NOTIZIARIO Gennaio 2014 N°1
BASI FISIOPATOLOGICHE, PSICOLOGICHE E CLINICHE NEL TRATTAMENTO DELL’OBESITÀ
A cura di:
Giuseppe Di Lascio §
Susanna Di Lascio #
Con la collaborazione di:
La regolazione dell’omeostasi energetica e del peso corporeo
La regolazione dell’omeostasi energetica e quella del peso corporeo sono sotto l’influenza di numerosi neurotrasmettitori e ormoni. Peraltro, un’ampia varietà di differenti percorsi funzionali neuronali gioca un ruolo ben distinto nella sua determinazione.
A tale proposito, Gibbs J. della Cornell University Medical College, New York e collaboratori hanno dimostrato per primi che la somministrazione intraperitoneale dell’ormone peptide intestinale, la CCK (cholecystokinin), attraverso un meccanismo apparentemente non repulsivo, riduceva nei ratti affamati l'assunzione del cibo (J. Comp. Physiol. Psychol. 1973, 84, 448-495). Gli Autori proposero, quindi, che la CCK endogena, rilasciata dal piccolo intestino durante il pasto, avesse il ruolo di farlo terminare e di indurre, così, lo stato di sazietà post-prandiale. Studi successivi hanno confermato che la somministrazione sistemica della CCK inibisce l'assunzione del cibo in un numero di altre specie animali, compreso l'uomo. Numerosi altri fattori, comunque, interagiscono per contribuire al bilancio energetico. Di essi sono stati dimostrati, ma in maniera incompleta, i loro ruoli negli squilibri energetici e nell’aumento del peso corporeo. Essi, in effetti, intervengono nel determinare l’appetito, come impulso e stimolo psicologico esterno a nutrirsi di particolari tipi di cibo per soddisfare un piacere edonistico, spesso in assenza della fame. Pur tuttavia, determinano anche la fame, come stimolo fisiologico interno del bisogno urgente di cibo, oppure la ripienezza, come sensazione di interrompere la nutrizione, o anche la sazietà, come sensazione dell’appagamento associata alla soppressione della fame. In particolare, la fame si manifesta, di solito, dopo poche ore di digiuno ed è una sensazione generalmente riferita sgradevole. Da notare che questo termine è anche usato comunemente per descrivere la condizione di chi soffre una mancanza cronica di cibo adeguato. Peraltro, la regolazione della fame e quella dell'assunzione del cibo coinvolgono i segnali neurali del tratto gastrointestinale, i livelli ematici delle sostanze nutritive e gli ormoni enterici.
La sensazione fisica della fame, comunque, è legata alle contrazioni dei muscoli dello stomaco. Queste contrazioni, chiamate anche morsi della fame, quando intense, sembrano essere innescate dalle alte concentrazioni della grelina, ormone prodotto dallo stomaco e rilasciato, in genere, dopo i lunghi periodi di digiuno per i bassi livelli dello zucchero nel sangue. In particolare, nei bambini e nei giovani adulti i così detti morsi da fame allo stomaco possono essere particolarmente gravi e dolorosi.
Sotto altro fronte, alcuni studi hanno anche suggerito che la vista del cibo e l’eccesso dello stress possono aumentare la produzione della grelina e, quindi, dell'appetito, spiegando, così, la prevalenza della fame e dell’aumento del peso in questi casi. Durante il digiuno, però, aumentano e stimolano la fame, per loro conto, anche i livelli del glucagone e dell’epinefrina.
Per altro verso, la sazietà definisce lo stato di soddisfazione raggiunto dopo la risposta alla necessità del cibo e il suo centro si trova nel nucleo ventromediale dell'ipotalamo degli animali. In particolare, i recettori della distensione del tratto gastrointestinale, inviando segnali lungo il nervo vago e inibendo, così, il centro della fame, tendono a inibire l'appetito. D’altro canto, il peptide YY e la leptina, il cui nome deriva dal greco λεπτός che significa magro ed è prodotta dagli adipociti differenziati, hanno un effetto opposto sull’appetito, provocando proprio la sensazione della sazietà.
La leptina, ormone secreto dalle cellule adipose con risposta a un aumento della massa grassa, è una componente importante nella regolazione della fame a lungo termine e dell'assunzione del cibo. Essa per il cervello rappresenta un indicatore delle riserve dell’energia totale del corpo. In condizione di suoi alti livelli nel sangue, si lega ai recettori dell’ARC (arcuate nucleus). Tende, così, a sopprimere il rilascio del NPY (neuropepptide Y) che, a sua volta, impedendo il rilascio dall'ipotalamo laterale delle oressine che aumentano l’appetito, favorisce la perdita del peso. Inoltre, la leptina stimola l'espressione della CART (cocaine and amphetamine-regulated transcript) e, anche se l'aumento dei suoi livelli ematici promuove in una certa misura la perdita del peso, ha il ruolo principale di proteggere il corpo contro questa condizione nei periodi di deprivazione nutrizionale. A riguardo di quanto riportato, si sono sviluppate le teorie del set-point della fame e del mangiare secondo l'ipotesi che la fame sia il risultato di un deficit energetico e che l’assunzione del cibo sia un mezzo attraverso il quale le risorse energetiche possano essere riportate al loro livello ottimale. L'assunzione del set-point è, quindi, quella di un meccanismo di feedback negativo che ha promosso la teoria glucostatica e quella lipostatica.
Jean Mayer dell’Harvard University ha il merito di aver introdotto estesamente per primo questi concetti (Eogl J Med. 1953;249 (1):13-16).
In verità, la coordinazione dell’assunzione dell’energia è fondamentale per tutti i meccanismi omeostatici. Prima di Mayer si erano, in effetti, succedute principalmente:
- la teoria dell’origine periferica della fame, secondo la quale l'assunzione del cibo sarebbe stata determinata dalla stimolazione di tutti i nervi afferenti per qualsiasi cambiamento nei tessuti o di un gruppo strettamente locale dei nervi sensoriali, principalmente situati nello stomaco,
- la teoria di origine centrale che ipotizzava la presenza di un centro cerebrale sensibile alle modificazioni sanguigne dettate dal digiuno,
- le teorie della sensazione generale che consideravano un centro della fame stimolato non solo da parte delle modificazioni ematiche in corso della fame, ma anche indirettamente dagli impulsi afferenti provenienti da tutti gli organi del corpo.
In seguito, fu suggerito che l'ipoglicemia, mediata dal suo effetto sullo stomaco, potesse essere responsabile dell’induzione delle sensazioni di fame. Pur tuttavia, la denervazione totale e la rimozione chirurgica dello stomaco non modificavano sostanzialmente le caratteristiche della regolazione dell'assunzione del cibo.
Durante il pasto, invece, si è appurato che gli adipociti rilasciano la leptina nell’organismo, la quale, a un certo livello, innesca la riduzione della motivazione a mangiare. Anche l’insulina e la colecistochinina vengono rilasciate dal tratto gastrointestinale durante l'assorbimento del cibo e tendono, per loro conto, a sopprimere la sensazione della fame. La CCK è la chiave di quest’azione, perché inibisce il NPY.
In definitiva, è la fluttuazione dei livelli della leptina e dell’ormone grelina che condiziona per un organismo la motivazione a consumare il cibo. Dopo ore di digiuno, infatti, i livelli della leptina diminuiscono sensibilmente, causando il rilascio della grelina, che, a sua volta, reinnesca il senso della fame. Peraltro, le fibre nervose vagali, permettendo la stretta connessione della comunicazione nervosa tra il cervello e il tratto gastrointestinale, attivano la percezione della differenza tra i diversi macronutrienti della dieta.
In verità, i progressi scientifici in campo neurofarmacologico e neuroendocrino degli ultimi decenni hanno permesso di individuare un numero sempre maggiore di molecole coinvolte nella regolazione del comportamento alimentare. I fattori bioumorali coinvolti nel controllo dell’alimentazione possono essere oressigeni, come ormoni e citochine, oppure anoressigeni, come neuropeptidi e nutrienti ematici.
In particolare, tra gli ormoni sono stati individuati i glucocorticoidi, l’aldosterone, gli estrogeni, l’insulina, la colecistochinina, il GLP-1 e 2 (glucagon-like peptide), il PYY, la grelina, l’amilina.
Tra le citochine sono stati definiti la leptina, la resistina, l’adiponectina, l’IL-6, il TNF-alfa.
Tra i neuropeptidi sono stati descritti il neuropepptide Y (NPY), la grelina, la galanina, gli oppioidi endogeni (beta-endorfine, dinorfine, encefaline), gli endocannabinoidi (anandamide), il GHRH, il CRH (urocortina), la proopiomelanocortina (POMC), il MCH (melanin-concentrating hormone), l’oressina, il CART (cocaine and amphetamine-regulated transcript), l’AGRP (agouti-related protein), l’OXM.
In definitiva, bisogna considerare che il glucosio è il candidato naturale come segnale della regolazione dell’apporto energetico. La fame, infatti, è una caratteristica dell’ipoglicemia. Peraltro, sono descritti all'interno dell’ipotalamo, e più precisamente a livello dei suoi nuclei DMH, VMH e della sua area anteriore, i neuroni glucosio-sensibili, alcuni dei quali anche sensibili all'insulina. È stato anche suggerito che i cambiamenti relativamente piccoli del glucosio potrebbero innescare, sotto qualche circostanza, l'inizio del pasto. Peraltro, l’ipoglicemia, aumentando la sintesi e la liberazione del NPY nell’ARC (arcuate nucleus) e nel VMH (ventromedial hypothalamus) e dell’oressina nello LH (lateral hypothalamus), può anche influenzare la regolazione centrale del consumo del cibo. In effetti, una situazione d’insulinoresistenza centrale potrebbe essere responsabile di una relativa diminuzione della captazione del glucosio da parte delle cellule dello SNC, interferendo, così, con l’attività del network dei neuropeptidi oressigeni. In tal modo, si può configurare l’ipotesi che la captazione a livello cerebrale del glucosio sia ridotta nei ratti geneticamente obesi e nei pazienti con grande obesità, come nella sindrome di Prader-Willi. Di fatto, l'utilizzazione del glucosio cerebrale locale è ridotta in diverse aree cerebrali dei ratti obesi e anche nel talamo e nelle aree ipotalamiche dei malati con sindrome di Prader-Willi. Un’insulinoresistenza selettiva ipotalamica potrebbe anche essere pertinente per realizzare i cambiamenti comportamentali e neuroendocrini che si verificano in queste sindromi di obesità con resistenza all'insulina.
Per altro verso, l'accumulo dei grassi a lunga catena e le variazioni del tasso di ossidazione dei lipidi nei neuroni ipotalamici selettivi tende a offrire un segnale di abbondanza dei nutrienti, attivando una catena di eventi neuronali destinati a promuovere una trasformazione dai carboidrati ai lipidi di deposito, limitando l'ulteriore ingresso nella circolazione dei substrati calorici esogeni ed endogeni. Tale restrizione potrebbe essere richiesta per il mantenimento dell’omeostasi energetica e metabolica. Il suo fallimento, di certo, potrebbe contribuire all’aumento del peso e all’intolleranza al glucosio.
Peraltro, la modulazione dell'attività dei neuroni ipotalamici è coinvolta nella regolazione del bilancio energetico esercitata dalla leptina, ormone, come detto, derivato dal tessuto adiposo. Nell’ARC (arcuate nucleus) questi neuroni esprimono sia la POMC (pro-opiomelanocortin) sia il CART (cocaine and amphetamine-responsive transcript), oppure il NPY (neuropeptide Y) e l’AgRP (agouti-related peptide).
Di fatto, i neuroni oressigeni contenenti il peptide OX (hypocretin-1/orexin-A) risiedono nel nucleo LH dell'ipotalamo (lateral hypothalamus) e da lì inviano le proiezioni in tutto il cervello. Essi sono stati implicati in una varietà di funzioni, come la veglia e l'omeostasi energetica, le risposte comportamentali di ricompensa al cibo e alle sostanze stupefacenti e al deflusso neuroendocrino e autonomo. I risultati della deprivazione alimentare a breve termine dimostrano la diminuzione dell’attività dei neuroni POMC e degli aumenti di quella dei neuroni NPY / AgRP, facilitando in tal modo il consumo del cibo. Tale deprivazione provoca anche la valorizzazione degli input eccitatori ai neuroni OX. Responsabile di tali alterazioni è la riduzione dei livelli di leptina, dal momento che le stesse sono invertite dalla somministrazione dell'ormone. Pur tuttavia, sebbene i livelli di quest’ormone siano alterati nell'obesità, ci sono poche informazioni sul potenziale adeguamento degli input eccitatori verso quelli inibitori riguardanti i circuiti ipotalamici nei modelli animali sia obesi e sia nei topi ob / ob con spontanea mutazione nonsense (mutazione puntiforme che trasforma una tripletta codificante in una delle tre con interruzione e accorciamento prematuro della catena polipeptidica della proteina) del gene della leptina.
Per altro verso, il sistema endocannabinoide ipotalamico svolge un ruolo importante nel modulare la neurotrasmissione, sia di tipo eccitatorio sia inibitorio, sensibile alla leptina. Il suo tono è, in effetti, alterato nell'obesità. Per loro conto, invece, gli endocannabinoidi 2 - AG (2-arachidonoylglycerol) e l’anandamide influenzano l'assunzione del cibo, regolando il rilascio dei diversi neuropeptidi anoressigeni e oressigeni ipotalamici, attraverso l'attivazione dei CB1Rs (cannabinoid CB1 receptors), capaci di esercitare un controllo bimodale sull’alimentazione.
Nel nucleo LH dei roditori magri i CB1Rs inibiscono gli ingressi, sia inibitori ai neuroni anoressigeni che esprimono il MCH (melanin-concentrating hormone) e sia eccitatori ai neuroni OX. Peraltro, la localizzazione presinaptica dei CB1R nei nuclei ipotalamici supporta il ruolo di primo piano degli endocannabinoidi, come neuromodulatori retrogradi, soprattutto per il 2 - AG che, di solito, è biosintetizzato e rilasciato su domanda dai neuroni postsinaptici. Tuttavia, non è noto se nel LH, come in altre regioni del cervello, il principale enzima sintetizzante il 2 - AG, il DAGL α (diacylglycerol lipase-α), e gli enzimi degradanti, il MAGL (monoacylglycerol lipase) e l’ABHD6 (serine hydrolase α-β-hydrolase domain 6), siano posizionati per facilitare le azioni retrograde CB1R - mediate, né se l'obesità alteri l'espressione e la distribuzione di questi enzimi e dei CB1Rs.
Pur tuttavia, poiché l’OX è implicato in molti aspetti della fisiologia e della patologia dei mammiferi, i cambiamenti putativi, indotti dall’obesità nel controllo dell’attività neuronale degli endocannabinoidi OX, possono influenzare profondamente molteplici funzioni.
A proposito di quanto riportato, Gary D. Lopaschuk dell’University of Alberta, Canada e collaboratori hanno riassunto i meccanismi ipotalamici rivolti alla regolazione dell'appetito (Pharmacol Rev 62:237–264, 2010). Gli Autori hanno, così, ribadito il ruolo chiave dell'ipotalamo come mediatore del bilancio energetico apporto/dispendio. In particolare, il malonil CoA ipotalamico è stato riconosciuto importante nella mediazione di questo bilancio. Esso si genera, in effetti, dalla carbossilazione dell’acetil CoA per mezzo della sua carbossilasi specifica per essere poi incorporato negli acidi grassi a catena lunga a opera della sintasi, o per essere riconvertito dalla malonil CoA decarbossilasi. Di certo, l’aumento ipotalamico del malonil CoA è un indicatore di eccedenza energetica, cui segue una diminuzione dell'assunzione del cibo e un aumento del dispendio energetico. Al contrario, una sua diminuzione segnala un deficit energetico con conseguente aumento dell'appetito e una diminuzione del dispendio energetico. Degno di nota è che è stato anche dimostrato come un certo numero di vie di segnalazione oressigene e anoressizzanti ormonali e neurali abbiano azione sui cambiamenti dei livelli del malonil CoA nel nucleo arcuato (ARC) dell'ipotalamo. Pur tuttavia, anche se vi sono evidenze che il malonil CoA sia un mediatore importante nel controllo dell’ARC ipotalamico del cibo e, quindi, della regolazione del bilancio energetico, non ne è stato ancora stabilito il meccanismo alla base della sua azione. Una migliore comprensione, comunque, delle modalità con cui il malonil CoA regola l'equilibrio energetico dovrebbe fornire nuovi approcci per l’individuazione del metabolismo intermedio nell'ipotalamo come meccanismo di controllo dell’appetito e del peso corporeo con risvolti interessanti anche nei riguardi della terapia dell’obesità.
Per altro verso, Luigia Cristino dell’Institute of Cybernetics “Eduardo Caianiello, Pozzuoli – Italy e collaboratori, hanno voluto verificare nell'obesità le possibili alterazioni inibitorie ed eccitatorie sui neuroni contenenti l’oressina -A nell'ipotalamo laterale e le consequenziali modificazioni del loro controllo endocannabinoide (PNAS 2013 110 (24) E2229-E2238). In particolare, gli Autori miravano a valutare se nell’obesità l'organizzazione sinaptica fosse modificata nel nucleo LH, interessando il 2 - AG e la modulazione CB1R dell'attività neuronale OX, oressina, responsabile per l'appunto della regolazione dell’appetito e del sonno. Tutto ciò sulla base che le alterazioni acute o croniche dello stato energetico potevano alterare l'equilibrio tra le trasmissioni eccitatorie e inibitorie associate alla plasticità sinaptica per consentire l'adattamento del metabolismo energetico alle nuove esigenze omeostatiche. Collaterale era, peraltro, la considerazione dell’impatto sugli endocannabinoidi e sul loro recettore CB1, anche per lo sviluppo di nuovi farmaci contro l'obesità. Nei topi magri, in effetti, questi input erano prevalentemente di tipo eccitatorio. Utilizzando approcci di microscopia laser confocale, ultrastrutturali, elettrofisiologici e biochimici, gli studiosi indagavano le potenziali alterazioni degli input GABAergici e glutamatergici sui neuroni OX modulati dal CB1R, valutandone l'attività. Lo studio era condotto in topi maschi obesi ob / ob di diversa età e in altri adulti sempre obesi dopo prolungata HFD (high-fat diet).
Con l'analisi microscopica ultrastrutturale e confocale si osservava che nei topi obesi, sia per dieta sia in quelli knockout (ob / ob) per la leptina, i neuroni oressinergici ricevevano prevalentemente gli input inibitori esprimenti i CB1 ed esprimevano esageratamente l'enzima biosintetico per l'endocannabinoide 2 - arachidonoilglicerolo con inibizione retrograda della trasmissione sinaptica terminale dell’assone esprimente il CB1. Inoltre, nei topi ob / ob le registrazioni di patch clamp, con blocco della differenza di potenziale elettrico in una piccola area della membrana cellulare o dell'intera cellula, mostravano un aumento dell’innervazione inibitoria sensitiva CB1 dei neuroni oressinergici. Queste alterazioni s’invertivano in parte con la somministrazione della leptina.
In conclusione, gli Autori suggerivano che il maggiore controllo inibitorio dei neuroni oressina-A e la loro disinibizione CB1 - mediata fossero una conseguenza del danno della segnalazione della leptina nel nucleo arcuato. In tale contesto, intendevano fornire anche la prova iniziale della partecipazione di questo fenomeno all’iperfagia e alla disregolazione ormonale dell’obesità. Lo studio, in effetti, spiegava per la prima volta il meccanismo della mancanza di controllo della fame e anche del ritmo del sonno negli obesi con i possibili consequenziali riverberi opzionali terapeutici contro le comorbidità, come l’ipertensione, le cardiopatie, l’ansia e l’insonnia intermittente.
Fattori bioumorali dei segnali di appetito/fame nel controllo dell’alimentazione
In particolare, i segnali oressigeni sono prodotti da numerosi fattori come descritti di seguito.
- Il NPY (Neuropeptide Y) è sintetizzato prevalentemente nell’ARC, proietta afferenze ai nuclei PVN, DMN e LH dell’ipotalamo, è il più importante attivatore del consumo del cibo, rispondendo sia al digiuno sia alla restrizione calorica, stimola la produzione di altri segnali oressigeni, quali le ß-endorfine, è co-espresso con l’AgRP (Agouti Related Protein).
- Il MCH (Melanin Concentrating Hormone), un mediatore critico del fenotipo leptino-carente, è sintetizzato nell’ipotalamo laterale, proiettando afferenze a molte delle sue aree, attiva il consumo del cibo, rispondendo al digiuno indipendentemente dal NPY, la sua azione è potenziata dal NPY e dagli endocannabinoidi.
- Gli endocannabinoidi (Anandamide) sono prodotti in molte aree dello SNC, ubiquitariamente provvisto di recettori specifici CB-1 attivati da numerosi neuropeptidi, specie il NPY e le β-Endorfine. Facilitano il consumo del cibo, rispondendo al digiuno indipendentemente dal NPY. La loro azione è potenziata dallo NPY e dalle β-Endorfine e inibita dalla leptina ed è simile a quella del Δ9-THC (cannabis). Gli endocannabinoidi sembrano rivestire un ruolo nei processi di amplificazione della motivazione al consumo dei cibi palatabili, aumentando gradualmente nell’intervallo tra i pasti sino a un livello critico in cui scatta la necessità del cibo. I livelli degli endocannabinoidi ipotalamici variano in relazione al digiuno e all’alimentazione. Essi sono prodotti a domanda dalle membrane cellulari e immediatamente metabolizzati dopo la loro azione. Il sistema endocannabinoide endogeno permette la risposta allo stress con attivazione transitoria che produce rilassamento, riposo, protezione, introduzione del cibo. Gli endocannabinoidi incrementano l’assunzione del cibo attraverso l’attivazione del recettore CB1. In effetti, in vari modelli di ratti obesi il sistema endocannabinoide nell’ipotalamo diviene iperattivo permanentemente, determinando iperfagia. Peraltro, la somministrazione dell’Anandamide nell’ipotalamo di ratti sazi induce l’iperfagia.
- Le β-Endorfine sono oppioidi endogeni prodotti in molte regioni cerebrali e soprattutto nel PVN, proiettano afferenze a molte aree ipotalamiche e alla corteccia, facilitano il consumo del cibo, rispondendo al digiuno su stimolo del NPY e dell’AgRP, potenziano l’azione degli endocannabinoidi.
- La grelina è prodotta nello stomaco e nell’ipotalamo, aumenta durante il digiuno mentre diminuisce alla presenza di nutrienti nello stomaco. La sua somministrazione centrale incrementa l’espressione ipotalamica del NPY. Esplica un ruolo nella regolazione a lungo termine del peso corporeo. I suoi effetti oressigeni consistono nell’aumento del cibo indipendentemente dal rilascio del GH e del GHRH, dall'abolizione dell’aumento dell’espressione del mRNA NPY ipotalamico con la co-iniezione dell’antagonista del recettore Y1, dalla soppressione dell'effetto di sazietà della leptina e della co-iniezione della grelina ⇒ leptina / grelina antagonismo (NPY/Y1 pathway), dall’effetto oressigeno mediato in parte da un aumento della produzione dell’AgRP, che a sua volta determina l'inibizione del sistema melanocortinico ipotalamico.
Fattori bioumorali dei segnali di sazietà nel controllo dell’alimentazione
I segnali anoressigeni sono prodotti, invece, dai fattori di seguito indicati.
- La leptina, codificata dal gene dell’obesità (ob), è un ormone proteico che regola il peso corporeo, il metabolismo e le funzioni riproduttive. Essa è espressa prevalentemente dagli adipociti, ma piccole quantità sono prodotte nello stomaco e nella placenta. Pur tuttavia, i suoi recettori specifici sono particolarmente espressi nell’ipotalamo, nei linfociti T e nelle cellule endoteliali. I sui livelli circolanti aumentano dopo il pasto e si riducono nel digiuno prolungato. Ha un ritmo circadiano con acrofase durante la notte e nadir durante il pomeriggio, una pulsatilità, quindi, opposta all’ACTH e al cortisolo. I suoi livelli plasmatici sono proporzionali alla massa adiposa. In effetti, gli obesi presentano un consistente aumento dei livelli ematici di leptina che l'alimentazione non sopprime. Questo dato suggerisce che nell’uomo l’obesità sia legata a un’azione di resistenza a quella della leptina a livello dei suoi centri ipotalamici, piuttosto che a un suo deficit secretorio. Essa riduce l’introito del cibo per inibizione dell’appetito ed effetto sul GH-RH e sullo GnRH, aumenta il dispendio energetico, facilita l’ematopoiesi, regola l’attività tiroidea, il sistema riproduttivo e immunologico e la formazione dell’osso. La leptina attiva l’AMPK nel muscolo scheletrico per potenziare l’ossidazione degli acidi grassi, proponendosi come regolatrice dell’omeostasi lipidica. Hanno azione stimolante per la secrezione della leptina: l’iperalimentazione, la massa adiposa, le dimensioni degli adipociti, i livelli d’insulina, gli acidi grassi, i glucocorticoidi, il TNFα-IL1. Hanno, invece, azione inibente: il digiuno, il freddo, l’esercizio fisico intenso, gli androgeni, l’ipertono simpatico, le catecolamine, l’ormone della crescita. Nei topi fenotipo con assenza di leptina circolante e mutazione nel gene della leptina si riscontrano: obesità, iperfagia, infertilità. La somministrazione di leptina corregge adeguatamente sia l’iperfagia sia l’eccesso di peso corporeo e l’infertilità. Al contrario, nel topo genotipo con recettore per la leptina non funzionante e sempre fenotipo con obesità, diabete, iperfagia, infertilità la somministrazione di leptina non corregge né l’iperfagia e neanche l’eccesso di peso e l’infertilità.
- L’insulina, come la leptina, si correla all’entità dei depositi di grasso, controllando il sistema con un meccanismo a lungo termine. È il primo ormone storicamente coinvolto nel controllo dell’appetito. Ha un’azione anoressigena e la sua secrezione è rapidamente stimolata dai livelli glicemici, segnalati rispettivamente nelle cellule adipose e nelle cellule pancreatiche. Essa, in definitiva, regola principalmente l’omeostasi glucidica e in caso d’insulinoresistenza periferica si possono produrre i conseguenti fenomeni di glucotossicità. La leptino-resistenza, invece, può determinare un accumulo di lipidi intracellulari, con conseguente lipotossicità a livello delle cellule beta del pancreas, del miocardio e di altri tessuti, determinando i danni a carico dei vari organi e apparati, comuni negli obesi.
- Il GLP-1 (glucagon-like-peptide-1) è un peptide di trenta aminoacidi espresso e secreto dalle cellule endocrine-L della mucosa a livello dell’ileo e del colon. Ha la proprietà di aumentare la secrezione dell’insulina e di sopprimere quella del glucagone nella fase postprandiale. Rallenta lo svuotamento gastrico e, quindi, attenua la risposta insulinica indotta dal cibo. Inibisce anche l’appetito e riduce l’introito del cibo. La somministrazione centrale di GLP-1 nel ratto inibisce l’assunzione del cibo e dell’acqua con un effetto specifico. Nell’obesità i suoi livelli sono stati dimostrati più bassi della norma.
- Il peptide YY (PYY) è un ormone prodotto soprattutto nelle cellule L neuroendocrine della mucosa intestinale dell'ileo e del colon. In una piccola quantità, pari a circa 1-10%, si trova nell’esofago, nello stomaco, nel duodeno e nel digiuno. La sua concentrazione ematica aumenta dopo ingestione del cibo e diminuisce con il digiuno. Inoltre, è prodotto da una popolazione discreta di neuroni del tronco cerebrale, specificamente localizzati nel nucleo reticolare gigantocellulare del midollo allungato. È costituito da trentasei amminoacidi e presenta grande omologia di struttura e funzione con il peptide pancreatico (PP). È un peptide codificato dal gene PPY nell'uomo, in cui sembra ridurre l'appetito, inibisce le contrazioni intestinali, le secrezioni pancreatiche e gastriche, aumenta l'assorbimento dell’acqua e degli elettroliti nel colon. Inoltre, aumenta l'efficienza della digestione e l'assorbimento dei nutrienti dopo un pasto. La ricerca ha anche indicato che il PYY può essere utile nel rimuovere alluminio accumulato nel cervello.
- La CCK (cholecystokinin), precedentemente denominata pancreozimina, è un ormone digestivo rilasciato con la secretina quando il cibo dallo stomaco raggiunge il duodeno, la prima parte dell'intestino tenue. Per un certo tempo la colecistochinina e la pancreozimina sono state considerate due ormoni separati con due distinte azioni: la contrazione della cistifellea e il rilascio degli enzimi pancreatici. Oggi giorno queste due azioni sono riconosciute appartenenti a un solo enzima, ora noto solo come colecistochinina. Essa è, quindi, prodotta dall’intestino tenue su stimolo dell’acido cloridrico, degli aminoacidi e dei lipidi, attiva i segnali della sazietà, inibendo probabilmente la produzione delle β-endorfine. Riduce la motilità gastrica, attiva la contrazione della colecisti, attiva la secrezione pancreatica, aumenta la motilità del colon, e forse favorisce la memoria del cibo. La sua somministrazione centrale, comunque, riduce l’assunzione del cibo.
- Il CART (Cocaine and Amphetamine Related Transcript), chiamato così perché i suoi livelli aumentano in seguito all’assunzione di cocaina e di anfetamina, è stato inizialmente identificato con display differenziale PCR come mRNA i cui livelli nel cervello erano per l’appunto specificamente indotti dagli stimolanti psicomotori come la cocaina e le anfetamine. È stato dimostrato che controlla la sazietà, modulando le azioni dei due regolatori chiave dell’assunzione del cibo, la leptina e il NPY. La fame diminuisce i livelli del CART nel nucleo arcuato. Gli animali obesi, in effetti, non hanno in sostanza alcuna quantità di CART. Esso inibisce sia l'alimentazione normale e sia quella da fame e anche completamente quella indotta dal NPY. L’immunoneutralizatione del CART con la somministrazione di anticorpi specifici ha portato a una maggiore assunzione del cibo, suggerendo un ruolo di regolatore endogeno dell’assunzione del cibo.
- La POMC (pro-opiomelanocortin) è un precursore comune di diversi ormoni peptidici, come l'ACTH, la b-lipotropina (b-LPH), il α-MSH e β-MSH (Melanocyte-Stimulating Hormone), le encefaline e le endorfine. La POMC è presente nel lobo anteriore dell'ipofisi e precisamente nelle cellule derivate dal lobo intermedio. Si ritrova anche nell'ipotalamo, ma gli ormoni attivi che si formano da essa sono differenti in rapporto alla sede in cui si trova e in rapporto alle differenze dell'elaborazione enzimatica. La sua sintesi da parte delle cellule del lobo intermedio dell’ipofisi sembra essere regolata principalmente dalla dopamina e dalla serotonina, mentre il CRH è l'agente regolatore fondamentale nel lobo anteriore. Lo α-MSH prodotto dai neuroni nel nucleo arcuato ha un ruolo importante nella regolazione dell'appetito e del comportamento sessuale, mentre quello secreto dal lobo intermedio dell'ipofisi regola la produzione di melanina. È così che la POMC e lo MSH possono determinare iperpigmentazione della cute e acquistano importanza clinica esclusivamente nelle patologie in cui i livelli di ACTH sono marcatamente elevati, cioè nel morbo di Addison e nella sindrome di Nelson. Le encefaline e le endorfine sono considerate oppioidi endogeni e si legano ai recettori per gli oppioidi in tutto il SNC, attivandoli. L’ACTH è un ormone peptidico che regola la secrezione dei glucocorticoidi dalla corteccia surrenale. Le β-endorfine e metaencefaline sono peptidi oppioidi endogeni con azioni diffuse nel cervello.
- L’OXM (oxyntomodulin) viene rilasciata dall’intestino in fase postprandiale in proporzione all'apporto energetico. I suoi livelli circolanti sono elevati in diverse condizioni associate con l'anoressia. L’iniezione centrale riduce l'assunzione del cibo e l’aumento di peso nei roditori, suggerendo un suo ruolo come segnale dell’ingestione del cibo ai circuiti ipotalamici che regolano l'appetito. In definitiva, L’OXM sembra sopprimere l’appetito e ridurre l’assunzione del cibo nell’uomo.
Altri particolari fattori bioumorali per il controllo dell’alimentazione
Anche per i nutrienti ematici è stato riconosciuto un ruolo nella fisiopatologia dell’alimentazione, come per il glucosio, gli acidi grassi, i vari aminoacidi, il lattato e i corpi chetonici. Sono stati implicati anche i neurotrasmettitori, quali la noradrenalina, la dopamina, la serotonina, il GABA (acido gamma amino butirrico) e lo NO (ossido nitrico).
Il controllo centrale è stato riconosciuto per la serotonina, il neuropeptide Y, gli oppioidi, gli endocannabinoidi, le oressine, l’AGRP, il CART, il POMC.
Quello periferico dei segnali della fame è stato individuato nella grelina, mentre quello dei segnali della sazietà nella leptina, nella resistina, nell’adiponectina, nell’insulina, nella colecistochinina, nel GLP-1, nel PYY, nell’amilina, nell’ossintomodulina.
I segnali oressigeni sono, peraltro, mediati dal NPY (Neuropeptide Y), dall’ART/AgRP, dal MCH (Melanin Concentrating Hormone), dagli endocannabinoidi, dall’anandamide, dagli oppioidi endogeni, dalle β-Endorfine, dalle dinorfine, dalle encefaline, dalla grelina.
In tutto ciò, l’ipotalamo è ormai considerato da qualche tempo la centralina della regolazione dell’omeostasi energetica con la capacità di rispondere proporzionalmente con gli impulsi di riduzione o meno dell’assunzione del cibo alle riserve del grasso corporeo. In particolare, è stato anche identificato il coinvolgimento dei nuclei dell’ipotalamo morfologicamente ben definiti, come l’APO (Area PreOttica), il LH (Lateral Hypothalamus), il DMN (DorsoMedial Nucleus), il PFH (PeriFornicolal Hypothalamus), il VMH (VentroMedial Hypothalamus), l’ARC (Arcuatus Nucleus) e il PVN (ParaVentricular Nucleus).
A proposito di quanto riportato, va segnalato che sono stati rilevati anche nel cervello, e più specificamente nell'ipotalamo, i recettori per l’adiponectina, la cui funzione è ancora da chiarire completamente. Pur tuttavia, si considera oramai che essa abbia la funzione di regolare l'omeostasi energetica. L’adiponectina è secreta, soprattutto, dal tessuto adiposo, ma anche dalla placenta durante la gravidanza. L'adiponectina, secreta nel flusso sanguigno in concentrazioni più abbondanti nel plasma rispetto a molti ormoni, è presente in circa 5-10 mg / mL, rappresentando circa lo 0,01% di tutte le proteine plasmatiche. A tale riguardo, presenta un dimorfismo sessuale essendo a livelli più elevati nelle femmine, rispetto ai maschi. I suoi livelli negli adulti sono inversamente correlati con la percentuale del grasso corporeo. In effetti, la sua concentrazione plasmatica è inversamente correlata con l’adiposità nei roditori, nei primati e anche negli esseri umani. Aumenta significativamente nei roditori dopo restrizione alimentare ed anche negli obesi dopo la perdita di peso indotta da una dieta ipocalorica o dalla chirurgia bariatrica. La sua somministrazione periferica nei roditori ha dimostrato di attenuare l’aumento del peso corporeo attraverso il maggiore consumo di ossigeno, senza modificare l’assunzione del cibo. Il suo effetto periferico sulla spesa energetica sembra, comunque, essere mediato dall'ipotalamo, dal momento che induce l’espressione precoce del gene c - fos nel nucleo PVN e che può coinvolgere il sistema della melanocortina. Sotto tale punto di vista, le riduzioni dell’adiponectina potrebbero forse contribuire alla patogenesi dell’obesità. Le evidenze, sino ad ora ottenute, hanno dimostrato anche che i suoi livelli plasmatici correlano negativamente con insulino-resistenza e che può ridurre il peso corporeo determinando una migliore sensibilità all'insulina e una diminuzione dei livelli dei lipidi nei roditori. L’adiponectina è, quindi, un ormone proteico che modula una serie di processi metabolici. Regola, in particolare, il metabolismo del glucosio e degli acidi grassi. L'ormone svolge un ruolo nella soppressione delle alterazioni metaboliche che possono sfociare nel diabete di tipo 2, nell'obesità, nell’aterosclerosi, nella steatosi epatica non alcolica (NAFLD). I suoi livelli, infatti, sono ridotti nei pazienti diabetici, rispetto ai non diabetici, e la riduzione del peso aumenta in modo significativo i suoi livelli circolanti. È da considerare anche come un fattore di rischio indipendente per la sindrome metabolica. L’adiponectina, inoltre, in combinazione con la leptina, ha dimostrato nei topi di invertire completamente la resistenza all'insulina. Questi roditori knock- out dimostrano, inoltre, grave resistenza all'insulina indotta dalla dieta e una propensione all’aterogenesi per danno intimale vascolare. L’adiponectina, in effetti, esercita alcuni dei suoi effetti di riduzione del peso tramite il cervello. Tutto ciò in modo simile all'azione della leptina con la quale esegue azioni complementari con effetto sinergico.
Per altro verso, l’adiponectina, aumentando le spese energetiche, può fornire protezione contro l’insulino-resistenza e l’aterogenesi, possibilmente in virtù di una regolazione dell'assunzione del cibo, della la gluconeogenesi e della lipogenesi. Degno di nota è che nei modelli dei roditori con obesità e anche in persone obese con diabete mellito di tipo II i tiazolidinedioni, agonisti del PPARγ (peroxisome proliferator-activated receptor gamma), possono aumentare i livelli circolanti dell’adiponectina. Sta di fatto, che l'espressione transgenica cronica dell’ormone provoca effetti simili a quelli del trattamento cronico con tiazolidinedioni, suggerendo che parte degli effetti insulino-sensibilizzanti di questi farmaci può essere mediata da un aumento dei livelli dell’adiponectina. L’AdipoR1 è il recettore dell’adiponectina, altamente espresso nel muscolo scheletrico, con una forte affinità per il gAcrp30 (globular domain of Acrp30) e una bassa per il ligando full-length. L’AdipoR2 è, invece, il recettore altamente espresso nel fegato e mostra legame preferenziale al ligando full-length.
Altra sostanza da considerare è la resistina che, prodotta dal tessuto adiposo, è un ormone peptidico ricco di cisteina derivato dal tessuto adiposo ed è codificata nell'uomo dal gene RETN. È una citochina il cui ruolo fisiologico è stato oggetto di molte polemiche, soprattutto per quanto riguarda il suo coinvolgimento nell'obesità e nel diabete mellito di tipo II. Sembra, in effetti, che aumenti la resistenza all'insulina. Essa è aumentata nei roditori obesi e nell'uomo rientra nei valori normali dopo la perdita del peso. Topi knockout mostrano, peraltro, una maggiore tolleranza al glucosio sotto una dieta ricca di grassi. Topi transgenici che iperesprimono una forma dominante negativa della resistina mostrano un’aumentata adiposità con elevati livelli di adiponectina e leptina, nonché una maggiore tolleranza al glucosio e una sensibilità all'insulina. La resistina, inoltre, ha dimostrato di causare alti livelli del colesterolo LDL con aumento del rischio di cardiopatie. Aumenta, in effetti, la produzione delle LDL nelle cellule epatiche umane e degrada anche i loro recettori LDL epatici. Come risultato, il fegato ha minore capacità di eliminare il colesterolo cattivo. La resistina accelera, quindi, l'accumulo delle LDL nelle arterie, con le conseguenze dell’aterosclerosi. In altri termini, la resistina impatta negativamente gli effetti delle statine, i farmaci principalmente usati per la riduzione del colesterolo nel trattamento e nella prevenzione delle malattie cardiovascolari. Pur tuttavia, anche se la resistina può contribuire allo sviluppo dell’insulino-resistenza e del diabete nell'obesità, il suo ruolo nella patogenesi di quest’ultima malattia resta ancora da ben definire.
Altra sostanza è la bombesina, tetradecapeptide originariamente isolato dalla pelle degli anfibi e ampiamente distribuito nell'intestino dei mammiferi. I suoi livelli plasmatici sono stati dimostrati aumentati drasticamente dopo la poppata. Essa ha una struttura simile al GRP (gastrin-releasing peptide) dei mammiferi e alla neuromedina B. Stimola il rilascio della gastrina dalle cellule G dello stomaco. Insieme alla colecistochinina è la seconda maggiore fonte dei segnali negativi di feedback che frenano il comportamento alimentare. Attiva tre diversi recettori G accoppiati a proteine note, come la BBR1, -2, e -3, anche nel cervello. Le sue iniezioni periferiche o centrali riducono l’assunzione alimentare non bloccata dalla vagotomia, con effetto indipendente dalla CCK. Il topo knock-out del recettore-3 della bombesina è moderatamente obeso a 6-8 settimane di età, ma diviene significativamente iperfagico a solo dodici settimane dopo aver sviluppato l'obesità. Da notare è che la bombesina è anche un marcatore tumorale per il carcinoma a piccole cellule del polmone, del cancro gastrico e del neuroblastoma.
Genotipo e variazione della composizione corporea e della distribuzione del grasso
È noto che l'obesità è determinata principalmente dai fattori genetici e di stile di vita. Negli ultimi anni gli studi GWASs (genome-wide association studies) hanno identificato un gruppo di loci genetici associati con la BMI e il rischio di obesità. Tra questi il locus della massa grassa e del gene associato all'obesità (FTO) mostra l'effetto più forte. Al proposito, si sono accumulate evidenze sul coinvolgimento di questo locus nella regolazione ipotalamica dell’appetito e dell’assunzione delle calorie alimentari. In particolare, diversi studi hanno esaminato l'effetto dell'interazione FTO/dieta sul peso corporeo, ma con risultati non del tutto coerenti. Altre ricerche trasversali hanno dimostrato che i fattori dietetici, come il basso apporto di grassi, sono in grado di modificare l'effetto genetico del FTO sulla BMI o sulla distribuzione del grasso. Tuttavia, negli studi d’intervento randomizzati, anche se uno di essi ha trovato che un intervento di dieta mediterranea modificava l'associazione tra la variante FTO e le modificazioni del peso in una popolazione ad alto rischio cardiovascolare, il gene non è stato univocamente osservato per interazione della dieta. Queste ricerche, tuttavia, sono state in gran parte limitate dal campione di studio relativamente piccolo o dal breve periodo di follow - up. Inoltre, gli studi sperimentali sugli animali hanno suggerito che il FTO potrebbe influire in modo differenziato sulle varie composizioni del corpo e sulla distribuzione del grasso in diversi depositi. Pochi studi hanno, invece, valutato sistematicamente l'effetto della variante FTO su queste misure.
D’altro canto, studi su coppie di gemelli monozigoti (MZ) e dizigoti (DZ) hanno rappresentato un modo efficace d’indagine per quantificare il contributo delle influenze genetiche e ambientali alle variazioni in diversi caratteristiche alimentari.
Oltretutto, lo studio dei gemelli può essere utilizzato per controllare gli effetti genetici e, quindi, ulteriormente differenziare le influenze ambientali legate alle esperienze di vita, che sono condivise o non dalle parti. In effetti, i comportamenti alimentari includono caratteri relativi all’appetito, all’accettazione del cibo e ai modelli del pasto. Studi esistenti sui gemelli hanno segnalato, peraltro, la moderata o forte ereditabilità per le varie caratteristiche di appetibilità in entrambi i neonati e anche in bambini di età superiore. Interessante a tale proposito è considerare come la neofobia, caratteristica legata all’accettazione del cibo, mostra, per suo conto, una forte ereditarietà nei bambini di età compresa tra gli otto e gli undici anni. Fattori legati alla regolazione dell’assunzione del cibo o alla predisposizione del gusto potrebbero, quindi, spiegare l'importanza relativa della genetica nell'espressione di questi tratti alimentari.
Eppure, l’ambiente familiare e quello fuori di casa, man mano che i bambini crescono, possono esercitare influenze marcate su alcuni comportamenti alimentari durante l'infanzia, tra cui la modalità del mangiare con pasti e spuntini. Tuttavia, pochi studi sui gemelli hanno esaminato prima dell'età adulta i comportamenti specificamente connessi con i modelli alimentari nei pasti.
A proposito di quanto riportato, Xiaomin Zhang dell’Harvard School of Public Health, Boston, Massachusetts e collaboratori hanno testato l'effetto della variante FTO sulla perdita del peso in risposta agli interventi di dieta di due anni (Diabetes 61:3005–3011, 2012). Gli Autori, in particolare, hanno utilizzato i dati del grande studio POUNDS LOST per valutare se varie diete dimagranti potessero modificare l'effetto della variante FTO sulla perdita del peso e i cambiamenti a lungo termine nella composizione corporea e della distribuzione del grasso. Hanno, così, genotipizzato 742 adulti obesi, assegnati in modo casuale a una delle quattro diete diverse nelle proporzioni di grassi, proteine e carboidrati, per il Rs1558902 FTO. Hanno, quindi, misurato con l’assorbimetria dual-energy x - ray e la tomografia computerizzata la composizione corporea e la distribuzione del grasso.
Hanno riscontrato che gli effetti delle modifiche significative d’intervento variavano (per tutte le interazioni: P < 0.05):
- sui cambiamenti dei due anni in massa magra con le proteine della dieta,
- sulla percentuale totale del corpo intero di massa grassa,
- sulla massa totale del tessuto adiposo,
- sulla massa viscerale e superficiale del tessuto adiposo.
In risposta ad una dieta ricca di proteine, i portatori dell'allele di rischio avevano una maggiore riduzione del peso, della distribuzione della composizione corporea e del grasso.
Un effetto genetico opposto, invece, si osservava in risposta a una dieta ipoproteica nelle variazioni della distribuzione del grasso. Allo stesso modo, si osservavano a sei mesi significativi modelli d’interazione.
In conclusione, gli Autori affermavano che i loro risultati suggerivano che negli individui con l'allele di rischio della rs1558902 variante FTO una dieta ricca di proteine poteva essere utile per la perdita del peso, per il miglioramento della composizione corporea e della distribuzione del grasso.
Dal loro canto, Lise Dubois dell’University of Ottawa, Canada e collaboratori hanno valutato il contributo dei fattori genetici e ambientali alle variazioni selettive comportamentali del consumo alimentare nell’infanzia precoce e tardiva (International Journal of Behavioral Nutrition and Physical Activity 2013, 10:134). Gli Autori hanno tratto spunto del loro lavoro proprio in considerazione che i comportamenti alimentari dell'infanzia erano legati sia alla qualità della dieta e sia allo stato del loro peso. Una migliore comprensione delle loro determinanti avrebbe potuto, in effetti, favorire un migliore svolgimento degli interventi dietetici efficaci. Gli Autori, hanno, così, ottenuto, quando i gemelli avevano 2,5 e 9 anni, le informazioni sui comportamenti alimentari con questionari somministrati ai genitori dei 692 bambini che partecipavano al Quebec Newborn Twin Study. Ottenevano e analizzavano le variabili dicotomiche, utilizzando modelli di equazioni strutturali, come parte di un disegno classico di studio sui gemelli. Si eseguivano analisi longitudinali univariate e bivariate per quantificare le fonti di variazione e covariazione attraverso le età per alcuni tratti del comportamento alimentare.
Si riscontrava un’ereditabilità, da moderata a forte, per i tratti relativi all’appetito, come il mangiar troppo, non abbastanza e troppo in fretta. Le stime di analisi univariata variavano da 0,71 (IC 95%: 0.49 - 0.87) a 0.89 (0.75 - 0.96) nei bambini più piccoli e da 0,44 (0,18 - 0,66) a 0,56 (0,28 - 0,78) in quelli più grandi. Le analisi bivariate longitudinali indicavano correlazioni genetiche attraverso le età, da modeste a moderate (rA variabile da 34 a 58). Tra i 2,5 e i nove anni le influenze comuni genetiche spiegavano dal 17 al 43% la correlazione fenotipica per i comportamenti relativi all’appetito. Nei bambini di nove anni i tratti di accettazione alimentare, come il rifiuto del cibo e di essere esigente, avevano stime di ereditabilità alte, corrispondenti allo 0.84 (0.63 - 0.94) e allo 0.85 (0.59 - 0.96) rispettivamente. In quelli più piccoli, invece, l'ambiente condiviso, ossia in comune, contribuiva maggiormente alla varianza fenotipica. Le variazioni dei comportamenti correlati ai modelli del pasto, in gran parte, si spiegavano con le influenze ambientali condivise.
In conclusione, durante l'infanzia le predisposizioni genetiche spiegavano gran parte delle variazioni dei caratteri relativi all’appetito. Man mano che i bambini crescevano, però, i loro comportamenti diventavano più sensibili alle influenze ambientali esterne alla casa. Eppure, per alcuni tratti le influenze ambientali condivise dai gemelli sembravano avere la più grande importanza relativa. Questa scoperta supportava il notevole potenziale del contesto familiare nello sviluppo delle sane abitudini alimentari durante l'infanzia.
Dieta, esercizio e loro correlati psicosociali nella gestione del peso corporeo
Anche se la prescrizione universale per ridurre il sovrappeso e combattere l’obesità resta quella di sostituire le diete ad alto contenuto di calorie e di grassi con un'alimentazione più sana e con l’aumento delle spese energetiche con l’esercizio, non si segnalano ancora soddisfacenti risultati nei meriti. In genere, agli individui vengono fornite informazioni sulle opportune pratiche alimentari e sulla necessità di rompere la sedentarietà, ma mancano spesso solide basi teoriche per il cambiamento comportamentale. Eventuali miglioramenti, comunque se avvengono, sono in gran parte transitori. Sebbene l'uso dei metodi cognitivo-comportamentali abbia mostrato risultati leggermente migliori sulle modifiche dello stile di vita, è ancora rara l’evidenza che possa produrre la perdita di peso anche dal 5 al 10% del peso corporeo iniziale. Ancora più difficile, peraltro, è il riscontro del mantenimento dei risultati oltre il breve termine. Tali conclusioni portano a suggerire la scarsa motivazione nell’aderire alle raccomandazioni delle linee guida con i 150 minuti di moderata intensità di esercizio o di attività fisica a settimana. Risulterebbe, infatti, che circa il 40% degli europei non ha interesse a essere fisicamente attivo, prediligendo di dedicarsi nel tempo libero ad altri impegni.
Due ordini di fattori, in verità, motivano questa mancanza di motivazione. Innanzitutto, le persone possono non essere sufficientemente interessate all’esercizio, oppure non sono portate a valutarne i risultati, tanto da farne una priorità nella loro vita. Molti, in effetti, sono sobbarcati da tante richieste competitive sul loro tempo, riguardanti l’istruzione, la carriera e gli obblighi familiari, a scapito del tempo e delle risorse che dovrebbero investire nell’attività fisica regolare.
In secondo luogo, alcune persone possono sentirsi non sufficientemente capaci di intraprendere una qualsiasi attività fisica. Si sentono, insomma, non abbastanza in forma fisicamente, o abbastanza esperti, oppure possono avere barriere e limitazioni legate al loro stato di salute. In ogni modo, sia si tratti di scarso interesse, sia di bassa competenza percepita, i dati di partecipazione indicano che molte persone sono demotivate o amotivate, non avendo intenzione di essere più attivi fisicamente. Oppure sono insufficientemente motivate a fronte di altri interessi o richieste contemporanee. Pur tuttavia, oltre a coloro che sono demotivati, un'altra condizione di persistenza breve all’esercizio si realizza in quelle persone che esprimono la motivazione personale di esercitarlo inizialmente regolarmente, ma poi lo interrompono nel percorso. In particolare, una percentuale significativa di persone ha la motivazione di partecipare all’attività come per un obbligo, piuttosto che per propria volontà. In effetti, forme controllate di motivazione, non autonome perché mancano di volizione, sono predominanti quando l'attività è percepita principalmente come un mezzo per un fine. Esse sono tipicamente associate con motivi o obiettivi, come quelli di migliorare l'aspetto o la ricezione di una ricompensa tangibile. Una possibile ipotesi è, quindi, che la stabilità della propria motivazione sia almeno parzialmente dipendente da qualche sua caratteristica qualitativa, in particolare il grado di un’autonomia percepita o di un locus interno di causalità percepita. Cioè, il livello di autocritica riflessiva e la volontà associata a un comportamento, o una classe di comportamenti dovrebbero associarsi a una maggiore persistenza dell’esercizio. Un approccio utilitaristico a esso e alla sua motivazione, come la presenza in palestra o in altri club sportivi in cui l’esercizio è prescritto esternamente, potrebbe, peraltro, essere parzialmente responsabile dell'elevato tasso di abbandono. In realtà, la pervasività delle pressioni sociali e mediche verso la perdita di peso, in combinazione con i metodi prescritti all'esterno, può, invero, essere poco adatta a promuovere l’aumento costante dei livelli di attività fisica nella popolazione. In somma, un gran numero d’individui è sia demotivato, sia non sufficientemente motivato a essere fisicamente attivo. Oppure è motivato da condizioni esterne che non possono determinare un’azione prolungata. Questo sottolinea la necessità di guardare più da vicino gli obiettivi e le caratteristiche dell’autoregolamentazione associate alla partecipazione regolare all’esercizio e all'attività fisica. La SDT (Self-determination theory) si pone in una posizione unica tra le teorie di motivazioni umane nell’esame degli effetti dei tipi differenziali qualitativamente diversi delle motivazioni che possono essere alla base dei comportamenti. Originatasi da una prospettiva umanista, e, quindi, fondamentalmente centrata sulla realizzazione dei bisogni, dell’auto-realizzazione e della concretizzazione del potenziale umano, la SDT è una completa macro - teoria della personalità umana e del comportamento motivato in continua evoluzione. La SDT distingue i tipi di motivazione in intrinseci ed estrinseci, regolamentati dal proprio comportamento.
Gli intrinseci sono definiti dalle proprie soddisfazioni che causano l’attività. La persona motivata intrinsecamente sperimenta le sensazioni di godimento, l'esercizio delle proprie competenze, la realizzazione personale e l'eccitazione emotiva. Per diversi gradi lo sport ricreativo e l’esercizio fisico possono certamente essere eseguiti per divertimento o per la sfida di partecipare a un'attività.
Al contrario, la motivazione estrinseca si riferisce a un'attività stimolata da ragioni strumentali, o per ottenere qualche risultato al di fuori delle proprie intrinseche attitudini. Per esempio, ciò si realizza in tutte le condizioni estrinsecamente motivate, quando una persona svolge un'attività al fine di una ricompensa tangibile o sociale o per evitare la disapprovazione.
La SDT, tuttavia, concettualizza qualitativamente i diversi tipi di motivazione estrinseca che si differenziano nei termini della relativa autonomia. Alcune motivazioni estrinseche sono relativamente eteronome, rappresentando ciò che nella SDT sono descritte come forme di motivazione controllate. Ad esempio, i comportamenti regolati esternamente sono quelli eseguiti per conformarsi alle contingenze esterne di ricompensa e di punizione. Anche controllate sono le motivazioni estrinseche basate sui regolamenti introiettati, in cui il comportamento è guidato dall’auto approvazione. Nell’ambito della SDT è previsto che le forme controllate di motivazione estrinseca possano regolamentare o motivare, per il breve ma non per il lungo termine, il comportamento. Eppure non tutte le motivazioni estrinseche sono controllate. In effetti, nel caso di una persona che svolge un’attività, non perché è divertente di per sé o soddisfacente per motivazione intrinseca ma piuttosto perché ha un valore e un'utilità personale, si può configurare una forma più autonoma di regolamentazione comportamentale. In particolare, nella SDT le forme individuate e integrate di regolamentazione comportamentale sono definite come quelle in cui le proprie azioni sono approvate autonomamente e, quindi, valutate personalmente.
Inoltre, la SDT introduce il concetto dei bisogni di base psicologica come centrali per comprendere sia le soddisfazioni sia i supporti necessari per l'alta qualità delle forme autonome di motivazione. In particolare, la SDT sostiene che ci sono bisogni psicologici di base per l'autonomia, la competenza e la connessione, tutte concepite come nutrimenti essenziali e universali per la salute psicologica e lo sviluppo della motivazione interna. Peraltro, la soddisfazione di questi bisogni di base risulta in un maggior senso di vitalità e di benessere. D’altro canto, l’impegno nello sport e nell'esercizio fisico, come in ogni altra attività, può essere più o meno favorevole per la realizzazione dei propri bisogni psicologici. Per esempio, le esperienze di competenza variano in caso di successo o di fallimento ai compiti fisici impegnativi o in funzione delle risposte nel caso di un professionista del fitness. Le percezioni di connessione personale con altri, ad esempio con un collega o con membri di una classe di fitness o di programma di perdita di peso, possono variare notevolmente in funzione del contesto interpersonale. I sentimenti di autonomia, rispetto al sentirsi controllato, differiscono in funzione degli stili di comunicazione nelle impostazioni dell’esercizio. Secondo la SDT, infatti, il necessario compimento in ogni contesto è strettamente associato con le caratteristiche di quell’ambiente sociale. Ovverossia, se altre importanti persone supportano le esigenze di autonomia, come l’assumere la prospettiva del cliente / paziente, il sostenere le proprie scelte, riducono al minimo la pressione. Così pure, avviene se le stesse supportano la relazionalità, come il creare un empatico e positivo ambiente, il mostrare un riguardo incondizionato, o ancora se sostengono una competenza come il limitare le risposte negative, il fornire in modo ottimale compiti impegnativi. Il concetto di necessità di sostegno spiega, così in gran parte, le differenze individuali nello sviluppo e nella promulgazione delle motivazioni di tutta la vita. Di conseguenza, la progettazione degli interventi di modifica del comportamento di salute, che aumentano i bisogni di base della soddisfazione dei partecipanti, rappresenta una questione di grande interesse per gli studi in ambito della SDT, compresa l’area dell’esercizio e dell'attività fisica.
Infine, la SDT propone anche che le persone abbiano tendenze disposizionali, denominate orientamenti di causalità. Esse descrivono il modo con cui preferenzialmente ci si orienta nell’ambiente con i conseguenti caratteristici modelli motivazionali e comportamentali. Sebbene alcuni possano essere più inclini a cercare e seguire le loro indicazioni interne di preferenza nella scelta del corso dell'azione, altri possono tendere ad allinearsi più naturalmente con le direttive e le norme esterne. Altri ancora, invece, possono rivelare di essere generalmente amotivati, più passivi e non rispondere agli eventi interni o esterni che potrebbero energizzare le loro azioni. Anche se quest’argomento non è stato esplorato a lungo nelle ricerche, questi orientamenti possono manifestarsi ed essere misurati nell’esercizio e nel contesto dell’attività fisica. In proposito, è stata sviluppata l’exercise causality orientation scale per misurare le differenze individuali nell’orientamento nei riguardi dell’esercizio.
Alcuni Autori suggeriscono, a tale proposito, che qualsiasi approccio comportamentale possa essere efficace, concentrandosi sulla prevenzione. L'esercizio fisico, in vero, è il più robusto predittivo del mantenimento della perdita di peso. Tuttavia, gli individui obesi e sedentari possono completare solo volumi minimi di sforzo fisico e l'adesione ai programmi è in genere bassa. Un intervento cognitivo - comportamentale può essere efficace perché migliora in parte lo stile di vita, come ad esempio l’indurre all'assunzione giornaliera di frutta e verdura, che a sua volta può contribuire a promuovere un aumento del volume dell’allenamento settimanale. D’altro canto, il maggiore esercizio fisico potrebbe portare ai migliori comportamenti alimentari. Pur tuttavia, la determinazione del fondamento psicologico di tali rapporti potrebbe informare in modo sostanziale la teoria sulla perdita di peso e sullo sviluppo del trattamento. Ad esempio, un aumento del volume dell’esercizio può indurre una migliore alimentazione perché migliora l'umore, mentre contemporaneamente una dieta salutare potrebbe avere proprietà di miglioramento dell’umore. Queste proposte sono coerenti, sia con la teoria sociale cognitiva e sia con la teoria dell’auto-efficacia. L’auto-efficacia e l'autoregolamentazione, come mezzi interni per controllare o modificare i propri comportamenti, potrebbero, peraltro, essere altre variabili adeguate del compenso psicosociale.
Inoltre, una maggiore comprensione di tali rapporti potrebbe essere facilitata attraverso l'analisi degli effetti di reciprocità, che è un'estensione dell'analisi della mediazione tradizionale. Più in particolare, tali analisi potrebbero aiutare a stabilire se i cambiamenti nelle variabili psicosociali, come l'auto- efficacia, l'umore e l'autoregolamentazione, abbiano rapporti reciproci con l’esercizio fisico e i cambiamenti nel mangiare. In effetti, il miglioramento dell’auto-efficacia potrebbe essere coerente con il maggiore esercizio fisico, mentre quest’ultimo potrebbe produrre la maggiore auto-efficacia.
In conformità a quanto riportato, Pedro J Teixeira della Technical University of Lisbon – Portugal e collaboratori hanno compiuto una revisione completa e sistematica dei dati empirici della letteratura sulle relazioni tra i costrutti fondamentali della SDT e l'esercizio fisico e i risultati comportamentali dell’attività fisica (Journal of Behavioral Nutrition and Physical Activity 2012, 9:78).
La motivazione è un fattore critico nel sostegno dell’esercizio duraturo, a sua volta associato a importanti risultati di salute. Di conseguenza, gli Autori, sostenendo la ricerca sulla motivazione dell’esercizio nella prospettiva dell’autodeterminazione, hanno ribadito la notevole crescita d’interesse degli ultimi anni della teoria SDT. Si includevano, quindi, nel lavoro sessantasei studi empirici pubblicati fino al giugno 2011. In tutti gli studi l'esercizio effettivo o auto-riferito, comprese le presenze, era stato analizzato come variabile dipendente. I risultati, riassunti sulla base dell’analisi quantitativa delle prove, mostravano un sostegno costante per una relazione positiva tra le forme più autonome di motivazione e l'esercizio. In effetti, una regolamentazione che predicesse l'adozione dell’esercizio iniziale / a breve termine mostrava un trend più forte della motivazione intrinseca. Quest’ultima, invece, era più predittiva dell’adesione all’esercizio a lungo termine. La letteratura era anche coerente sul dato che la soddisfazione della competenza e le motivazioni più intrinseche annunciavano positivamente la partecipazione all’esercizio in tutta una serie di campioni e d’impostazioni. Inoltre, erano presenti evidenze differenziate nei riguardi del ruolo degli altri tipi di motivazioni, come la salute / il fitness, e quelle legate al corpo, ma anche alla natura specifica e alle conseguenze della regolamentazione introiettata. La maggior parte degli studi impiegava progetti descrittivi, e, quindi, non sperimentali. I risultati, però, erano simili agli studi osservazionali trasversali, prospettici e sperimentali.
In conclusione, la letteratura forniva nel complesso una buona evidenza per il valore della TDS a comprendere il comportamento verso l’esercizio. Dimostrava, infatti, l'importanza dei regolamenti autonomi, individuati e intrinseci nel promuovere l'attività fisica. Tuttavia, secondo gli Autori, permanevano alcune incongruenze e le evidenze, per quanto riguardava le relazioni tra gli specifici costrutti della SDT e l’esercizio fisico, non erano tutte univoche. Gli Autori riportavano anche particolari limitazioni concernenti le varie associazioni esplorate in letteratura al fine di migliorare l'applicazione della SDT alla promozione dell’esercizio e dell'attività fisica.
Dal loro canto, James J Annesi e Kandice J Porter della Kennesaw State University, USA hanno condotto una ricerca sui due trattamenti comportamentali per la perdita del peso che si concentravano sul sostegno dell’esercizio fisico e della sana alimentazione (International Journal of Behavioral Nutrition and Physical Activity 2013, 10:133).
Il primo, in effetti, enfatizzava i metodi di autoregolamentazione per il controllo del mangiare.
Il secondo sottolineava l'educazione alimentare.
Gli Autori sceglievano un'impostazione che incorporasse gli adulti gravemente obesi, perché i risultati potessero essere particolarmente applicabili a questo gruppo che sperimentava i notevoli rischi per la salute. Per quanto riguardava i risultati correlati al trattamento, si prevedeva che:
a) il volume dell’esercizio fisico, l’assunzione della frutta e verdura, l’umore e l'esercizio fisico e l’auto-efficacia e l'autoregolamentazione, connessi al mangiare, potessero nelle ventisei settimane dello studio migliorare significativamente,
b) l’autoregolamentazione sul mangiare e sull’assunzione della frutta e verdura potesse essere significativamente maggiore nel gruppo, sottolineandone i metodi.
Per quanto riguardava i rapporti all'interno delle variabili, s’ipotizzavano i seguenti effetti reciproci:
a) i cambiamenti associati al trattamento dell’assunzione della frutta e verdura fossero mediati e potessero essere mediati da quelli riguardanti il volume dell’esercizio fisico,
b) i cambiamenti dell’umore, dell’auto-efficacia per il consumo controllato e dell’autoregolamentazione per il consumo potessero mediare ed essere mediati dal cambiamento nella frutta e verdura con il cambiamento nell’esercizio come predittivo variabile,
c) i cambiamenti dell’umore, dell'auto-efficacia dell’esercizio e della sua autoregolamentazione potessero entrambi mediare ed essere mediati dal cambiamento del volume dell’esercizio, con frutta e verdura come predittivi.
Gli Autori si attendevano, così, che i risultati potessero portare a una migliore comprensione del rapporto tra il maggiore esercizio fisico e una migliore alimentazione. Inoltre, come teoria basata sulle variabili psicosociali che influenzavano questo rapporto, si potesse, infine, mirare a migliorare i trattamenti della perdita di peso.
In definitiva, una migliore comprensione delle interrelazioni tra il miglioramento dell’esercizio fisico e della dieta, insieme alle loro correlate psicosociali di auto-efficacia, umore e autoregolamentazione, sarebbero potute essere utili per l'architettura dei migliori trattamenti della perdita di peso.
Gli studiosi arruolavano, così, volontari adulti con grave obesità e indice di massa corporea [BMI] di 35-50 kg/m2, di età di 43,0 ± 9,5 anni, nello 83% donne, assegnandoli in modo casuale a sei sessioni mensili di sostegno cognitivo-comportamentale per l’esercizio fisico in coppia sia con un gruppo di educazione cognitivo comportamentale alimentare (n = 145) o di un miglioramento dell’alimentazione (n = 149). Dopo la specificazione dei modelli di mediazione, utilizzando una procedura corretta da bias di bootstrapping, si valutava l’analisi di una serie di effetti reciproci:
a) gli effetti reciproci delle variazioni dell’esercizio e dell’assunzione di frutta e verdura, derivanti dai trattamenti,
b) gli effetti reciproci delle variazioni delle tre variabili psicosociali testate, cioè l’auto-efficacia, l'umore, l’autoregolamentazione a cambiare frutta e verdura, derivanti dalla variazione del volume dell’esercizio fisico,
c) gli effetti reciproci delle variazioni delle tre variabili psicosociali e il cambiamento dell’esercizio, derivanti dal cambiamento nella frutta e verdura.
L’analisi di mediazione suggeriva un effetto reciproco tra le variazioni di volume dell’esercizio e della frutta e verdura. Dopo l'iscrizione delle variabili psicosociali si riscontravano anche gli effetti reciproci tra il cambiamento nel consumo di frutta e verdura e quello dell’umore, dell’auto-efficacia per il controllo alimentare e dell’autoregolamentazione per il mangiare e il cambiamento del volume dell’esercizio e il cambiamento dell’umore e dell’esercizio, relativi all’autoregolamentazione.
In conclusione, i risultati avevano implicazioni per la teoria comportamentale della perdita di peso e del trattamento. In particolare, essi suggerivano che i trattamenti si sarebbero dovuti concentrare e far leva sugli effetti di trasferimento da ciascuno all'altro dei comportamenti di perdita di peso primari (esercizio fisico e mangiare sano). I risultati sulle correlazioni psicosociali di questi processi comportamentali avrebbero potuto anche avere applicazioni pratiche.
Immagine del corpo e autogestione del peso corporeo
È sempre bene ribadire che migliorare l'efficacia degli interventi per la perdita del peso rimane una sfida cruciale negli eccessi di adiposità. Così pure, ottenere l'aderenza alle opportune modifiche dello stile di vita per il benessere risulta un compito arduo e spesso con risultati inconcludenti. Peraltro, poiché l'obesità è il prodotto dello squilibrio energetico e, quindi, altamente dipendente dall’apporto delle calorie alimentari bilanciato alle spese, non è sorprendente che la gestione di un peso sano comporti di solito una regolazione di successo nel comportamento alimentare. Diversi studi indicano che i comportamenti alimentari, come quelli caratterizzati dall'elevato contenimento flessibile, dalla forte auto-efficacia, dalla ridotta disinibizione ed emotività e dal basso senso della fame, permettono di prevedere i risultati più positivi. Allo stesso tempo, bisogna rilevare che i problemi d’immagine del corpo sono prevalenti nelle persone obese e in sovrappeso e colpiscono, soprattutto, chi è alla ricerca di un trattamento e di un risultato.
A tale proposito, è bene chiarire che, pur in assenza di un’univocità sul significato d’immagine corporea negativa, essa è solitamente equiparata al concetto d’insoddisfazione corporea. Si tende, in tal modo, riferirsi alla percentuale di persone insoddisfatte di determinate proprie caratteristiche fisiche, come il peso, la linea corporea, i lineamenti del viso, la distribuzione del grasso. La frustrazione che ne consegue a una negativa immagine corporea in questo senso, non significa necessariamente essere amareggiati per l’intero aspetto di sé, ma anche per un singolo difetto che venga a disturbare l’apparenza fisica globale. Si produce, insomma, un persistente stato di disagio per la propria figura fisica che porta a problemi con alterazione delle relazioni sociali, dell’attività e della produttività. Essi, invero, possono minare il processo di gestione delle cure e il loro successo, portando a prevedere risultati più limitati e aumentando le probabilità delle recidive. Peraltro, vi è ormai un relativo grande corpo di evidenze che indica come ci siano associazioni tra una vasta gamma dei disturbi dell'immagine del corpo e i comportamenti e gli atteggiamenti alimentari problematici. Ne deriva che il miglioramento del proprio aspetto dovrebbe costituire un potenziale meccanismo nella regolazione di successo del comportamento alimentare e, quindi, nel trattamento dell’obesità. D'altra parte, non solo le esperienze dell’immagine corporea lasciano prevedere la gravità delle abitudini alimentari problematiche, ma le indagini di tecnica di modellamento (modelling) longitudinali e strutturali della terapia cognitivo-comportamentale, che permettono di apprendere gradualmente un determinato comportamento mediante l'osservazione e l'imitazione di quello di un altro individuo, indicano anche che una scarsa immagine corporea possa anticipare, tra le altre strategie di controllo del peso non sano, l’adozione dei comportamenti alimentari disfunzionali.
A tale proposito Neumark-Sztainer D dell’University of Minnesota, Minneapolis-USA e collaboratori hanno affrontato la questione dell’indifferente soddisfazione del corpo, esaminando negli adolescenti le associazioni longitudinali in cinque anni tra questo dato e i comportamenti concernenti il peso corporeo (J Adolesc Health. 2006 Aug;39(2):244-51). A tal proposito, il progetto EAT - II ha seguito un campione etnicamente e socioeconomicamente diversificato di 2.516 adolescenti tra il 1999 (tempo 1) e il 2004 (tempo 2). Le associazioni tra la soddisfazione del corpo al tempo 1 e i comportamenti di salute al tempo 2 erano esaminate con aggiustamento per le caratteristiche socio-demografiche. Al tempo 1 i comportamenti di salute erano esaminati con e senza l’aggiustamento per l’indice di massa corporea (BMI).
Nelle femmine le più basse soddisfazioni del corpo predicevano i livelli più elevati della dieta, i comportamenti non salutari di controllo del peso, l’alimentazione incontrollata (Binge Eating Disorder), i bassi livelli di attività fisica e di assunzione di frutta e verdura. Dopo aggiustamento per la BMI, l’associazione tra la soddisfazione corporea con la dieta, i comportamenti di controllo del peso molto malsano e l'attività fisica rimaneva statisticamente significativa.
D’altra parte, nei maschi le più basse soddisfazioni del corpo predicevano i livelli più elevati di dieta, i comportamenti di controllo del peso sano, malsano e molto malsano, il binge eating, il fumo e i livelli più bassi di attività fisica. Dopo aggiustamento per la BMI, le associazioni tra la soddisfazione corporea con la dieta, il comportamento di controllo del peso sano e il binge eating rimanevano statisticamente significative.
In conclusione, i risultati dello studio indicavano che, in generale, la più bassa soddisfazione del corpo non serviva come motivazione per impegnarsi in comportamenti di gestione del peso sano, ma piuttosto prediceva il concretarsi di comportamenti che avrebbero potuto mettere gli adolescenti a rischio di un aumento del peso e di maggiore precarietà della salute. Gli interventi sugli adolescenti si sarebbero dovuti indirizzare, quindi, verso un miglioramento della soddisfazione del proprio corpo, evitando messaggi a possibile azione contraria.
In definitiva, l’insoddisfazione del binomio peso / corpo avrebbero potuto motivare comportamenti estremi e malsani nei riguardi del peso corporeo con consequenziale aumento del rischio di promuovere abbuffate e altri disturbi comportamentali alimentari. Questi presupposti convincevano gli studiosi a concludere che l’immagine del corpo è uno dei fattori di rischio più potenti per il disagio psicologico che condiziona spesso i disturbi alimentari.
In verità, l’immagine corporea comprende due dimensioni attitudinali:
- La body-image evaluation riferentesi alle valutazioni cognitive e alle emozioni associate circa il proprio aspetto. Essa comprende le discrepanze dal proprio ideale e le valutazioni di soddisfazione e insoddisfazione sul corpo.
- La body-image investment che si riferisce all'importanza cognitivo-comportamentale dell’apparizione nella propria vita personale e la sua rilevanza per il senso di sé. Questa dimensione riflette un investimento disfunzionale, caratterizzato in apparenza da un’eccessiva preoccupazione e dallo sforzo dedicato alla gestione dell’aspetto, in contrapposizione a una più adattiva valorizzazione e gestione di esso.
Su tali presupposti, Morrison TG dell’University of Saskatchewan, Canada e collaboratori, usando la teoria socioculturale e quella del confronto sociale, hanno analizzato le variazioni della body-image evaluation e del body-image investment tra 1543 adolescenti maschi e femmine (Adolescence. 2004 Fall;39(155):571-92). Hanno, così, misurato l'esposizione a riviste e programmi televisivi contenenti le immagini ideali del corpo, come pure la frequenza di autoconfronto agli obiettivi universalistici, quali i modelli proposti dalla moda.
I risultati fornivano un supporto minimo alla teoria socioculturale, ma abbastanza forte sostegno a quella del confronto sociale. In particolare, la misura con cui i maschi s’impegnavano nel confronto universalistico sociale prediceva l’autostima del proprio aspetto, una serie di diete per aumentare di peso, l'uso di pratiche errate per il controllo del peso e l'uso di steroidi per aumentare la massa muscolare.
Per le femmine, il confronto universalistico sociale prediceva, invece, l’autostima del proprio aspetto, l’insoddisfazione corporea, il numero di diete per perdere peso e l'utilizzo di pratiche scorrette di controllo del peso.
Pur tuttavia, questa struttura attitudinale dell'immagine del corpo, sebbene la sua previsione ottimale cattiva/ negativa richieda sia la dimensione della body-image evaluation e sia gli aspetti del body-image investment, è stata empiricamente supportata. Allo stesso modo, entrambe le componenti d’immagine del corpo sono state riscontrate nella previsione del disturbo alimentare, anche se il body-image investment presentasse in alcuni casi un maggiore potere predittivo, superando gli effetti della body-image evaluation.
Pur tuttavia, il miglioramento dell’immagine disfunzionale del corpo è spesso necessario per trattare efficacemente e migliorare i comportamenti alimentari alterati. Peraltro, il trattamento dell'obesità sembra essere efficace nel migliorare l'immagine del corpo, anche con perdite modeste di peso.
La tematica delle rappresentazioni corporee, da qualche tempo campo di ricerca di grande interesse scientifico, è divenuta ulteriormente rilevante in seguito agli studi epistemologici sul rapporto mente-corpo e alla riscoperta del valore della corporeità nella cultura contemporanea. La prima descrizione di fine secolo scorso del fenomeno dell’arto fantasma, per cui il paziente provava dolore e sensazioni in corrispondenza dell’arto originariamente amputato, attrasse l’attenzione degli studiosi sulle rappresentazioni corporee. Di poi, il corpo, come rappresentazione virtuale, ha cominciato a essere sempre più oggetto di studio da parte di discipline molto diverse fra loro. La diffusione dei disturbi del comportamento alimentare, legati all’esperienza corporea, ha portato, peraltro gli scienziati a sistematizzare la teoria riguardante le rappresentazioni corporee, includendo nei due concetti di seguito riprodotti tutte le rappresentazioni percettivo-affettivo-cognitive del corpo umano:
- lo schema corporeo, che include le rappresentazioni percettive, ossia quelle spaziali del proprio corpo che la persona ricava a partire dalle informazioni provenienti dagli organi di senso,
- l’immagine corporea, che, invece, comprende le rappresentazioni di tipo affettivo-cognitivo, intendendo con ciò il modo in cui si sperimenta e si considera il proprio corpo.
Di certo, il mondo emotivo interno, le relazioni con le figure significative del mondo esterno e la propria storia personale sono strettamente collegati con l’immagine corporea. Peraltro, il suo nucleo centrale sarebbe composto di elementi cognitivi e affettivi in interazione tra loro. In effetti, le componenti cognitive, che comprendono le idee sulle dimensioni e sull’aspetto del corpo, condizionano gli elementi affettivi che nella vita quotidiana e nelle relazioni sociali, in base agli effetti dell’aspetto fisico, intervengono a loro volta sugli elementi cognitivi. L’analisi di questo tipo di rappresentazione costituisce, quindi, un problema non neurologico ma psicologico, come struttura non fissa e immutabile, ma che si sviluppa e si modifica costantemente nel corso della vita. Implica, peraltro, lo studio della condizione emotiva, della sua memoria e dei suoi propositi d’azione.
Peraltro, degno di nota è che il concetto di esperienza corporea viene affrontato sotto un’angolazione piuttosto diversa dalla scuola psicoanalitica per l’abbandono del concetto di schema corporeo. In questa proposizione l’immagine corporea viene determinata inizialmente dall’energia libidica e poi attraverso la relazione oggettuale. Essa, in questo modo, non è più collegata a una specifica struttura cerebrale come volevano le precedenti teorie.
Sulla scia di tali nozioni Eliana V Carraça della Technical University of Lisbon, Portugal e collaboratori hanno voluto esaminare nel trattamento dell'obesità gli effetti di un modello di miglioramento dell'immagine del corpo sull’autoregolamentazione del mangiare (International Journal of Behavioral Nutrition and Physical Activity 2011 8:75). Inoltre, hanno inteso esplorare il ruolo dei diversi componenti dell’immagine corporea nel corso dello studio. Gli Autori hanno, così, arruolato 239 donne in sovrappeso di età di 37.6 ± 7.1 anni, con BMI di 31.5 ± 4.1 kg/m2. Le partecipanti erano impegnate in un programma comportamentale di gestione del peso di dodici mesi che includeva un modulo dell’immagine del corpo. Si utilizzavano misure di autoriferimento per l’analisi valutativa e d’investimento dell'immagine del corpo e il comportamento alimentare. Le misurazioni erano ottenute al basale e a dodici mesi.
Il trattamento migliorava significativamente ambedue le componenti dell’immagine del corpo, in particolare, facendo diminuire la componente della body-image investment (f2 = 0,32 vs f2 = .22). Il comportamento alimentare era previsto positivamente dai cambiamenti del body-image investment (p <.001) e in misura minore della body-image evaluation (p <.05). Il trattamento aveva anche effetti significativi nei dodici mesi di cambiamento del comportamento alimentare, interamente mediati dal body-image investment e parzialmente dalla body-image evaluation (effetto rapporti: 0,68 e 0,22 rispettivamente).
In conclusione, i risultati suggerivano che migliorando l'immagine del corpo, in particolare riducendo la sua rilevanza nella vita personale, si sarebbe potuto svolgere durante il controllo del peso un ruolo di maggiore rafforzamento sull’autoregolamentazione alimentare. Di conseguenza, gli interventi futuri sulla perdita di peso avrebbero potuto ottenere migliore risultato affrontando in modo proattivo le questioni riguardanti l’immagine del corpo, come parte dei protocolli. Avrebbero potuto, infatti, svolgere un ruolo nel rafforzamento dell’autoregolamentazione del mangiare durante il controllo del peso.
Il freddo nella gestione del peso corporeo
La TNZ (thermoneutral zone) e quella TCZ (thermal comfort zone) offrono la gamma di temperatura ambiente in cui il dispendio energetico è al livello BMR (basal metabolic rate) e la dissipazione del calore dal corpo si realizza con i cambiamenti della perfusione sanguigna periferica. Al di sotto della LCT (lower critical temperature), si svolgono la NST (nonshivering termogenesi) ed eventualmente la ST (shivering thermogenesis). Al di sopra dell’UCT (upper critical temperature) si verifica l’aumento del dispendio energetico, anche in parte a causa di un aumento della frequenza cardiaca. Un aspetto importante riguarda le modalità con cui la TCZ è legata alla TNZ. Dal momento che la maggior parte delle persone del mondo occidentale vive all’interno dei fabbricati per il 90 per cento del loro tempo, viene da porsi la domanda:
“cosa cambierebbe se dovessimo controllare la temperatura del corpo per periodi più lunghi?”
Di certo, l'ambiente termico ha influenza sulla salute umana e, in particolare, la frequente esposizione per periodi prolungati al freddo tollerabile può condizionare significativamente il nostro consumo di energia. Alcuni studi nei meriti hanno concentrato l’attenzione principalmente sulle estreme temperature cui sono stati sottoposti militari, vigili del fuoco e altri professionisti. Più recentemente alcune ricerche hanno cominciato a dimostrare grandi differenze tra le persone nella loro risposta alle condizioni di freddo mite.
Marken Lichtenbelt della Maastricht University Medical Center, the Netherlands e collaboratori hanno voluto esplorare, per l’appunto, le variazioni della spesa energetica dell’organismo umano nelle condizioni di esposizione al freddo moderato (Trends in Endocrinology & Metabolism 22 January 2014).
Ritenendo, infatti, che tale condizione avesse ricevuto poca attenzione, hanno cominciato circa dieci anni fa a studiare gli effetti del freddo mite. I ricercatori sono giunti all'importante scoperta che il grasso bruno, che genera calore bruciando calorie e che coopera per l’acclimatamento al freddo, non è solo appannaggio dei bambini. Gli adulti, infatti, ne hanno anche troppo e alcuni più di altri. In effetti, a differenza del grasso bianco, quello bruno brucia le calorie, invece di immagazzinarle. Alcuni studi hanno, poi, dimostrato che il grasso bruno ha effetti benefici sulla tolleranza glicemica, sul metabolismo dei grassi e sul peso corporeo.
Gli Autori hanno ottenuto evidenze secondo le quali una temperatura più variabile interna potrebbe essere utile alla salute, anche se gli effetti a lungo termine attendono ancora ulteriori indagini. Altri gruppi di ricerca, peraltro, hanno riscontrato una diminuzione del grasso corporeo dopo permanenza di due ore il giorno per sei settimane a diciassette gradi Celsius. Il team olandese ha anche scoperto che la gente nel corso del tempo si abitua al freddo.
Dopo sei ore quotidiane al freddo per un periodo di dieci giorni, le persone del loro studio avevano aumentato il grasso bruno, si erano sentite più a loro agio e rabbrividivano a meno di quindici gradi Celsius.
Peraltro, nelle persone giovani e di mezza età la NST può rappresentare una piccola percentuale fino al 30 per cento del bilancio energetico del corpo. Ciò significa che le temperature più basse possono influenzare in modo significativo la quantità di energia che in generale una persona spende.
Di conseguenza, sulla base dei loro studi gli studiosi suggerivano di aggiungere ai programmi dietetici e di esercizio fisico anche un allenamento a trascorrere più tempo al freddo. In effetti, la temperatura interna nella maggior parte degli edifici è regolata per soddisfare la maggiore percentuale di persone. Tutto questo nei mesi invernali comporta temperature interne relativamente elevate, in particolare negli uffici, nelle abitazioni e ancor più negli ospedali e nei centri di cura. In mancanza di esposizione a una temperatura ambiente variegata, intere popolazioni possono essere inclini a sviluppare malattie, come l'obesità. Inoltre, in tal modo si tenderebbe a far sviluppare una certa vulnerabilità ai cambiamenti improvvisi della temperatura ambiente.
L’interazione tra esercizio, appetito e assunzione del cibo
Un corpo consistente di ricerche ha dimostrato che la perdita di peso raggiunta con le varie strategie di trattamento dell’obesità è difficile da mantenere, tanto che la maggior parte dei pazienti riacquista prima o poi il peso perduto. In conformità a tale premessa, nel programma terapeutico dell’eccedenza di peso viene regolarmente consigliata una qualche forma di allenamento strutturato. Tuttavia, è stato rilevato che, a causa degli adattamenti compensativi in altri aspetti del comportamento, tutto ciò potrebbe non sempre creare un saldo negativo di energia e, quindi, di perdita del peso. In effetti, l'esercizio fisico, con l'obiettivo di creare un deficit energetico sostenibile, è rivolto ad aumentare l’EE (energy expenditure) e, se le perdite di peso si dimostrano inferiori alle attese, può essere preso in considerazione il possibile errore sia del calcolo della perdita di peso prevista e sia degli adattamenti metabolici o comportamentali. In effetti, si riconosce a oggi che potrebbero verificarsi nell’EE una serie di adattamenti per compensare l'aumento indotto dall'esercizio, comprese le riduzioni del tasso metabolico a riposo e l'attività della termogenesi del non esercizio. L'opinione corrente riguarda gli adeguamenti compensativi che si possono verificare una volta che l'esercizio sia stato imposto. In effetti, si possono concretizzare eventuali risposte compensatorie biologiche e comportamentali al fine, così, di evitare il deficit energetico e mantenerlo in equilibrio. In tale ordine di fatti, potrebbero verificarsi una serie di adattamenti per compensare l'aumento indotto dall'esercizio con l’EE, comprese le riduzioni dei valori metabolici e dell'attività della termogenesi a riposo.
A tale riguardo, è bene ricordare che già più di trenta anni fa Epstein LH e Wing RR dell’University of Pittsburgh suggerivano che il bilancio energetico era sotto lo stretto controllo del principio per cui l'esercizio fisico stimolava l'appetito. In tal modo, si spiegava come le persone che mantenevano una certa attività fisica tendevano ad aumentare l’assunzione del cibo e, se obese, non perdevano tanto peso quanto atteso dai loro programmi di cura. Inoltre, chi faceva attività fisica nelle prime ore della sera poteva andare a dormire in anticipo, o richiedere più riposo nelle ore serali (Addict Behav. 1980;5:371–374).
Per loro conto, Neil Anthony King della Queensland University of Technology, Brisbane, Australia e collaboratori hanno svolto una revisione sulle variazioni compensative nell’EI (energy intake), discutendo l'evidenza su come l’esercizio la cambi e identificando i potenziali meccanismi alla base dei cambiamenti del comportamento alimentare, inclusi i fattori fisiologici, psicologici e comportamentali (Am J Lifestyle Med. 2013;7(4):265-273).
L’esercizio fisico, esercitando modifiche sulle varie componenti del controllo dell'appetito, come i nutrienti e le preferenze del gusto, le dimensioni dei pasti e la loro frequenza, l’impulso a mangiare, potrebbe influenzare indirettamente il peso corporeo. Le evidenze avrebbero dovuto dimostrare che l'esercizio fisico acuto non determinava un aumento automatico dell’assunzione del cibo, mentre quello ripetuto avrebbe dovuto produrre una risposta variabile. I dati sottolineavano, peraltro, l'importanza di caratterizzare la variabilità individuale nei meriti, dimostrando i cambiamenti sull'appetito indotti dall'esercizio fisico. Di fatto, gli individui che sperimentavano riduzioni del peso corporeo, inferiori alle teoriche previste, potevano essere caratterizzati da caratteristiche edonistiche del piacere e omeostatiche della fame.
Per una rassegna più approfondita della letteratura gli Autori, comunque, rimandavano ai lavori di Elder S e Roberts S della Tufts University, MA USA (Nutr Rev. 2007 Jan;65(1):1-19) e di C Martins della Norwegian University of Science and Technology, Trondheim – Norway (International Journal of Obesity (2008) 32, 1337–1347).
Le modificazioni compensative dell’appetito e dell’assunzione del cibo con l’esercizio fisico
In effetti, le modificazioni compensative dell’appetito e dell’assunzione del cibo, che si realizzano con l’esercizio fisico, possono spiegarsi con l’intervento di particolari fattori, secondo meccanismi oggetto di continui studi.
In tale ambito, i peptidi dell’appetito sono ormai dimostrati come mediatori dei segnali periferici, compresi quelli a breve e a lungo termine, come la leptina e l'insulina. Queste sostanze, rilasciate dal tratto gastrointestinale, svolgono un ruolo importante nel controllo dell'appetito e possono contribuire a spiegare i suoi cambiamenti con l'esercizio fisico. In particolare, i peptidi dell’appetito, mediatori dei segnali a breve termine della sazietà, sono indicati come i potenziali fattori dei meccanismi di mediazione coinvolti negli effetti che l'esercizio esercita sull’EI e successivamente sul peso corporeo.
Particolare importanza in tale ambito riveste la grelina, il peptide oressigeno secreto dallo stomaco. La sua maggiore soppressione corrisponde, infatti, a una riduzione dell’appetito. Si conviene a tale riguardo, però, che l'esercizio fisico acuto non influenzi indipendentemente i suoi livelli per modalità, intensità, o stato metabolico, sia nei magri sia nei sovrappeso / obesi adulti.
La CCK (Cholecystokinin), il PYY (polypeptide YY) e il GLP – 1 (glucagon-like peptide-1) sono anch’essi peptidi anoressizzanti, rilasciati in risposta ai nutrienti intestinali. Si è dimostrato che dai cinquanta ai sessanta minuti di bicicletta (65% FC max) si poteva indurre un aumento significativo del PYY, del GLP – 1 e del PP (pancreatic polypeptide), ma senza alcuna variazione della grelina totale. Inoltre, il GLP - 1 rimaneva elevato per tutto il periodo seguente l’esercizio, mentre l'incremento del PYY era di breve durata. Vale la pena annotare che negli studi di esercizio persistente, in caso di verifica della perdita del peso, i cambiamenti dei peptidi si potrebbero associare a quelli dei chili persi e / o della composizione corporea, piuttosto che esclusivamente all’esercizio fisico di per sé.
Pur tuttavia, le evidenze, riguardanti gli effetti dell'esercizio fisico persistente sul rilascio dei peptidi intestinali anoressigeni, sono relativamente scarse.
Per quanto riguarda lo svuotamento gastrico, bisogna considerare, come dato di convincente evidenza, che lo svuotamento gastrico influenza l’appetito e l’EI. Risulta, quindi, plausibile che l'intestino e la sua relativa attività ormonale possano anche moderare le risposte all’esercizio acuto o cronico. Man mano che il cibo riempie lo stomaco e che esso successivamente si svuota, una varietà di fattori, tra cui la distensione gastrica, la stimolazione dei nutrienti sui meccanocettori e chemorecettori intestinali e i diversi peptidi intestinali rilasciati contribuiscono al senso di appagamento, con il controllo delle dimensioni del pasto, e a quello di sazietà, con l’inibizione postprandiale del mangiare. Siccome questi due processi sono importanti per la regolazione dell'appetito, le differenze individuali nella fisiologia intestinale e nella forza di questi segnali potrebbero contribuire alla compensazione delle risposte dell'assunzione del cibo. Di conseguenza, ne può derivare la variabilità indotta dall’esercizio fisico sulla perdita del peso. Tuttavia, pur essendo importante tale dato, bisogna notare che pochi studi hanno esaminato direttamente gli effetti dell'esercizio fisico sullo svuotamento gastrico e sull'appetito.
Per altro verso, l’equilibrio dei carboidrati, con i cambiamenti indotti dall’esercizio fisico sull’ossidazione del substrato, può influenzare l'appetito e l'assunzione del cibo. In effetti, il metabolismo del substrato è stato a lungo coinvolto nel controllo energostatico dell’EI. Si è ipotizzato, a tal proposito, che la sazietà postprandiale e l’EI potessero essere mediati dal nervo vago, sensibile alle variazioni dell’ossidazione degli acidi grassi e al rapporto epatocellulare ATP / ADP. Ciò nonostante, l'esercizio aerobico altera l’utilizzazione del substrato e la sua disponibilità durante e dopo. La teoria glicogenostatica suggerisce, di fatto, che l'alimentazione a breve termine è progettata per mantenere i livelli corporei del glicogeno, memorizzati in un set point preciso. In ragione della limitata capacità di stoccaggio del glicogeno, gli incentivi della sua disponibilità, tramite la dieta o l'esercizio fisico, possono provocare variazioni compensative nell’EI, volte a ristabilire l'equilibrio dei carboidrati. Pur tuttavia, le evidenze a sostegno di un legame diretto tra il metabolismo del substrato durante l'esercizio fisico e il mangiare compensativo, a tutto oggi, sono limitate e contraddittorie.
Dopo l'esercizio fisico acuto si possono parzialmente spiegare i cambiamenti nelle preferenze dei macronutrienti e dei cibi, come risposte compensatorie all’EI. Nondimeno, i risultati sino a oggi ottenuti non sono coerenti e non dimostrano sia gli aumenti sia le diminuzioni della forza di percezione del gusto e la preferenza nominale per i gusti stessi, parzialmente connessi alle differenze di volume dell'esercizio, cioè l’aumento netto dell’EE. È interessante notare che gli effetti sono stati più frequentemente riportati per la percezione e la preferenza dei sapori del salato, del dolce, o dell’amaro.
I cambiamenti, comunque indotti dall'esercizio fisico sulla ricompensa degli alimenti, potrebbero anche essere importanti per ridurre il sovrappeso. In particolare, una spinta motivazionale maggiore o un desiderio del cibo dopo l'esercizio fisico possono aiutare a spiegare perché alcune persone richiedano una compensazione eccessiva quando sia dato loro l’accesso al cibo poco dopo l'esercizio. I dati sulle preferenze dei macronutrienti e dei prodotti alimentari, a seguito dell'esercizio, suggeriscono, peraltro, che alcuni individui appaiono voler compensare l’EE indotta dall'esercizio a seguito di variazioni fisiologicamente o psicologicamente modulate dai piaceri alimentari.
Dal loro canto i fattori psicologici devono avere un ruolo importante nelle variazioni compensative fisiologiche indotte dall’esercizio sul comportamento alimentare. Le evidenze suggeriscono come quest’ultimo, misurato in genere con il Three Factor Eating Questionnaire può influire sull'assunzione del cibo, svolgendo un ruolo importante negli interventi della perdita di peso. In particolare, sono stati identificati i fattori di disinibizione e moderazione, come caratteri importanti del comportamento alimentare. Essi, influenzando l'aumento, la perdita e il mantenimento del peso, sono stati etichettati come gli indicatori psicologici della regolazione dell'appetito. Ci sono dati che suggeriscono come gli individui con un elevato livello di disinibizione siano più suscettibili a compensare durante l'esercizio il dispendio energetico. Al contrario, negli individui sensibili al mangiare opportunistico, ossia con tendenza a mangiare smodatamente quando sono presenti nell'ambiente indicazioni alimentari esterne, l'esercizio fisico può esercitare un'influenza positiva sul controllo dell'appetito. Ad esempio, è stato dimostrato nelle donne magre con elevato tratto di disinibizione che un attacco acuto di esercizio riduceva la motivazione a mangiare e di aumentare la preferenza per gli alimenti a basso contenuto di grassi. Allo stesso modo, nelle donne magre con alta restrizione un attacco acuto di esercizio aumentava la piacevolezza percepita degli alimenti a basso contenuto di grassi e riduceva la motivazione a mangiare. In accordo con tutto ciò, i maschi magri e in sovrappeso con elevata restrizione non avevano mostrato una risposta controregolatoria al mangiare, ovverossia una risposta di eccesso di cibo avviata dalla ripartizione della restrizione cognitiva a seguito di un attacco di esercizio di moderata intensità. Pertanto, l'influenza di un attacco acuto di esercizio fisico sembra essere utile, almeno nel breve periodo, per gli uomini e per le donne che presentano un punteggio elevato di autocontrollo.
Pur tuttavia, le evidenze, derivate dagli interventi a lungo termine, dimostrano che il successo della perdita di peso si associa a una diminuzione della disinibizione e della fame con un aumento dell’autocontrollo. Indipendentemente dal tipo di perturbazione del bilancio energetico, le persone che hanno successo nel perdere peso rispondono, in genere, aumentando il loro controllo sul mangiare, per esempio con moderazione, e riducendo il loro comportamento alimentare opportunistico.
In conclusione, la resistenza a esercitare la perdita di peso indotta è in parte spiegata tra le altre risposte compensatorie dai cambiamenti nel comportamento alimentare.
Peraltro, perché l'esercizio possa essere efficace per la perdita di peso è necessario raggiungere un aumento significativo del dispendio energetico che possa controbilanciare l’assunzione di energia. L'incremento sull’EE potrebbe, però, provocare un aumento della fame con la consequenziale assunzione di calorie, invertendo, così, il bilancio energetico negativo. Inoltre, l'esercizio fisico è efficace solo se i soggetti aderiscono al programma, il che è di riscontro difficile proprio negli obesi. Eppure, gli effetti psicologici dell’esercizio, indagati fin dai primi anni del 1970, concordano sul fatto che l'attività fisica può migliorare il senso di benessere. Classicamente, però, i benefici dell'attività fisica sull'umore sono stati osservati in risposta a periodi di esercizio aerobico moderato. In effetti, questa forma di esercizio produce tipicamente una, riduzione della tensione, della depressione, della rabbia, dell’ansia e miglioramenti del vigore. D'altra parte, vi è qualche evidenza che alte dosi di esercizio si associano con l’umore negativo, il che potrebbe diminuire il senso di benessere e in parte spiegare la bassa aderenza a esso.
Mara Cristina Lofrano-Prado dell’University of Pernambuco, Recife, Brazil e collaboratori hanno voluto determinare gli effetti acuti delle diverse intensità di esercizio aerobico sull’ansia, sugli stati d'animo e sui punteggi della fame in adolescenti obesi (International Journal of Behavioral Nutrition and Physical Activity 2012, 9:38). I soggetti erano otto adolescenti maschi obesi di età 15.44 ± 2.06 anni con BMI 33,06 ± 4,78 kg/m2. Ogni soggetto era sottoposto a tre prove sperimentali di:
1) controllo, seduti per trenta minuti,
2) esercizio a bassa intensità (LIE) al 10% sotto la soglia ventilatoria (VT),
3) esercizio ad alta intensità (HIE) al 10% sopra la VT.
Erano valutati prima e subito dopo le sessioni sperimentali: l’ansia con lo STAI (Spielberger State-Trait Anxiety Inventory), l'umore con il POMS (Profile of Mood States) e la fame con il VAS (visual analogue scales).
Il maggiore aumento della fame si osservava dopo LIE (914,22%). Entrambe le sessioni di allenamento facevano registrare l’aumento dell’ansia, dell’affaticamento e la diminuzione del vigore (p <0,05).
In conclusione, negli adolescenti obesi i turni acuti di esercizio erano associati a variazioni negative dell’ansia e dell'umore con aumento della fame.
Lo studio, secondo gli Autori, suggeriva che gli adolescenti obesi, pur potendo aumentare il dispendio energetico attraverso l'esercizio ad alta intensità, tendevano a mostrare un comportamento alimentare compensativo durante il periodo post-esercizio che contrastava il bilancio energetico negativo. Tutto ciò era seguito da sentimenti negativi e da una diminuzione del senso di benessere, causa di abbandono della regolare attività fisica nei periodi successivi.
Sarah J Hardcastle dell’University of Brighton, UK e collaboratori, ribadendo la raccomandazione dell'American Heart Association di associare alla dieta e all’esercizio fisico le interviste motivazionali (MI) nell’approccio terapeutico per la perdita di peso, ne hanno voluto valutare l'efficacia in un contesto di assistenza primaria del Regno Unito (Journal of Behavioral Nutrition and Physical Activity 2013, 10:40). Si arruolavano, così, 334 pazienti che avevano completato la valutazione di base e 203 di questi erano randomizzati all'intervento di MI e 131 all’intervento minimo. Il primo gruppo riceveva l'esercizio standard e le informazioni nutrizionali fino a cinque sessioni faccia a faccia di MI, condotte in un periodo di sei mesi da uno specialista di attività fisica e da una dietista. Il secondo gruppo di controllo riceveva solo le informazioni standard. Le misure di follow-up del comportamento, come l’attività fisica vigorosa e moderata, le passeggiate, le fasi di variazione dell’attività fisica, l'assunzione di frutta, verdura e grassi, e i risultati biomedici, come peso, indice di massa corporea [BMI], pressione sanguigna, colesterolo, erano valutati immediatamente nel post- intervento e in un'occasione del follow - up di dodici mesi.
L’ analisi intent-to- treat rivelava differenze significative tra i gruppi per le passeggiate e il colesterolo. I pazienti obesi e ipercolesterolemici al basale mostravano rispettivamente miglioramenti significativi nella BMI e nel colesterolo tra quelli assegnati al gruppo d’intervento, rispetto a quelli del confronto. Pur tuttavia, i miglioramenti post - intervento negli altri esiti, riguardanti la salute tra cui la pressione arteriosa, il peso e l’indice di massa corporea non erano stati mantenuti .
In conclusione, secondo gli Autori il loro studio suggeriva che l’intervento di consulenza con una bassa intensità di MI era efficace nel determinare i cambiamenti a lungo termine in alcuni, ma non in tutti, dei risultati relativi alla salute, come le passeggiate e i livelli del colesterolo, associati a rischio cardiovascolare. D’altra parte l'intervento era particolarmente efficace per i pazienti con livelli elevati dei fattori di rischio cardiovascolare al basale.