Vitamina “D” e malattie cardiometaboliche
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a vitamina D rappresenta, invero, nel diabete mellito un nuovo campo di studio e apprendimento di sviluppo immediato.Nell'attuale stato delle conoscenze la vitamina esercita, in effetti, un ruolo nella patogenesi del diabete di tipo 1 e nell’insorgenza del LADA (Latent Autoimmune Diabetes in Adults) con azioni immunomodulatrici, influenzando l'attività dei linfociti e delle interleuchine. Nel diabete di tipo 2 sembra, invece, agire attraverso meccanismi diversi che interessano la secrezione e la sensibilità all'insulina attraverso i suoi effetti sulle cellule beta, sui mediatori dell’infiammazione e sull’ormone paratiroideo.
L'incidenza crescente, epidemica del prediabete e del diabete di tipo 2, principalmente caratterizzati dall’insulinoresistenza, rappresenta un problema di salute critico con conseguenti devastanti costi personali e sanitari. Peraltro, negli studi epidemiologici, espressi dai livelli nel siero di 25-idrossi-D, la vitamina appare inversamente associata al diabete e la sua integrazione, anche come metabolita attivo 1,25 (OH) 2D, risulta migliorare la sensibilità all'insulina, pure nei soggetti con parametri normali di metabolismo del glucosio. I meccanismi proposti in tale condizione risiedono nelle potenziali relazioni con i miglioramenti nella massa magra, la regolazione del rilascio, l’alterata espressione dei recettori e gli effetti specifici sull’azione dell'insulina. Queste azioni possono essere mediate dalla produzione sistemica o locale di 1,25 (OH) 2D o dalla soppressione del paratormone, che possono incidere negativamente sulla sensibilità all'insulina. Pertanto, gli studi nei meriti sostengono una sostanziale relazione tra la vitamina “D” e la sensibilità all'insulina, pur necessitando ulteriori chiarimenti per definirne più esattamente i meccanismi alla loro base.
Anastassios G. Pittas e coll. della Division of Endocrinology, Diabetes and Metabolism, Tufts-New England Medical Center, Boston, hanno analizzato gli studi osservazionali sull’associazione, relativamente coerente, tra carenza di vitamina “D”, assunzione di calcio o prodotti caseari con la sindrome metabolica o il diabete mellito 2, rilevando la prevalenza di DM 2 con un OR 0,36 (IC 95% 0,16-0,80) tra i non-neri con alta vs bassa 25 –OH-D e la prevalenza di sindrome metabolica con un OR 0,71 (IC 95%0,57-0,89) per l'assunzione più alta di latte vs la più bassa (Journal of Clinical Endocrinology & Met.abolism. 2007, 92, 6, 2017-2029). Gli AA. hanno anche individuato le associazioni inverse per il diabete mellito o la sindrome metabolica con incidenza di T2DM [OR 0,82 (IC 95%0,72-0,93)] per l’alta vs la bassa condizione combinata di vitamina “D” e apporto di calcio e per l'alta vs la più bassa assunzione di prodotti caseari [OR 0,86 (IC 95%0,79-0,93]. Le evidenze hanno supportato che l’uso d’integratori di vitamina “D” e/o calcio rivestiva un ruolo nella prevenzione del T2DM solo nelle popolazioni ad alto rischio, come nell'intolleranza al glucosio. È stato, però, notato che gli studi osservazionali a disposizione erano limitati perché per la maggior parte trasversali e non regolarizzati per i fattori confondenti. I longitudinali, invece, erano di breve durata con inclusione di alcuni soggetti, utilizzando una grande varietà di formulazioni farmacologiche di vitamina “D” e di calcio o con analisi post-hoc. Pur tuttavia, la metanalisi ha permesso di concludere che l’ipovitaminosi “D” e la carenza di calcio possono influenzare negativamente la glicemia, mentre l'integrazione combinata con entrambe queste sostanze può sortire efficacia nell’ottimizzare il metabolismo del glucosio.
Attualmente le dosi raccomandate per il calcio sono generalmente di 1200 mg/die per gli adulti oltre i 50 anni e per la vitamina “D” di 400 UI/die dai 51 ai 70 anni e di 600 UI/die dai 70 anni e oltre. Tuttavia, vi è un consenso crescente di raccomandare assunzioni di vitamina “D” sopra le attuali per ottenere i risultati migliori. I livelli ottimali di vitamina, comunque, non sono stati ancora del tutto definiti, ma, per una serie di obiettivi scheletrici e non, la sua concentrazione serica più vantaggiosa sembra essere 30-40 ng/ml. Per quanto riguarda, poi, il diabete mellito di tipo 2 è più difficile trarre una conclusione definitiva per un livello ottimale, anche se sono stati fatti studi in una varietà di coorti con una vasta gamma di livelli di 25-OH-D. Tuttavia, i dati suggeriscono che concentrazioni seriche di 25-OHD superiori a 20 ng/ml sono auspicabili, anche se quelle oltre i 40 ng/ml potrebbero essere più vantaggiose. A tal fine, però, occorrono 1000 UI/die di vitamina “D”. Per quanto riguarda il rapporto tra assunzione di calcio e diabete mellito di tipo 2, le evidenze della letteratura suggeriscono un’assunzione di 600 mg/die, pur essendo ottimale una dose superiore ai 1200 mg. I dati NHANES III, per l’appunto, hanno dimostrato che l’ipovitaminosi della 25-OH-D (<25 ng ml) può interessare durante l'inverno fino a metà degli adolescenti e adulti non istituzionalizzati, anche alle latitudini meridionali. Successivi studi hanno, d’altro canto, dimostrato la sua prevalenza dal 36 al 100% in una varietà di popolazioni, sia giovani adulti sani sia anziani ricoverati in ospedale. Nei riguardi della carenza di calcio, s’incontrano maggiori difficoltà di documentazione biochimica. Gli americani, ad esempio, non assumerebbero le dosi raccomandate, per cui nelle persone dai 51 ai 70 anni esse corrisponderebbero a 708 mg/die per gli uomini e 571 per le donne e oltre i 70 anni a 702 mg/die per i primi e a 517 per le seconde.Peraltro, l’ipovitaminosi “D”, combinata con lo scarso apporto di calcio, può essere più prevalente. Nel Nurses Health Study il gruppo con il maggior apporto, equivalente per il calcio a dosi maggiori di 1200 mg/die e per la vitamina “D” a dosi maggiori di 800 UI/die, ha presentato incidenza di rischio di diabete tipo 2 più bassa, corrispondendo questo dato, però, solo all’1,3% della coorte.