Modelli di stile di vita e rischio di demenza
Il declino cognitivo rappresenta ormai un pressante problema di salute pubblica e, secondo l'Alzheimer Disease International, nel 2010 in tutto il mondo erano affetti da demenza circa 35,6 milioni di persone con un caso ogni sette secondi. Questo numero, destinato a raddoppiare ogni venti anni, raggiungerebbe nel 2050 i 115,4 milioni di persone. Il decadimento cognitivo lieve (DCL) spesso interviene, con problemi del linguaggio, della memoria, del ragionamento, della capacità di risolvere problemi, dell’attenzione o del processo decisionale o di altre funzioni mentali, come prima indicazione di sviluppo della demenza. Queste funzioni mentali o processi cognitivi, indicati come funzioni esecutive, possono essere riconosciute con particolari test e sono evidenti alle persone prossime al malato, ma non interferiscano con la vita quotidiana dello stato del DCL. La diminuzione in tre specifiche funzioni esecutive (attenzione selettiva, funzione di risoluzione dei conflitti, memoria associativa) prevede fortemente che una persona con deterioramento cognitivo lieve finirà per sviluppare la demenza. In definitiva, il decadimento cognitivo lieve, sulla base che circa il 50% dei malati è a rischio di sviluppo di Alzheimer o di altri tipi di demenza, è un riconosciuto segno di allarme precoce. Rappresenta, nel contempo, una critica opportunità d’intervento per modificare la storia della demenza dell’anziano. Nella collettività ormai è di facile riscontro, soprattutto negli anziani, che la frequente partecipazione sociale con il mantenimento di un’adeguata attività fisica tende a conservare le capacità cognitive e ad allontanare il pericolo della demenza. Il coinvolgimento mentale e sociale, ad esempio nel volontariato, anche se non monetariamente produttivo, comporta, di fatto, una minore incidenza della malattia. Così pure, un provvedimento composito sociale con il servizio domestico delle attività di manutenzione della casa si è dimostrato analogamente associato a un migliore stato cognitivo. Molti studi nell'insieme hanno ormai dimostrato che i comportamenti individuali, agendo sui processi neurodegenerativi di base, possono influenzare fortemente la probabilità d’insorgenza del declino cognitivo. Tali risultati portano, così, a individuare sempre più insistentemente gli stili di vita comportamentali che possano rappresentare un rischio di demenza onde poter suggerire gli specifici interventi di prevenzione. In effetti, anche se il rischio di demenza, e in particolare quella di Alzheimer, dipende fortemente dai fattori biologici e genetici, vi è, nella fase del suo sviluppo, in cui gli individui possono modificare gli esiti cognitivi della tarda età attraverso scelte di vita salutari, la flessibilità e la plasticità. In definitiva, gli studi epidemiologici forniscono, sino a oggi, una forte evidenza di associazione tra lo stile di vita e il rischio di demenza. A tal proposito, la riserva cognitiva, che descrive la resilienza del cervello al danno cerebrale, è una proprietà del sistema nervoso centrale riguardo alla prolungata e complessa attività mentale che può portare a un’espressione differenziale delle lesioni cerebrali. Essa è stata valutata utilizzando i dati autobiografici, quali il livello d’istruzione, la complessità occupazionale e le attività mentali stimolanti lo stile di vita.
Maria C. Norton dell’Utah State University e collaboratori, per identificare l’associazione tra i diversi modelli comportamentali, quali dieta, esercizio fisico, interazione sociale, frequenza di partecipazione religiosa in chiesa, consumo di alcol e fumo, con il rischio di demenza, hanno svolto uno studio longitudinale nella contea rurale del nord dell’Utah (J Am Geriatr Soc. 2012;60(3):405-412). Hanno, così, arruolato 2.491 partecipanti senza demenza nel 51% maschi, di età media di 73,0 ± 5,7; con istruzione media di 13,7 ± 4,1 anni, in assenza d’ictus o di traumi cranici nei cinque anni precedenti e che inizialmente non avevano riferito alcun problema nelle attività della loro vita quotidiana. Gli Autori hanno esaminato il tipo di dieta, l’esercizio fisico, la partecipazione religiosa, l’interazione sociale, il consumo di alcol, il fumo. La LCA (Latent class analysis) è stata utilizzata per identificare i modelli tra questi comportamenti. Nel follow-up, in media di 6,3 ± 5,3 anni, erano diagnosticati 278 casi di demenza, di cui 200 di morbo di Alzheimer. La LCA individuava quattro distinte classi di stile di vita: una religiosa non salutare (UH-R; 11,5%), un’altra non religiosa malsana (UH-NR; 10,5%), un’altra ancora sana moderatamente religiosa (H-MR; 38,5%) e l’ultima sana, molto religiosa (H-VR; 39,5%).
L’HR (hazard ratio) dell’UH-NR era = 0.54, P = 0,028, della H-MR = 0.56, P = .003 e della H-VR = 0.58, P = 0,005, dimostrando un rischio significativamente più basso per la demenza rispetto all’UH-R. I risultati erano comparabili per la demenza di Alzheimer, tranne che per l’UH-NR con esito meno definitivo. In conclusione, anche in rapporto a questo studio, gli adulti più anziani e funzionalmente indipendenti sembrerebbero raggrupparsi in sottopopolazioni per distinti modelli comportamentali di stile di vita, caratterizzati da diversi livelli di rischio per la demenza e per la successiva malattia di Alzheimer.
Riserva cognitiva e incidente di demenza
Il concetto di riserva cognitiva ha interessato per decenni il campo della ricerca sulla demenza. I risultati hanno condotto a ritenere che i pazienti, con elevati livelli d’istruzione e / o uno stile di vita più cognitivamente attivo, siano meno suscettibili al decadimento cognitivo. Se tutto ciò possa riflettere la maggiore riserva funzionale o le influenze reali sui meccanismi fisiopatologici della malattia, non è ancora chiaro. Pur tuttavia, arrivare a comprendere questo rapporto è importante per una sempre maggiore attenzione ai trattamenti preventivi che tendano a mantenere integra l’attività mentale per tutta la vita.
Valenzuela MJ e Sachdev P del Prince of Wales Hospital, Sydney, sulla base dei diversi rapporti epidemiologici presenti in letteratura, ma non di una revisione sistematica che mettesse tutti insieme i risultati contrastanti, hanno esaminato quantitativamente le evidenze dell’effetto della riserva cognitiva sull’incidente di demenza (Psychol Med. 2006 Apr;36(4):441-54). Gli studi di coorte sugli effetti dell’istruzione, dell’occupazione, dello stato premorboso dell’IQ (intelligence quotient) e delle attività mentali sul rischio di demenza erano tutti di particolare interesse. Sono stati, così, selezionati ventidue studi che soddisfacevano i criteri d’inclusione e si costatava che la riserva cognitiva superiore si associava a un ridotto rischio d’incidente di demenza (sintesi dell’odds ratio, 0,54; intervallo di confidenza al 95%, 0,49-0,59). Questo effetto era riscontrato in un follow-up medio di 7,1 anni e sul risultato d’integrazione dei dati in più di 29.000 individui. In particolare, l'aumento complessivo dell’attività mentale in età avanzata si associava a tassi di demenza più bassi, indipendentemente da altri predittivi. Inoltre, una relazione dose-risposta era evidente anche tra l'estensione delle complesse attività mentali in età avanzata e il rischio di demenza. In conclusione, lo studio avrebbe dimostrato una robusta evidenza di associazione, nelle prime fasi e quelle medio-tardive della vita tra i modelli complessi di attività mentale e una significativa riduzione del 46% dell'incidenza di demenza. Peraltro, nonostante le differenze nel modo con cui i vari fattori erano misurati, gli effetti relativi dell’alta formazione rispetto alla bassa (OR = 0,53), della complessità del lavoro (OR = 0,56) e del tempo libero alla fine della vita (OR = 0,50) erano molto coerenti. Altri studi prospettici più recenti hanno, peraltro, dimostrato un’associazione dose-dipendente in cui si riduce il rischio di demenza per ogni grado d’impegno per il tempo libero della crescente attività cognitiva.