardante quattro settori: la salute fisica, quella psicologica, le relazioni sociali e la soddisfazione con l'ambiente. La gamma di punteggio totale, con il valore più alta relativo alla condizione più favorevole, variava da ventisei a 130. Le concentrazioni plasmatiche di EPA-DHA erano aumentate del 238% nel gruppo ad alto dosaggio e del 51% in quello a basso, riflettendo, peraltro, un'adesione eccellente dei partecipanti. I punteggi medi di WHOQOL totale basale variavano da 107 a 110 nei tre gruppi e non erano significativamente differenti tra loro. Dopo ventisei settimane, la differenza media, rispetto al placebo, era -1,42 (intervallo di confidenza 95% (IC) = -3.40-0.57) per l'alta dose di olio di pesce e 0,02 (95% IC = -1.95-1.99) per la bassa. Dopo tredici o ventisei settimane d’intervento, il trattamento con 1800 o 400 mg di EPA-DHA non influiva sul totale QOL o su uno qualsiasi dei domini separati. Con tali risultati gli Autori concludevano che la supplementazione per ventisei settimane con le alte o basse dosi di olio di pesce non aveva influenzato la qualità della vita dei loro anziani sani.
Nel secondo studio Alan D Dangour della London School of Hygiene and Tropical Medicine, hanno arruolato in Inghilterra e Galles 867 adulti cognitivamente sani di età compresa tra i settanta e i settantanove anni, con età media di settantacinque, nel 55% uomini, assegnati in modo casuale in un trial in doppio cieco, controllato con capsule di 200 mg di EPA e 500 mg di DHA o di olio d'oliva il giorno per ventiquattro mesi. I partecipanti seguivano al basale e a ventiquattro mesi una batteria di test cognitivi, tra cui principalmente la CVLT (California Verbal Learning Test). L’86%, pari a 748 soggetti, ha completato lo studio con le analisi di covarianza dell’intention-to-treat, aggiustate per i punteggi cognitivi di base, per l’età, per il sesso e per il periodo d’istruzione. Gli abbandoni e le morti erano simili, sia nel gruppo attivo (n = 49 e n = 9, rispettivamente) sia in quello placebo (n = 53 e n = 8, rispettivamente). Le concentrazioni medie (±DS) sieriche di EPA e DHA a ventiquattro mesi erano significativamente più alte nel gruppo attivo, rispetto al braccio placebo (49,9 ± 2,7 mg EPA / L nel gruppo attivo rispetto al 39,1 ± 3,1 mg EPA / L nel braccio placebo; 95,6 ± 3,1 mg DHA / l nel braccio attivo rispetto al 70,7 ± 2,9 mg DHA / l nel braccio placebo). Non vi era alcun cambiamento nei punteggi delle funzioni cognitive oltre i ventiquattro mesi e l’intention-to-treat nella CVLT o in qualunque altro risultato cognitivo secondario non mostrava a ventiquattro mesi differenze significative tra i due gruppi. In conclusione, secondo gli Autori, oltre i ventiquattro mesi le funzioni cognitive non erano ridotte in ogni braccio di studio (Am J Clin Nutr June 2010 vol. 91 no. 6 1725-1732).
Johanna M. Geleijnse della Wageningen University e collaboratori, considerando l’effetto protettivo emerso dagli studi epidemiologici sul declino cognitivo degli acidi grassi n-3 EPA (acido eicosapentaenoico) e DHA (acido docosaesaenoico) derivati dal pesce, sulla base della collaterale scarsa conoscenza sull’ALA (α-linolenico) delle fonti vegetali, hanno incluso per il confronto: acidi grassi ω-3 e malattie cardiovascolari nell’analisi Alpha Omega Trial, in doppio cieco controllato con placebo, 2.911 pazienti con infarto del miocardio degli ultimi dieci anni, nel 78% uomini di età compresa tra i sessanta e gli ottanta anni, (The Journal of the Alzheimer's Association Volume 8, Issue 4 , Pages 278-287, July 2012). Utilizzando il disegno fattoriale 2 × 2, i pazienti erano randomizzati per quaranta mesi a margarina con 400 mg / die di EPA-DHA (rapporto 3:2), 2 g / die di ALA, sia EPA-DHA e ALA, o placebo. La funzione cognitiva era valutata mediante il MMSE (Mini-Mental State Examination) al basale e dopo i quaranta mesi. L'effetto degli acidi grassi ω-3 sul cambiamento dei punteggi MMSE era valutato mediante analisi della varianza. L'analisi di regressione logistica era utilizzata per esaminare gli effetti sul rischio dell'incidenza di demenza o del declino cognitivo, definito come una diminuzione di tre o più punti nel punteggio MMSE. I pazienti nei gruppi di trattamento attivo ricevevano un apporto aggiuntivo di 384 mg di EPA-DHA, di 1,9 g di ALA o di entrambi. Il punteggio MMSE complessivo in questa coorte era 28,3 ± 1,6 punti con calo di 0,67 ± 2,25 nel corso del follow-up. Le variazioni del punteggio MMSE durante l'intervento non erano significativamente differenti tra EPA-DHA e placebo (-0.65 vs -0.69 punti, P = .44) o tra ALA e placebo (-0.60 vs -0.74 punti, P = .12). Il rischio di declino cognitivo era 1.03 (intervallo di confidenza 95%: 0,84-1,26, P = .80) per l'EPA-DHA (vs placebo) e 0,90 (0,74-1,10, P = 0,31) per l'ALA (vs placebo).
In conclusione, questo studio d’intervento di grandi dimensioni non mostrava nessun effetto a livello globale delle dosi alimentari degli acidi grassi ω-3 sul declino cognitivo nei pazienti con malattia coronarica.
A conclusione definitiva di quanto riportato, nessuno dei tre studi ha rivelato cambiamenti sostanziali nelle funzioni cognitive, nonostante un tasso di aderenza terapeutica del 99%. Difatti, per le prove del richiamo verbale immediato e ritardato le differenze medie standardizzate per l'intervento degli ω-3 PUFA erano 0,01 (95% IC, -0,11 a 0,14) e -0,04 (95% IC, -0,16 a 0,09), rispettivamente. Per quanto riguarda i test di fluidità verbale, la differenza media standardizzata era 0,06 (95% IC, -0,06 a 0,18).
Nel digit span, test utilizzato per misurare la capacità di memoria ripetendo avanti e indietro una serie di numeri, c’erano differenze medie di 0,03 (95% IC, -0,25 a 0,31) e 0,12 (95% IC, -0,12 a 0,36), rispettivamente.
Dal loro canto, Zaldy S. Tan dell’University of California, Los Angeles e collaboratori hanno voluto verificare se i livelli di acidi grassi omega-3 nei globuli rossi, che ne riflettono maggiormente l’esposizione, potessero avere un effetto sull’invecchiamento strutturale e cognitivo del cervello all’età medio tardiva della loro vita in soggetti non dementi dell’originale coorte dello studio Framingham (Neurology. 2012;78:658-664). I ricercatori hanno, così, correlato i livelli di DHA (docosahexaenoic acid) ed EPA (eicosapentaenoic acid) eritrocitari di 1.575 persone, di età media di sessantasette anni, di cui 854 donne, con le prestazioni standard dei test cognitivi e con le scansioni volumetriche della risonanza magnetica del cervello. Gli studiosi hanno eseguito aggiustamenti seriali per età, sesso e istruzione, secondo un modello A come primario, un altro B per l’APOE ε4 e per l’omocisteina plasmatica, uno C per l'attività fisica e l’indice di massa corporea e infine uno D per i tradizionali fattori di rischio cardiovascolare. I pazienti, con livelli di DHA nei globuli rossi nel più basso quartile rispetto agli altri Q2-4, avevano un volume totale del cervello inferiore e volumi maggiori d’iperintensità di materia bianca (per il modello A: β ± SE = -0,49 ± 0,19, p = 0,009, e 0,12 ± 0,06, p = 0,049, rispettivamente), con persistenza dei dati anche all'analisi multivariata. Peraltro, i partecipanti con minori livelli di DHA e d’indice ω-3 (DHA + EPA dei globuli rossi) (Q1-Q2 vs 4) avevano punteggi più bassi nei test di memoria visiva (β ± SE = -0,47 ± 0,18, p = 0,008), di funzione esecutiva (β ± SE = -0,07 ± 0,03, p = 0,004) e del pensiero astratto (β ± SE = -0,52 ± 0,18, p = 0,004) nel modello A, rimanendo i risultati significativi in tutti i modelli.
Acidi grassi ω-3 e salute materno-infantile
I risultati precedentemente descritti aggiungerebbero, da una parte ulteriori dati favorevoli agli effetti degli acidi grassi polinsaturi (PUFA) sulla migliore salute del cervello, come il DHA e gli acidi grassi ω-3, dall’altra spiegherebbero come gli scarsi livelli di queste sostanze possano accelerare l'invecchiamento del cervello, diminuendone salute ed efficienza. A tale proposito, gli esperti ricordano come il pesce, in particolare quello azzurro (alici e sardine), sia una delle fonti più importanti degli ω-3. Peraltro, l'aumento di questi grassi nell'interno del sistema biologico materno durante la gravidanza avrebbe il potenziale d’influenzare sia la salute materna sia quella fetale. Analogamente, si è ipotizzato che il loro accumulo all'interno del sistema biologico neonatale dopo il parto avrebbe la potenzialità d’influenzare il suo sviluppo. Per tale motivo, quindi, il peso alla nascita rappresenterebbe il fattore più importante della morbilità e della mortalità neonatale, assumendo, così, un vero e proprio valore per monitoraggio della salute del nascituro. Nel loro primo periodo di vita i neonati prematuri sono, difatti, a rischio di lesioni per ogni sistema di organi e quelli che sopravvivono sono a rischio di deficit neurocognitivi permanenti che tendono a compromettere in modo permanente la salute e le performance funzionali. Già studi, condotti sui residenti delle isole Faroe, hanno suggerito, peraltro, che le diete di alimenti marini, a ricco contenuto di acidi grassi ω-3, sono in grado di aumentare il peso alla nascita, sia prolungando la gravidanza sia aumentando il tasso della crescita fetale. In continuità con questi indizi, si è anche ipotizzato che i grassi derivati dal mare possano ridurre i rischi di alcune complicazioni della gravidanza, come il parto prematuro, il ritardo della crescita intrauterina, la preeclampsia e l’ipertensione gestazionale. Per alcuni di essi, peraltro, sono stati avanzati presunti meccanismi d’azione uguali a quelli dell’aspirina. Inoltre, l'acido docosaesaenoico (DHA) e arachidonico (AA) sono stati identificati come importanti componenti strutturali, altamente specializzati, dei lipidi della membrana del sistema nervoso centrale umano. In effetti, i fosfolipidi della materia grigia del cervello contengono alte percentuali di DHA, che è anche il principale acido grasso polinsaturo a lunga catena (PUFA LC) nei segmenti esterni dei bastoncelli e dei coni della retina. D'altra parte, sulla base di studi osservazionali è stato dimostrato che i neonati nutriti con latte umano dimostrano uno sviluppo neurocognitivo migliore, rispetto a quelli con alimentazione artificiale, probabilmente per la disponibilità dei derivati a catena lunga dell’acido linoleico (LA) e dell’alfa-linolenico (ALA), presenti solo nel latte materno.
Questa differenza nell’assunzione degli acidi grassi si tradurrebbe in una riduzione dei fosfolipidi DHA della membrana eritrocitaria dei neonati nutriti artificialmente. Da notare che, prima della recente disponibilità degli alimenti artificiali fortificati con l'aggiunta degli ω-3 PUFA LC, i lattanti con tale tipo di dieta rimanevano carenti di questi acidi grassi essenziali. Peraltro, il probabile significato del valore degli ω-3 per la salute dei bambini è anche suggerito dalle osservazioni che il cervello e la retina dell’uomo contengono notevoli quantità di questi grassi, di cui i neonati a termine, soprattutto nel terzo trimestre di gravidanza, ricevono in genere una quantità importante. Nella prematurità, invece, il neonato ottiene, a causa del ridotto periodo gestazionale, una minore entità degli stessi acidi grassi di quanto non faccia il bambino termine.
In via contestuale, Lewin GA dell’ University of Ottawa e collaboratori hanno svolto una revisione sistematica della letteratura scientifica medica per identificare, valutare e sintetizzare le evidenze degli effetti degli acidi grassi ω-3 sulla salute materna e infantile (Agenzia per la Ricerca Sanitaria e Qualità (AHRQ). Evid Rep Technol Assess (Summ). 2005 Aug;(118):1-11).
Gli Autori hanno, così, cercato le evidenze in una serie di condizioni riguardanti l'influenza dell’assunzione degli acidi grassi ω-3, come l’integrazione durante la gravidanza, la durata della gestazione, l'incidenza di preeclampsia, di eclapmsia o di GHT (Gestational hypertension) e di SGA (Small for Gestational Age). Lo studio è stato anche rivolto a verificare durante la gravidanza l'associazione tra i biomarcatori materni e gli esiti precedenti della gravidanza. È stata anche analizzata l'influenza dell’assunzione degli acidi grassi ω-3 nel latte materno o come integratori, sui risultati dello sviluppo dei neonati pretermine e a termine, come la crescita, lo sviluppo neurocognitivo e la funzione visiva. Così pure, è stata valutata l'associazione con questi risultati clinici dei biomarcatori materni, fetali o dei bambini. Gli Autori per un programma di ricerca hanno anche esaminato l'impatto dell’effetto dei modificatori e il loro profilo di sicurezza. In conclusione, essi hanno dedotto che gli studi sull'influenza degli ω-3 sulla salute infantile e materna rivelavano assenza di un profilo di notevole sicurezza (vale a dire effetti avversi moderati-gravi). Peraltro, la supplementazione degli acidi grassi ω-3 era senza influenza sugli esiti della gravidanza, oppure i risultati erano inconcludenti. Questi suggerivano anche assenza di effetti per quanto riguardava l'impatto della supplementazione sull'incidenza della GHT, della preeclampsia o dell’eclampsia, come pure dei bambini nati con SGA. Tuttavia, per quanto riguarda le valutazioni della durata della gestazione, si osservavano alcune discrepanze, anche se la maggior parte degli studi non era riuscita a rilevare un effetto statisticamente significativo. Infine, i dati dei biomarcatori non riuscivano a chiarire le modalità di formalizzazione degli esiti della gravidanza.
Così che, i risultati riguardanti l'impatto del consumo degli acidi grassi ω-3 sullo sviluppo dei bambini erano in primo luogo inconcludenti, anche se non in modo uniforme, e le incoerenze dei risultati dello studio potevano essere attribuite a numerosi fattori.
Rivalutazione delle evidenze degli acidi grassi ω-3 nelle malattie cardiovascolari
Le popolazioni che consumano grandi quantità di pesce grasso nella loro dieta tendono ad avere una minore incidenza di malattia coronarica (CHD) e morte cardiaca improvvisa (SCD) in quanto gli oli di pesce sono ricchi di acidi grassi ω-3 polinsaturi (PUFA) con riconosciute proprietà cardioprotettive.
L'interesse per il valore terapeutico degli oli di pesce ha avuto inizio nel 1970 in seguito alla constatazione della bassa incidenza di malattie cardiovascolari negli Inuit della Groenlandia. Successivamente diversi studi hanno riconosciuto negli acidi eicosapentaenoico (EPA) e docosaesaenoico (DHA), due acidi grassi polinsaturi a grande, lunga catena n-3 (ω-3 PUFA), i presunti componenti di protezione di tale condizione. Per altro canto, il ruolo dell’acido α-linolenico (ALA), acid grasso omega-3 di derivazione vegetale a catena più corta, è ancora oggetto di dibattito nei meriti. Sebbene gli esatti meccanismi cardioprotettivi degli acidi grassi ω-3 siano tuttora non del tutto chiariti, sono emerse condizioni precise cliniche in cui questi composti alimentari sono di certo coinvolti.
Peraltro, gli acidi grassi ω-3 sono composti a basso costo con un apparente profilo favorevole di rischio, tra cui una bassa tendenza alle interazioni farmacologiche. Tale dato contribuisce non poco allo sviluppo degli studi scientifici per un’oculata ed efficace loro utilizzazione terapeutica.
In linea con queste osservazioni, numerosi dati epidemiologici, derivati anche da grandi meta-analisi, hanno dimostrato chiare associazioni tra il consumo di pesce, aumento dei PUFA e una prognosi favorevole cardiovascolare.
La maggior parte delle evidenze è stata relativa ai soggetti con elevati livelli tissutali dell’acido eicosapentaenoico (EPA) e docosaesaenoico (DHA), presenti in diverse in differenti tipi di pesce. I benefici clinici sembrano essere più pronunciati nel versante della mortalità per malattie cardiovascolari e della morte cardiaca improvvisa, che si riduce del 50% in chi consuma pesce grasso, almeno una volta la settimana. Da tutto questo deriverebbe la raccomandazione nazionale di prevenzione primaria di mangiare almeno due porzioni di pesce la settimana, una parte delle quali dovrebbe essere costituita da pesce azzurro. Peraltro, per coloro che non sono in grado di introdurre sufficienti quantità di acidi grassi ω-3 nella loro dieta, o che desiderano aumentarne il consumo, sono disponibili diversi preparati di olio di pesce, altamente purificati e concentrati.
A tale proposito, l’ESC (European Society of Cardiology), pur rilevando che il ruolo degli integratori degli acidi grassi ω-3 nella prevenzione secondaria non è ancora chiarito sufficientemente, sulla base delle conclusioni di una meta-analisi nei meriti, raccomanda:
- l'uso degli acidi grassi ω-3 per abbassare i trigliceridi nei pazienti non in grado di raggiungere i livelli adeguati con le sole statine,
- l’aumento del consumo di acidi grassi ω-3, e quindi di pesce azzurro, e la supplementazione con 1 g il giorno di olio di pesce nei pazienti con bassa assunzione di pesce grasso.
Il NICE (National Institute for Health and Clinical Excellence), per suo conto, raccomanda per la prevenzione secondaria del post-infarto miocardico di:
- consumare almeno 7 g di acidi grassi ω-3 a settimana, derivati da due a quattro porzioni di pesce grasso,
- assicurare l'integrazione di acido grasso ω-3 in quei pazienti che hanno avuto un infarto miocardico entro tre mesi e che non ne raggiungono l’apporto dietetico di almeno 7 g a settimana dalle fonti alimentari,
- non utilizzare, pur tuttavia, gli integratori di routine per quei pazienti che hanno avuto un infarto miocardico più di tre mesi prima.
Il SIGN 2007 (Scottish Intercollegiate Guidelines Network), senza pronunciarsi circa l'uso degli integratori degli ω-3 PUFA, raccomanda:
- tutte le persone dovrebbero mangiare almeno due porzioni di pesce la settimana, una delle quali deve essere di pesce grasso.
L’AHA (L'American Heart Association), 2008 suggerisce:
- L’aumento del consumo degli acidi grassi ω-3 dovrebbe essere incoraggiato per la prevenzione secondaria nel post-infarto del miocardio. Per la riduzione del rischio si può consumare pesce, limitandolo nella gravidanza o allattamento, o somministrare capsule di 1 g il giorno. Nel trattamento dell’elevata trigliceridemia, per la riduzione del rischio, sono di solito necessarie dosi più elevate.
Kristian B Filion della McGill University, Montreal e collaboratori, proprio sulla base dei risultati contrastanti dei diversi studi randomizzati e controllati (RCT) sugli effetti cardiovascolari degli acidi grassi ω-3, hanno effettuato una meta-analisi rivolta a valutare l’efficacia, la sicurezza di questi nutrienti e la potenziale eterogeneità delle fonti (BMC Cardiovasc Disord. 2010; 10: 24). Hanno, così, cercato, senza restrizioni di lingua, gli articoli originali, le revisioni sistematiche e le meta-analisi, pubblicati dal gennaio 1966 al settembre 2008, sugli acidi grassi ω-3 e le malattie cardiovascolari. Un totale di ventinove RCT, corrispondenti a 35.144 pazienti, di cui venticinque riportavano la mortalità e quattordici la restenosi, incontrava i criteri d’inclusione.
Gli acidi grassi ω-3 non si associavano con una diminuzione statisticamente significativa della mortalità (RR [rischio relativo] = 0.88, Cri 95% [Intervallo Credibile] = 0.64, 1.03) o con la prevenzione della restenosi (RR = 0,89, 95% CRI = 0,72, 1,06), anche se la probabilità di qualche beneficio rimaneva elevata (0,93 e 0,90, rispettivamente). Tuttavia, nella meta-regressione c'era una probabilità maggiore del 90% che i grandi studi e quelli con più lungo follow-up fossero associati ai più piccoli benefici. Riguardo alla sicurezza, non s’identificavano problemi seri. In conclusione, pur non raggiungendo la significatività statistica convenzionale, le evidenze riscontrate dagli Autori suggerivano che gli acidi grassi ω-3 potevano tradursi in una modesta riduzione della mortalità e della restenosi. Tuttavia, da questo studio emergeva la raccomandazione di cautela nell'interpretazione di questi benefici attenuati, in effetti, negli studi di qualità superiore.
Per porre fine alla questione del rapporto tra acidi grassi ω-3 e malattie cardiovascolari e, quindi, all’incertezza del loro beneficio Alan Begg dell’University of Dundee, Scotland e collaboratori, hanno convocato una riunione di professionisti delle malattie cardiovascolari del Regno Unito per una rassegna di dati relativi agli oli di pesce nella dieta e alla loro possibile supplementazione (Br J Cardiol. 2012;19(2):79-84). Gli Autori hanno, quindi, convenuto che:
- Il ben noto effetto di abbassamento dei trigliceridi mostra un effetto lineare e dose-dipendente, ma con variabilità individuale di dose/risposta. Dosi di almeno 2 g / die sono necessarie per conseguire una riduzione significativa e le maggiori assolute si ottengono nei casi con livelli basali di trigliceridi più elevati.
- Gli effetti antitrombotici si basano sull'osservazione alle dosi molto elevate dell’aumento dei tempi di sanguinamento, ad esempio 15 g / die. Pur tuttavia, negli studi clinici non si sono registrati effetti consistenti sull’aggregazione piastrinica o sui fattori della coagulazione. A dosi fino a 4 g / die è improbabile che gli effetti antitrombotici costituiscano un percorso importante per un più basso rischio cardiovascolare, pur non potendosi escludere sottili implicazioni.
- Per quanto riguarda la funzione endoteliale, diverse evidenze hanno chiarito che il consumo degli ω-3 aumenta la biodisponibilità dell'ossido nitrico (NO) con consequenziale maggiore dilatazione arteriosa flusso-mediata, indice di un miglioramento della funzione endoteliale. Può anche essere migliorata la funzione autonomica, come conseguenza dell’aumento del tono vagale.
- In ordine all’insufficienza cardiaca, nei pazienti che assumono ω-3 PUFA è stato osservato l'aumento della frazione di eiezione cardiaca.
- Gli effetti biologici degli ω-3 PUFA sull’insulino-resistenza sono attualmente poco chiari. Così pure, non si sa bene se i loro noti effetti anti-infiammatori siano clinicamente significativi.
- L'attività antiaritmica degli ω-3 PUFA ha rappresentato una documentazione impegnativa negli studi sull'uomo. Gli esperimenti sugli animali suggeriscono, in effetti, che essi possano influenzare direttamente l’elettrofisiologia atriale e ventricolare e che, alterando la funzione dei canali ionici della membrana, possano contribuire a ridurre l’eccitabilità dei miociti e, quindi, potenzialmente l’attivazione dell’aritmia.
In definitiva, il gruppo di Alan Begg ha concluso che i meccanismi clinicamente rilevanti con cui gli ω-3 PUFA intervengono nell’aritmia cardiaca sono, comunque, sconosciuti. Pur tuttavia, i dati della letteratura dimostrano una dose-effetto di una sua riduzione con una dieta arricchita di pesce. Peraltro, la maggior parte degli studi d’intervento nell’alto rischio cardiovascolare, se pur nella loro l'eterogeneità, hanno fornito prova di un impatto positivo degli ω-3 sui principali eventi cardiovascolari. Su larga scala i dati degli studi randomizzati sono più convincenti per tali nutrienti nel post-infarto miocardico.
Il più grande di questi, il GISSI-P (GISSI- Prevention), randomizzato su 11.324 pazienti, ha dimostrato, in effetti, una riduzione del rischio relativo di mortalità totale, di quella cardiaca, anche improvvisa, del 20%, 30% e 45% rispettivamente, con 1 g / die di acidi esteri etilici ω-3 altamente purificati (Omacor ®) nel corso di un periodo di 3,5 anni (Circulation, 2002; 105:1897-1903).
Una riduzione del rischio assoluto, rispetto allo stesso periodo, è stata del 2,1%, 2% e 1,6% per la mortalità generale, quella cardiaca e la SCD (Sudden Cardiac Death), rispettivamente. Significativi benefici della supplementazione sono emersi entro tre o quattro mesi, e sono stati più evidenti, nei pazienti con una più marcata disfunzione ventricolare sinistra. Considerati insieme, questi dati suggeriscono, come meccanismo probabile dei vantaggio, una riduzione dell’aritmia ventricolare.
Gli studi Jelis (Japanese Eicosapentaenoic Acid Lipid Intervention Study), Omega, Alpha Omega (Study of Omega-3 Fatty Acids and Coronary Mortality), GISSI-HF Study (GISSI-Heart Failure) hanno, per loro parte e individualmente, apportato altre evidenze in differenti contesti culturali.
Sono, peraltro, in corso ulteriori studi per portare maggiore chiarezza sull’argomento, come il Gissi-R&P, l’ASCEND (A Study of Cardiovascular Events iN Diabetes), l’OPERA (The Omega-3 Fatty Acids for the Prevention of Post-operative Atrial Fibrillation), il VITAL (VITamin D and OmegA-3 trial).
Come agisce l’olio di pesce
Come riportato, gli acidi grassi ω-3 PUFA sono componenti essenziali della dieta e hanno un buon numero di azioni biologiche. Pur tuttavia, ancora oggi, pur intravedendosi un gran numero di loro effetti, non è ben nota la modalità con cui esercitano i benefici clinici.
Mozaffarian D e Wu JH dell’Harvard Medical School, Boston hanno di recente esaminato le evidenze disponibili in letteratura sugli effetti cardiovascolari del consumo degli acidi grassi n-3 polinsaturi (PUFA) (J Am Coll Cardiol. 2011 Nov 8;58(20):2047-67). Particolare attenzione è stata dedicata agli effetti di quelli a catena lunga dei frutti di mare, alle loro principali fonti alimentari, ai fattori di rischio potenziali, ai percorsi fisiologici molecolari e ai metaboliti bioattivi, agli specifici endpoint clinici e alle linee guida dietetiche esistenti.
Tenuto conto che le principali fonti alimentari degli ω-3 PUFA sono i pesci grassi e i frutti di mare, vi sono dati che dimostrano che il loro consumo riduce i trigliceridi plasmatici, la frequenza cardiaca a riposo e la pressione sanguigna. In via collaterale, potrebbe migliorare con essi anche il riempimento ventricolare del cuore e la sua efficienza, ma si potrebbe ancora ottenere pure una riduzione dell’infiammazione e un potenziamento della funzione vascolare. Studi sperimentali hanno, peraltro, dimostrato effetti diretti anti-aritmici, con dimostrazione di incidere in una miriade di percorsi molecolari. In studi prospettici osservazionali e clinici randomizzati, i benefici degli ω-3 PUFA sembrano più consistenti nei riguardi della mortalità coronarica e della morte cardiaca improvvisa. Gli effetti potenziali su altri outcome cardiovascolari sono, invece, meno ben definiti.
Vi sono, difatti, evidenze contrastanti di studi osservazionali randomizzati e/o sperimentali, riguardo agli effetti sull’infarto miocardico non fatale, sull’ictus ischemico, sulla fibrillazione atriale, sulle aritmie ventricolari ricorrenti e sull’insufficienza cardiaca. Lacune di ricerca comprendono l'importanza relativa dei diversi meccanismi fisiologici e molecolari e la precisione nei rapporti dose-risposte degli effetti fisiologici e clinici. Inoltre, permane incertezza se l'olio di pesce debba offrire tutti i vantaggi del consumo di pesce e sugli effetti clinici degli ω-3 PUFA di origine vegetale. Nel complesso, i dati attuali fornirebbero solide prove concordanti che questi nutrienti siano composti bioattivi che riducono il rischio di morte cardiaca, tanto che le linee guida nazionali e internazionali hanno registrato una convergenza su coerenti raccomandazioni per la popolazione generale di consumare almeno 250 mg / die di ω-3 PUFA a catena lunga, o almeno due porzioni a settimana di pesce grasso. Avrebbero, quindi, effetti anti-aritmici e di stabilizzazione di placca con il potenziale di migliorare la salute cardiovascolare e ridurre il rischio degli eventi clinici. Altre evidenze indirette porterebbero anche a riconoscere a questi acidi grassi la proprietà di ridurre il tasso di accorciamento dei telomeri, rallentando, così, l'invecchiamento biologico.
Nella pratica clinica la prescrizione degli ω-3 PUFA appare incostante. Vengono, difatti, prescritti nella maggior parte dei pazienti con post-infarto o in casi selezionati, come nel basso consumo di pesce nella dieta.
In effetti, s’incontra un certo numero di ostacoli alla loro prescrizione, come linee guida locali che la vietano nelle cure primarie o la scoraggiano per scarsa evidenza delle analisi di farmacodinamica di costo-efficacia, o per mancanza di campioni clinici, o ancora per scarsa percezione dei dati a sostegno della loro validità.
A parte tutto ciò, le raccomandazioni dietetiche per il maggiore consumo di pesce, dovrebbero continuare ed essere incoraggiate sulla base che, anche nell’incertezza dei meccanismi di azione degli acidi grassi ω-3 polinsaturi, ci sono dati convincenti che essi riducono il rischio di morte cardiaca.
Aspetti nutrizionali e tossicologici del consumo dei frutti di mare
Il consumo alimentare dei derivati della pesca di mare è oggi associato a effetti benefici ma anche rischi per la salute umana. Per questo assume fondamentale importanza la valutazione della descrizione integrata della presenza dei nutrienti e dei possibili tossici nel pesce, prima della diffusione delle raccomandazioni alimentari. Il pesce e i crostacei rappresentano, invero, una fonte importante di acidi grassi polinsaturi ω-3 a lunga catena (PUFA), ma possono contenere anche agenti inquinanti ambientali quali il metilmercurio (MeHg). Come prima riportato, i PUFA possiedono effetti benefici sullo sviluppo mentale e cognitivo dei neonati e dei bambini nella prima infanzia. Al contrario, l'esposizione prenatale alllo MeHg produce alterazioni della memoria, dell’attenzione e della percezione visiva.
Ström S e Helmfrid I del Karolinska Institutet, Stockholm, Sweden e collaboratori hanno, a tale proposito, sviluppato un modello probabilistico per la stima della contemporanea assunzione di metilmercurio (MeHg) e degli acidi grassi polinsaturi ω-3 a catena lunga (LC-PUFA n3) nei frutti di mare, per stimare la proporzione della popolazione a rischio per il superamento della dose tollerabile di MeHg e per il mancato raggiungimento dell’adeguato apporto di acidi grassi polinsaturi (Environ Res. 2011 Feb;111(2):274-80). Gli Autori hanno, così, raccolto i dati concernenti il consumo di pesce con un questionario di frequenza alimentare da 1.948 donne in età fertile tra i quindici e i quarantacinque anni, residenti nelle aeree costiere e lacustri della Svezia con documentati livelli relativamente alti di MeHg nel pesce. Hanno anche costruito un database delle concentrazioni dei PUFA e del MeHg in diverse specie di pesci e crostacei.
Ben l’11% della popolazione superava attraverso gli alimenti il limite di riferimento della tossicità di MeHg, al fine di garantire la protezione fetale pari a 0,1 µg per kg di peso corporeo il giorno, stabilito nel 2001 dall’US Environmental Protection Agency. D’altra parte, solo il 44% raggiungeva un adeguato e raccomandato apporto di acidi grassi polinsaturi. Una piccola percentuale, il 3,7%, superava la dose di MeHg di riferimento e al tempo stesso non raggiungeva l’adeguato apporto dei PUFA. Inoltre, gli Autori hanno simulato due scenari di consumo dei frutti di mare, secondo una raccomandazione generale di tre porzioni la settimana, una delle quali costituita da pesce grasso. Queste simulazioni, secondo il tipo di pesce consumato, dimostravano l'esistenza di un'ampia variazione nell'apporto di MeHg. Sulla base dei loto risultati, gli Autori rimarcavano la necessità di disporre di una consulenza specifica sul consumo di determinate specie di pesce, soprattutto per le donne in età fertile e ancor più per le gravide, senza scoraggiare, allo stesso tempo però, il consumo di pesce.
Il secondo comprendeva, invece, tipicamente un’alta concentrazione di MeHg con media di 0,50 e di 0,26 mcg MeHg / g di pesce in specie magre e grasse rispettivamente. Nello scenario alto, quasi il 100% della popolazione superava la dose di riferimento, mentre nel basso la percentuale corrispondente era solo il 5%. Nel complesso, i risultati ribadirebbero l'importanza di comunicare determinati avvisi speciali del consumo di pesce, per le donne in età fertile in generale e per quelle incinte in particolare, al tempo stesso incoraggiandone il consumo.
Per loro conto Y. Gu della Columbia University, New York e collaboratori,
considerando le cospicue associazioni riportate tra i vari nutrienti e la capacità cognitiva, risultanti da percorsi biologici tra cui quelli che interessano la β-amiloide (Aβ), hanno preso atto della scarsa conoscenza circa le possibili correlazioni dei fattori dietetici con le Aβ40 o Aβ42 plasmatiche. Hanno, così, voluto valutare in uno studio trasversale su 1.219 anziani di età maggiore dei sessantacinque anni, cognitivamente sani, partecipanti in una coorte basata su di una comunità multietnica, l'associazione tra l’assunzione di nutrienti e i livelli plasmatici dell’Aβ (Neurology, May 2, 2012.). Le informazioni sui livelli nutrizionali si ottenevano in una media di 1,2 anni prima del dosaggio dell’Aβ. Gli Autori hanno esaminato le associazioni tra i livelli plasmatici di Aβ40 e Aβ42 e l’assunzione di dieci nutrienti, utilizzando modelli di regressione lineare, aggiustati per età, sesso, etnia, istruzione, apporto calorico, genotipo dell'apolipoproteina E ε, periodo di reclutamento. Tra i nutrienti esaminati erano inclusi gli acidi grassi saturi, quelli monoinsaturi, gli ω-3 polinsaturi (PUFA), gli ω-6 PUFA, le vitamine B12-B6-E-C-D, il β-carotene.
Nei modelli non corretti la maggiore assunzione di ω-3 PUFA si associava con livelli più bassi dell’Aβ40 (β = -24,7, p <0,001) e dell’Aβ42 (β = -12,3, p <0,001). Nei modelli aggiustati gli ω-3 PUFA rimanevano forti predittivi dell’Aβ42 (β = -7,31, p = 0,02), mentre la loro associazione con l’Aβ40 si attenuava (β = -11,96, p = 0,06). Gli altri nutrienti non si correlavano con i livelli plasmatici dell’Aβ. In conclusione, questi dati, secondo gli Autori, avrebbero suggerito che il maggiore introito dietetico degli ω-3 PUFA si sarebbe associato ai bassi livelli plasmatici dell’Aβ42 secondo un profilo di minor rischio d’incidente di malattia di Alzheimer e un più lento declino cognitivo nella coorte di studio. Sempre secondo gli studiosi, gli omega-3 avrebbero avuto, quindi, un'azione positiva sul cervello, riducendo l'effetto dell'invecchiamento insieme con altri cibi, come pollo e frutta secca con guscio.
Consumo di pesce e depressione
Albanese E del King's College London e collaboratori per altro verso si sono proposti di valutare l'associazione in sette paesi del mondo a basso e medio reddito tra il consumo di pesce e la depressione della tarda età, utilizzando un protocollo standard (PLoS One. 2012;7(6):e38879. Epub 2012 Jun 19).
Gli Autori hanno usufruito dei dati trasversali degli studi di coorte 10/66 e applicato due criteri diagnostici per la depressione della tarda età. Hanno, così, valutato l'associazione tra le categorie di consumo di pesce settimanale e la depressione secondo i punteggi della scala dei sintomi depressivi dell’ICD-10 e dell'EURO-D con regolazione per i fattori confondenti pertinenti. Tutti i sondaggi sono stati effettuati a Cuba, Repubblica Dominicana, Venezuela, Perù, Messico, Cina e India, campionando più di 15.000 residenti in comunità di adulti più anziani oltre i sessantacinque anni. Utilizzando i modelli di Poisson, l'associazione corretta tra le categorie di consumo di pesce e la depressione ICD-10 risultava positiva in India (p per trend = 0,001), era inversamente proporzionale in Perù (p = 0,025) e non significativa in tutti gli altri paesi. Si riscontrava anche un'associazione lineare inversa tra il consumo di pesce e le categorie di punteggio EURO-D solo a Cuba (p per trend = 0.039) e in Cina (p <0,001), mentre non vi era significatività in tutti gli altri paesi. L'eterogeneità dei paesi era, peraltro, caratterizzata sia per i criteri dell’ICD-10 (I (2)> 61%) sia per quelli dell’EURO-D (I (2)> 66%). In conclusione, secondo gli Autori, in una grande campionatura di anziani l’associazione del consumo di pesce con la depressione varierebbe notevolmente da paese a paese, ma anche in rapporto alla diagnosi della malattia e troverebbe spiegazione nelle variabili socio-demografiche e dello stile di vita.
Il pesce sulla tavola degli italiani
In via collaterale a quanto sino a ora riportato, è interessante che Ipsos Italia ha pubblicato una ricerca il 06/06/2012 riguardante un sondaggio in un campione rappresentativo di 1000 italiani dai venticinque anni in su, utilizzando un questionario sull'alimentazione. Ne è derivato che gli italiani gradiscono i frutti di mare, dimostrano capacità di scelta con idee chiare al banco del pescivendolo e del supermercato, sono sempre pronti a sfruttare le offerte speciali e sanno come cucinare. Una prima analisi ha indicato che gli italiano pongono attenzione nell’89% alla freschezza della merce, nel 48% alla sua provenienza con preferenza per quella del Mediterraneo e infine nel 39% al prezzo. Inoltre, per quanto riguarda la preferenza sul tipo di pesce, l’indagine ha riconosciuto una Italia divisa in due, essendo preferenziale con il 15% il branzino dalle Alpi fino a Roma, seguito da alici e crostacei con il 12%, mentre più a sud della capitale per le due specie si invertono le posizioni. Sono, comunque, anche ben considerate le orate con l’11%, i frutti di mare con il 7% e il merluzzo con il 6%. Più distanziati si collocano i molluschi e il salmone, insieme con il 5%, il dentice con il 3%, le sardine e il tonno entrambi con il 2%, mentre il 13% degli italiani mangia indifferentemente ciò che capita. La modalità di cottura più diffusa con il 29%, e soprattutto per i maschi, è la griglia, seguita dal forno con il 28%, mentre una piccola minoranza del 3% lo consuma crudo. Comunque, di là dei gusti, degli stili di cottura e delle preferenze varie, il consuntivo sul pesce è positivo. Lo 80% degli italiani lo considerano, in effetti, come prima scelta per un pranzo sano e leggero.
Purtroppo bisogna considerare, come nota dolente, quanto riportato dalla Coldiretti Impresa Pesca che ha sollevato il problema della contraffazione nel settore. Ben due terzi dei pesci serviti a tavola sarebbero imitazioni di quanto dichiarato dal venditore, contraffatte con specie poco pregiate e vendute per quelle più costose. (www.impresapesca.it).
Fritture e rischio di malattia cardiovascolare
La frittura è uno dei metodi di cottura più comunemente utilizzati e richiesti nel mondo occidentale. Purtroppo, le pietanze fritte comportano modifiche del valore nutrizionale degli alimenti per la perdita di acqua, l’arricchimento di grasso e il consequenziale aumento della densità energetica. Inoltre, la frittura modifica non solo gli alimenti ma anche il mezzo perché gli oli, soprattutto quelli riutilizzati, si deteriorano attraverso i processi di ossidazione e idrogenazione, portando a una perdita di grassi insaturi e un aumento di quelli trans. La quantità di questi ultimi dipende dalla tecnica di frittura, dal grado di degradazione termica dell'olio, dal tipo di cibo, e, soprattutto di olio, il cui grado di saturazione ne aumenta la formazione. D'altra parte, l'uso dei grassi solidi per friggere può anche aumentare il contenuto degli acidi grassi trans. Inoltre, con la frittura il contenuto di acidi grassi nei pesci può cambiare marcatamente. Tuttavia, alcuni alimenti quali alcuni tipi di pesci, mostrano minime variazioni nel contenuto di acidi grassi trans dopo frittura, indipendentemente dall’olio di oliva o di girasole utilizzato. Così, il cibo fritto, che tende a migliorare la palatabilità rendendo il pasto croccante, assorbe, purtroppo, i prodotti di degradazione dell’olio. Pur tuttavia, bisogna riconoscere che il processo di frittura è complesso e ancora non ben compreso tanto da stimolare continue ricerche nei meriti per chiarimenti sempre più concreti sui suoi effetti sulla salute.
Per loro parte, Wayne H. F. Sutherland dell’University of Otago Medical School Dunedin, New Zealand e collaboratori, sulla base che la paraoxonasi, glicoproteina calcio-dipendente circolante nelle lipoproteine ad alta densità (HDL) è in grado di prevenire la perossidazione delle lipoproteine a bassa densità (LDL) e di contrastare, pertanto, il processo ateromasico, hanno svolto uno studio randomizzato nei meriti (Arteriosclerosis, Thrombosis, and Vascular Biology 1999; 19: 1340-1347). Tale enzima trae il suo nome per la capacità di idrolizzare il paraoxon, contenuto in alcuni insetticidi e metabolita reattivo prodotto per disulfirazione ossidativa dal sistema della citocromo P-450 a partire dal parathion. La sua attività si è dimostrata inversamente correlata al rischio cardiovascolare. Negli animali, difatti, l'immissione di lipidi ossidati nella circolazione riduce l'attività paraoxonasica e le diete ricche di grassi ossidati accelerano lo sviluppo dell’aterosclerosi. La famiglia della paraoxonasi si compone di tre membri (PON1, PON2, PON3) codificati da tre geni diversi. Gli Autori hanno, così, confrontato in dodici uomini sani l'effetto di un pasto ricco di lipidi ossidati, in forma di grasso usato per friggere in un ristorante fast food e di un altro di controllo con corrispondente grasso vergine, sull’attività paraoxonasica (arilesterasi) di campioni di siero post-prandiale. Hanno anche valutato il contenuto di perossido di LDL e la sua suscettibilità all'ossidazione, catalizzata dagli ioni di rame. Nelle quattro ore del periodo post-prandiale l'attività paraoxonasica sierica diminuiva significativamente dopo il pasto con grasso già utilizzato (-17%, P = 0,005), mentre aumentava significativamente dopo il pasto ricco di grassi non utilizzati (14%, P = 0,005). Questi cambiamenti erano significativamente diversi (P = 0.003). Un’analisi protratta nel tempo indicava anche che l'attività paraoxonasica del siero rimaneva inferiore a quella di base fino a otto ore dopo il pasto con grasso già utilizzato. Inoltre, la concentrazione sierica dell’APOA1 tendeva a diminuire dopo il pasto con grassi non utilizzati, mentre tendeva ad aumentare dopo quello con grasso già utilizzato. Questi cambiamenti erano differenti a livello marginale di significatività (P = 0,07). Ancora, dopo il pasto con grassi non utilizzati, si registrava una diminuzione post-prandiale significativamente maggiore (P = 0,03) del contenuto dell’APOA1 delle HDL. Il tenore del perossido delle LDL tendeva a diminuire dopo il pasto con grassi già utilizzati e ad aumentare nel pasto di controllo. Anche questi cambiamenti erano significativamente diversi (P = 0,04). La suscettibilità all'ossidazione delle LDL isolate agli ioni del rame e i livelli plasmatici della malondialdeide rimanevano invariati nel corso di tutto lo studio. Secondo gli Autori, i loro dati avrebbero suggerito che, dopo un pasto ricco di grassi da cucina già usati nel periodo post-prandiale, la protezione enzimatica delle LDL contro l'accumulo dei perossidi e le modificazioni ossidative aterogeniche potrebbero essere ridotte. Ciò probabilmente a causa di fattori acutamente associati all’APOA1, senza compromissione della resistenza intrinseca delle LDL all’ossidazione in vitro.
Peraltro, Echarte M e collaboratori dell’Universidad de Navarra, Pamplona in Spagna hanno studiato l'effetto sugli acidi grassi e sul colesterolo della lombata di maiale della frittura in olio di girasole per quattro min a temperature diverse: 160, 170 e 180 gradi C (J Food Prot. 2001 Jul;64(7):1062-6). Il contenuto totale di grasso della lombata fresca aumentava dal 5,6% al 7,3, 7,8 e 12,1% a 160, 170 e 180 gradi C rispettivamente. Le interazioni con il grasso culinario davano luogo a un significativo aumento dei rapporti acidi insaturi / acidi grassi saturi e acidi grassi polinsaturi / saturi, il che avrebbe potuto costituire un vantaggio dal punto di vista nutrizionale. Inoltre, nella lombata fresca si rilevava meno di 1 ppm (microg / g di campione) dei prodotti dell’ossidazione del colesterolo, mentre la lonza fritta ne conteneva tra gli 8,58 e i 10,89 ppm. Il 7-chetocolesterolo (5,99-8,47 ppm nei fritti) e il 7β-idrossicolesterolo (1,43-2,55 ppm nei fritti) erano i principali prodotti di ossidazione del colesterolo. Nei fritti non si rilevava in tutti i campioni il colestanetriolo, ma solo piccole quantità di 25-idrossicolesterolo e 5,6 α-epossicolesterolo.
Sul versante della salute i fritti sono stati associati in diversi studi trasversali a vari fattori di rischio cardiovascolare, come lo studio Pizarra di Soriguer F su 1226 adulti sulla prevalenza dell’ipertensione (Am J Clin Nutr2003;78:1092-7), oppure lo studio EPIC di Guallar-Castillon P della coorte spagnola sull’obesità generale e centrale (Am J Clin Nutr2007;86:198-205), oppure lo studio di Donfrancesco C su 2090 adulti italiani sui più bassi livelli colesterolo ad alta densità e una maggiore circonferenza vita (BMC Fam Pract2008;9:53).
Pilar Guallar-Castillón dell’Autonomous University of Madrid e collaboratori, considerando che solo pochi studi avevano valutato l'effetto degli alimenti fritti sul rischio delle malattie cardiovascolari, hanno voluto esaminare tale dato in modo prospettico nella coorte EPIC-Spagna (BMJ 2012;344:e363). Hanno, così, arruolato 40.757 adulti di età compresa tra i ventinove e i sessantanove anni, dal 1992 al 1996 senza malattia coronarica iniziale, e li hanno seguiti fino al 2004. Durante il follow-up medio di undici anni, si verificavano 606 eventi coronarici e 1.135 decessi per tutte le cause. Rispetto al fatto di essere nel primo e più basso quartile del consumo di cibi fritti, l'hazard ratio multivariato di malattia coronarica era nel secondo quartile 1,15 (intervallo di confidenza 95% 0,91-1,45), nel terzo 1,07 (0,83-1,38) e nel quarto 1,08 (0,82-1,43, P = 0,74). L’hazard ratio (HR) multivariato del consumo di cibi fritti per il più alto rispetto al più basso quartile era 0,93 (intervallo di confidenza 95% 0,77-1,14, P = 0,98).
Per gli eventi cardiaci da definite malattie coronariche nelle analisi aggiustate per l'apporto energetico, l’età, il sesso e il centro non si registrava alcuna associazione con il consumo di alimenti fritti (modello 1 della tabella). Il rapporto di rischio di malattia coronarica per il più alto rispetto al più basso quartile del consumo di cibi fritti era 0,94 (IC 95% 0,72-1,23, P = trend 0,52). Risultati simili si ottenevano dopo aggiustamento aggiuntivo per i principali fattori confondenti (modello 2 della tabella): 1,11 (0,84-1,46, P = 0.60). Infine, nessuna associazione si osservava anche dopo aggiustamento per i possibili mediatori, come l'indice di massa corporea, la circonferenza vita e l'ipertensione (modello 3 della tabella). Rispetto al primo più basso quartile del consumo di cibi fritti, l'hazard ratio multivariato di malattia coronarica era nel secondo 1,15 (0,91-1,45), 1,07 (0,83-1,38) nel terzo e 1,08 (0,82-1,43 ) nel quarto (P = 0,74). Infine, dopo il pieno aggiustamento, l’aumento del consumo di cibi fritti di 100 g non mostrava un'associazione con il rischio di malattia coronarica (hazard ratio 1,00, da 0,90 a 1.11). I risultati erano simili dopo censura dei primi due anni di follow-up e dopo aver escluso quelli che avevano riportato un cambiamento nella loro dieta durante l'anno precedente.
Allo stesso modo, non si osservava nessuna associazione tra il consumo di cibi fritti e la mortalità per tutte le cause.
Inoltre, i risultati non variavano tra i sessi (P per interazione 0,19) o tra coloro che avevano utilizzato olio di oliva per la frittura e tra chi aveva usato olio di girasole o di altri vegetali (P per interazione 0,22).
In conclusione, secondo gli Autori, in Spagna, paese mediterraneo in cui viene utilizzato per la frittura l'olio d'oliva o di girasole, il consumo di cibi fritti non si dovrebbe associare alla malattia coronarica o alla mortalità per tutte le cause.
Comunque, gli Autori hanno tenuto a precisare che i loro risultati differivano da quelli dello studio INTERHEART dove il consumo di cibo fritto si associava a un maggiore rischio d’infarto miocardico acuto (Circulation2008;118:1929-37). Tuttavia, alcune differenze metodologiche limiterebbero il confronto dei risultati. Ad esempio, l’INTERHEART non valutava quantitativamente l'assunzione del cibo fritto e, inoltre, registrava solo il consumo di nove alimenti fritti, senza riportare il tipo di olio usato. Peraltro, sempre a commento degli Autori, nell’analisi trasversale MESA (Multi Ethnic Study of Atherosclerosis), non si riscontrava nessuna associazione tra il consumo di pesce fritto e l’aterosclerosi subclinica, valutata con lo spessore dell’intima-media della carotide comune. Neanche il consumo di pesce fritto si associava a cambiamenti significativi dei livelli sierici di colesterolo totale, colesterolo legato alle lipoproteine a bassa densità, colesterolo HDL o trigliceridi (Am J Clin Nutr2008;88:1111-8).
Inoltre, la coorte di 3.919 anziani dai sessantacinque e più anni d’età del “The Cardiovascular Health Study”, seguiti per nove anni, non dimostrava un'associazione tra il consumo di pesce fritto o i panini di pesce con la mortalità da malattia coronarica o da aritmia cardiaca o con l'incidenza d’infarto miocardico acuto non fatale (Circulation2003;107:1372-7).
Valore nutritivo delle uova fritte
Per loro conto Kaustav Majumder e Jianping Wu dell’University of Alberta, Edmonton, Canada, considerando l'ottima fonte di peptidi bioattivi fornita dalle proteine delle uova, hanno voluto studiare l'effetto dei metodi di cottura per la produzione dei peptidi inibitori dell'enzima di conversione dell'angiotensina (ACEI). In condizioni digestive simulate hanno trattato uova sode o fritte con le proteasi del tratto gastroenterico. Le uova fritte digerite mostravano un'attività più potente che quelle sode. Le fritte intere digerite possedevano, difatti, un valore di IC(50) di 0,009 mg di proteina / ml
(J Agric Food Chem. 2009 Jan 28;57(2):471-7). Questo idrolizzato, ulteriormente purificato mediante cromatografia a scambio cationico e cromatografia di filtrazione su gel, permetteva di identificare con la LC-MS/MS (liquid chromatography-mass spectrometry) sette peptidi [(Val-Asp-Phe (IC (50): 6,59 microM), Leu-Pro-Phe (10,59 microM), Met-Pro-Phe (17,98 microM), Tyr-Thr-Ala-Gly-Val (23,38 microM ), Glu-Arg-Tyr-Pro-Ile (8,76 microM), Ile-Pro-Phe (8,78 microM), Thr-Thr-Ile (24,94 microM)]. Secondo gli Autori, la presenza di diversi tripeptidi, potenti inibitori ACE prodottisi dalle uova nella simulata digestione in vitro gastrointestinale, indicherebbe che essi possono anche essere assorbiti ed esercitare un’azione di controllo sull'ipertensione e sulle malattie cardiovascolari. Ne deriverebbe, a tale proposito, che la limitazione suggerita di non mangiare le uova perché ricche di colesterolo va, in effetti, con questi risultati moderata.
Per altro canto, l'associazione tra il consumo di cibi fritti e danno endoteliale è controversa.
Paraoxonase 1 e cistatina C nuovi fattori di rischio cardiovascolare nel diabete di tipo 2
Peraltro, Philip W. Connelly dell’University of Toronto e collaboratori, tenuto conto delle segnalazioni di correlazione tra la paraoxonasi 1 (PON1) con la proteinuria dei soggetti con diabete di tipo 2 (DM2), hanno inteso valutare l'ipotesi che lo stesso enzima e la cistatina C potessero essere associati al diabete 2 (J. Lipid Res. 2009 50:(6) 1216-1222). Hanno, così, studiato soggetti provenienti da una comunità aborigena canadese ad alto rischio per lo sviluppo di nefropatia.
La cistatina C plasmatica è, in effetti, un marker più preciso della creatinina per identificare nel diabete di tipo 2 la fase 3 della malattia renale. Gli Autori hanno incluso nell'analisi di regressione, con la massa Loge (ln) della PON1 come variabile dipendente, i genotipi PON1 A (-162) G e PON2 Ala148Gly, la cistatina C, l’HbA1c, il colesterolo HDL (HDLC), la circonferenza vita e la durata del diabete. Un modello di regressione tra il genotipo PON2 Ala148Gly, HDLC, ln cistatina C spiegava il 25,8% della varianza nel PON1 di massa. Al contrario, vita, età, ln HbA1c, ln durata del diabete e ln PON1 massa, ma non il genotipo PON2, spiegavano il 38% della varianza nella cistatina C. I soggetti con velocità di filtrazione glomerulare stimata di cistatina C (eGFR) <60 ml / min per 1,73 m2, quindi in fase 3 della malattia renale, avevano una PON1 di massa significativamente più bassa rispetto ai soggetti con cistatina C-eGFR> 60 ml / min per 1,73 m2. La massa inferiore di PON1, enzima anti-infiammatorio associato alle HDL, può, di certo, contribuire ad aumentare il rischio di malattia cardiovascolare nel diabete di tipo 2 in concomitanza alla cistatina C-eGFR <60 ml / min per 1,73 m2.
Ω-3 polinsaturi, pesce e infiammazione e attivazione endoteliale
Ka He dell’University of North Carolina e collaboratori, proprio sull’inconsistenza degli studi precedenti sull’associazione tra il consumo dei LC n-3 PUFA (acidi grassi polinsaturi ω-3 a lunga catena) e del pesce con l'infiammazione e l'attivazione endoteliale, hanno esaminato il dato in 5.677 uomini e donne afro-americani, caucasici, cinesi e ispanici della coorte MESA (Multi Ethnic Study of Atherosclerosis) di età dai quarantacinque agli ottantaquattro anni, senza malattie cardiovascolari clinicamente rilevabili (Am J Cardiol. 2009 May 1; 103(9): 1238–1243). Gli Autori sono partiti dall’ipotesi che l'assunzione di LC n-3 PUFA e di pesce non fritto sarebbe stata inversamente associata con i marcatori dell’infiammazione e dell’attivazione endoteliale. Le informazioni sulla dieta sono state raccolte con un questionario di frequenza alimentare autosomministrato ed è stata utilizzata l’analisi multivariata di regressione lineare per esaminare le relazioni tra l'assunzione di LC n-3 PUFA, di pesce fritto e non con i biomarcatori dell’infiammazione e dell’attivazione endoteliale. L’assunzione dei LC n-3 PUFA era inversamente associata alle concentrazioni plasmatiche d’interleuchina-6 (IL-6, P = 0,01) e della matrice metalloproteinasi (MMP-3-3, P = 0.03), indipendentemente dall’età, dall’indice di massa corporea, dall’attività fisica, dal fumo, dal consumo di alcool e dalle variabili dietetiche.
Il non consumo di pesce fritto era inversamente correlato alla proteina C-reattiva (CRP, P = 0,045) e all’IL-6 (P <0,01), mentre la frittura di pesce, dopo aggiustamento per i potenziali confondenti, si dimostrava inversamente correlata alla molecola solubile di adesione intercellulare-1 (sICAM-1 ), marker di attivazione endoteliale (P <0,01), ma non ad altri biomarcatori. In conclusione, secondo gli Autori, il loro studio avrebbe suggerito che gli apporti dietetici di LC n-3 PUFA e di pesce sarebbero inversamente associati alla concentrazione sierica di alcuni biomarcatori, riflettendo più bassi livelli dell’infiammazione e dell’attivazione endoteliale. Tale dato avrebbe potuto in parte, così, spiegare gli effetti cardioprotettivi del consumo di pesce.
Da ricordare a tal proposito lo studio di Michael J.A Williams dell’University of Otago Dunedin – New Zealand (J Am Coll Cardiol. 1999;33(4):1050-1055) e collaboratori, eseguito proprio per verificare l'ipotesi che, sulla base del riconosciuto ruolo dei prodotti dell’ossidazione dei lipidi sull’accelerazione del processo aterogeno, l'assunzione di grassi usati per cucinare potesse essere associata a una ridotta funzione endoteliale. I ricercatori hanno misurato, così, in dieci uomini il diametro dell’arteria brachiale, sia durante iperemia (indice di vasodilatazione endotelio-dipendente), sia in risposta alla nitroglicerina (indice di vaso-dilatazione endotelio-indipendente) prima e dopo 4 ore di tre pasti test: 1) 64,4 g di grassi di cottura usati per friggere in un fast food, 2) 64,4 g di grassi non utilizzati precedentemente per la cottura, 3) 18,4 g di grassi, senza aggiunta di grassi.
La dilatazione endotelio-dipendente era diminuita nelle condizioni di pasto grasso già utilizzato (5,9 ± 2,3% vs 0,8 ± 2,2%, p = 0.0003) a digiuno e dopo il pasto, mentre non c'era alcun cambiamento significativo dopo il pasto con grassi non utilizzati (5,3 ± 2,1% vs 6,0 ± 2,5%) o povero di grassi (5,3 ± 2,3% vs 5,4 ± 3,3%).
Inoltre, dopo qualsiasi pasto non si registrava nessuna differenza significativa nella dilatazione endotelio-indipendente e la concentrazione plasmatica degli acidi grassi liberi non cambiava significativamente.
Il livello dell’ipertrigliceridemia post-prandiale, peraltro, non si associava ad alcun cambiamento della funzione endoteliale. In conclusione secondo gli Autori, l’ingestione di un pasto ricco di grassi già utilizzati in precedenza per friggere in un ristorante commerciale fast food provocherebbe una disfunzione endoteliale arteriosa.
In seguito, sempre Williams MJ e collaboratori hanno studiato in doppio cieco la funzione endoteliale flusso-mediata e da dilatazione dell'arteria brachiale endotelio-indipendente indotta dal gliceriltrinitrato in quattordici soggetti, prima e dopo quattro ore dal pasto ricco di oli d'oliva e di cartamo, usati per friggere per otto ore (Nutr Metab Cardiovasc Dis. 2001 Jun;11(3):147-52). Si riscontravano in entrambi gli oli fritti livelli elevati dei prodotti dell’ossidazione lipidica, perossidi e carbonili. A quattro ore dal fritto con olio d'oliva i trigliceridi del plasma aumentavano notevolmente (1,26 + / - 0,43 vs 2,06 + / - 0,97 mmol / L). Stesso effetto si rilevava con l’olio di di cartamo (1,44 + / - 0.63 vs 1.99 + / - 0,88 mmol / L). Non c'era alcun cambiamento nell’EDD (endothelium-dependent dilation) nell’esame a digiuno e post-prandiale e la risposta durante il periodo post-prandiale non era significativamente (p = 0,51) differente tra i pasti (fritto d’olio d'oliva: 4.9 + / - 2,2% vs 4,9 + / - 2,5%; fritto d’olio di cartamo: 5.1 + / - 3.1% vs 5.6 + / - 3,4%). Tali risultati, permettevano agli Autori di concludere che i pasti ricchi in oli di oliva e di cartamo, utilizzati in precedenza per friggere relativamente per breve termine e contenenti elevate quantità dei prodotti dell’ossidazione dei lipidi, possono sì aumentare i trigliceridi post-prandiali nel siero, ma senza alterare la funzione endoteliale.
Di certo interesse sull’argomento, è lo studio di Perona JS dell’Instituto de la Grasa (CSIC), Seville, Spain e collaboratori che, sulla base del coinvolgimento dell’endotelio in molti dei processi relativi allo sviluppo dell’aterosclerosi, considerata ormai una malattia infiammatoria, hanno riassunto le conoscenze sugli effetti sulla disfunzione vascolare dei composti contenuti nell’olio d’oliva e sui meccanismi con cui essi modulano l'attività endoteliale (J Nutr Biochem. 2006 Jul;17(7):429-45). Tali meccanismi, difatti, comportano il rilascio di ossido nitrico, eicosanoidi (prostaglandine e leucotrieni) e molecole di adesione, per l'attivazione in molti casi del fattore nucleare kappaB dalle specie reattive dell'ossigeno. In realtà, da una parte con l’aumento dell'espressione delle citochine specifiche e delle molecole di adesione i fattori di rischio tradizionali per l'aterosclerosi predispongono alla disfunzione endoteliale, dall’altra l'olio d'oliva, componente più genuino della dieta mediterranea, ha dimostrato di possedere effetti benefici. Peraltro, i costituenti minori, che costituiscono solo l’1-2% dell’olio di oliva vergine, sono composti d’idrocarburi, di polifenoli, di tocoferoli, di steroli, di triterpenoidi e di altri componenti che di solito si trovano solo in tracce. Pur tuttavia, questi costituenti non acidi grassi, nonostante la loro bassa concentrazione, per la maggior parte hanno dimostrato proprietà antiossidanti, anti-infiammatorie e ipolipemizzanti con diversi effetti positivi sulle malattie cardiovascolari.