Minore la probabilità di morte con la dieta vegetariana
Diversi studi hanno ormai dimostrato che esiste un'associazione tra i modelli dietetici e il rischio di molte malattie. Le evidenze hanno, invero, chiarito come una dieta sana che comprenda anche un consumo giornaliero di 400-500 gr di frutta e verdura il giorno, possa svolgere un ruolo importante nella prevenzione delle malattie croniche. Frutta e verdura garantiscono, in effetti, un congruo apporto di acqua, di fibre, di vitamine e di sali minerali, importanti nutrienti per una sana alimentazione. Non a caso, le linee guida più accreditate raccomandano nella giornata il consumo di almeno cinque porzioni di tali alimenti. Diversi studi prospettici hanno costantemente dimostrato che l’alto consumo di frutta e verdura riduce di circa il 10-25% la mortalità per tutte le cause, rispetto al basso. La fibra alimentare, contenuta soprattutto nei cereali, nelle radici, nei tuberi e anche nelle verdure, nella frutta e nei legumi, è stata considerata importante per questo effetto. Interessanti revisioni sistematiche hanno, in effetti, messo in luce l'impatto positivo derivato dall’assunzione di frutta e verdura per ridurre il rischio di obesità, di diabete di tipo 2, di cancro gastrico. La protezione maggiore è stata dimostrata soprattutto per la mortalità cardiovascolare, essendo quella per cancro poco evidente. In effetti, la prova diretta che i cereali, radici, tuberi possano influenzare il rischio di qualsiasi tipo di cancro rimane oggi giorno poco convincente. Tuttavia, gli alimenti che contengono fibre alimentari proteggono con buona probabilità contro il cancro del colon-retto e forse anche contro quello dell’esofago. Peraltro, gli alimenti ricchi di fibre alimentari possono permettere una protezione per un effetto indiretto. Difatti, in quanto relativamente a basso contenuto calorico, moderano il rischio dell’aumento di peso.
Pur tuttavia, vi sono stime che indicano come in tutto il mondo un numero consistente di morti l'anno possano essere attribuibili all’insufficiente apporto di frutta e verdura.
Tutti questi dati hanno consequenzialmente indotto le autorità sanitarie di alcuni paesi a sostenere raccomandazioni sul consumo di frutta e verdura nelle linee guida nutrizionali della popolazione.
Per inciso in tale contesto, non bisogna, d’altra parte, dimenticare che gli alimenti contaminati dalle aflatossine sono una causa convincente di cancro al fegato. I cereali e le arachidi sono i cibi più comunemente infestati da queste tossine fungine e il processo è più diffuso nei paesi con climi caldi e umidi e poveri di strutture organizzate di stoccaggio.
A proposito di quanto riportato, Karen Lock della London School of Hygiene and Tropical Medicine, London – England, hanno voluto stimare l’associazione del consumo di frutta e verdura con la cardiopatia ischemica, con l’ictus, con il cancro dello stomaco, con quello esofageo, del colon-retto e del polmone (Bull World Health Organ. 2005 February; 83(2): 100–108).
I dati provenienti dalle fonti sono stati stratificati per sesso, età e per area geografica. Al momento, la mortalità totale attribuibile a livello mondiale al consumo insufficiente di frutta e verdura era stimata fino a 2.635.000 morti l'anno. Aumentandone il consumo individuale fino a 600 gr il giorno si sarebbe, invece, potuto ridurre a livello mondiale l'onere complessivo di malattia dello 1,8% e quello della cardiopatia ischemica e ictus ischemico del 31% e 19% rispettivamente. Per il cancro dello stomaco, dell'esofago, del polmone e del colon-retto, le potenziali riduzioni sarebbero corrisposte rispettivamente al 19%, 20%, 12% e 2%.
Peraltro, alcuni studi avevano evidenziato come il consumo di frutta e verdura fosse legato al sesso, allo stato socio-economico, al grado d’istruzione, alla razza e all’origine etnica. In particolare, si ribadiva come il consumo congruo di frutta e verdura durante l'infanzia e l'adolescenza fosse importante non solo per la richiesta di maggiori sostanze nutritive nella particolare fase di crescita, ma anche perché costituiva un modello alimentare più facilmente accettato e passibile di continuazione nell’età adulta.
Lo Studio HBSC (Heath Behaviour in School-aged Children), attivo dal 1982 in Inghilterra, Norvegia e Finlandia, ha coinvolto sino al 2010 quarantatré nazioni nella maggior parte europee, tra cui l’Italia, USA, Canada e Israele. I giovani intervistati sono stati invitati a riferite il proprio stato sociale, di salute, di soddisfazione della propria vita e i loro comportamenti con particolare riguardo per l’attività fisica, l’alimentazione e i comportamenti a rischio, come il fumo, l’alcol, le droghe e gli atti di violenza.
Cavallo F dell’Università degli studi di Torino e collaboratori nel 2010 hanno condotto nelle regioni italiane un’indagine sugli alunni delle scuole pubbliche e parificate di undici, tredici e quindici anni nell’ambito dello studio internazionale HBSC, patrocinato dall’Organizzazione Mondiale della Sanità (rapporto sui dati 2010. Rome: National Institute of Health; 2013).
Lo studio italiano permetteva di rilevare alcune abitudini alimentari con particolare riferimento alla colazione e al consumo giornaliero di frutta e verdura, insieme alla valutazione delle misure antropometriche. Le frequenze riguardanti il consumo quotidiano di frutta risultavano basse, come pure quelle di chi aveva dichiarato di non consumarne mai.
Il consumo di verdura per almeno una volta il giorno evidenziava importanti differenze tra i due sessi. In effetti, le femmine, rispetto ai maschi, esprimevano in maggior numero l’abitudine di consumarla. Peraltro, i giovani meridionali dichiaravano minore consumo di verdure, rispetto a quelli dell’Italia centrosettentrionale.
Inoltre, tra i risultati più significativi rilevati dai circa 75.000 questionari raccolti, gli Autori segnalavano l’elevata percentuale di ragazzi in sovrappeso, soprattutto in alcune regioni dell’Italia meridionale, una frequente sensazione d’insoddisfazione rispetto al rapporto con la scuola al crescere dell’età e una forte differenza di genere, a sfavore delle ragazze, nella dichiarazione del benessere percepito e dei sintomi dichiarati.
Orlich MJ della Loma Linda University, California e collaboratori, nell’intento di valutare l'associazione tra le abitudini alimentari vegetariane e la mortalità, hanno svolto uno studio di coorte prospettico con analisi della mortalità nella grande coorte del Nord America AHS – 2 (Adventist Health Study 2) fino al 2009 (JAMA Intern Med. 2013;173(13):1230-1238). Gli Autori hanno, così, arruolato 96.469 avventisti del Settimo Giorno di ambo i sessi tra il 2002 e il 2007 con selezione di 73.308 partecipanti. La dieta era valutata al basale con un questionario di frequenza alimentare quantitativa, classificata in cinque modelli dietetici:
- non vegetariana in 35.359 soggetti (il 48,2%), a base di pesce o carne più di una volta la settimana,
- semi- vegetariana in 4.031 soggetti (il 5,5%), a base di carne una volta il mese o più, carne o pesce non più di una volta a settimana, ma con enfasi posta in particolar modo sugli alimenti organici o non trattati o rifiniti,
- pesco –vegetariana in 7.194 soggetti (il 9,8%), a base di pesce una volta il mese o più, carne meno spesso,
- latto-ovo – vegetariana in 21.177 soggetti (il 28,9%), a base di uova e latticini una volta il mese o più, carne e pesce meno spesso,
- vegana in 5.548 soggetti (il 7,6%), a base di uova, latticini, pesce e carne meno di una volta il mese.
L’outcome principale era focalizzato sulla relazione tra le abitudini alimentari vegetariane con tutte le cause di mortalità e con quelle specifiche. Nel corso di un tempo medio di follow-up di 5,79 anni si registravano tra i 73.308 partecipanti 2.570 morti.
Alcune diete vegetariane riscuotevano risultati significativi, associati a una minore mortalità per malattie cardiovascolari, cardiopatia ischemica, malattia renale e malattie endocrine, come il diabete, ma non per il cancro.
Le associazioni erano più ampie, e con maggiore probabilità di essere significative, negli uomini rispetto alle donne. Il tasso di mortalità era 6,05 (IC 95%, 5,82-6,29) morti per 1000 anni-persona. Il rapporto dell’hazard ratio (HR) per la mortalità in tutti i vegetariani combinati vs i non-vegetariani era 0.88 (95 % IC, 0,80-0,97). Rispetto ai non-vegetariani, nei vegani l'HR aggiustato per tutte le cause di mortalità era 0.85 (95 % IC, 0,73-1,01), nei latto-ovo-vegetariani 0.91 (95 % IC, 0,82-1,00), nei pesco - vegetariani 0,81 (IC 95%, 0,69-0,94) e nei semi -vegetariani 0.92 (95 % IC, 0,75-1,13). Peraltro, si rilevavano associazioni significative con le diete vegetariane per la mortalità cardiovascolare e non, per la non oncologica, per quella renale ed endocrina.
In conclusione, gli Autori osservavano ampie categorie di mortalità per tutte le cause senza che emergessero associazioni significative tra le diete vegetariane e la mortalità dovuta a cancro. Il risultato cambiava, invece, per la mortalità legata alle patologie cardiovascolari e non e per quella non dovuta a tumore. Peraltro, nell’analisi, dettagliata della mortalità per patologie non cardiovascolari/non dovuta a tumore, la riduzione era particolarmente evidente per le patologie renali, soprattutto per l’insufficienza renale cronica e per le malattie del sistema endocrino, principalmente per il diabete mellito.
I risultati sembravano, peraltro, più robusti nei maschi. Tutto ciò rafforzava, quindi, la tesi che alcuni modelli alimentari vegetariani potessero essere associati a una ridotta mortalità e a una maggiore longevità, avvalorando l’invito a un attento esame nella guida alimentare della popolazione.
Per loro conto, Andrea Bellavia del Karolinska Institutet, Stockholm – Sweden e collaboratori, rilevando incoerenza nei risultati dei pochi studi disponibili sull'associazione tra il consumo di frutta e verdura (FV) e la mortalità generale, peraltro raramente studiata in grandi studi di coorte, hanno voluto esaminare la relazione dose-risposta, sia nei termini di tempo sia di frequenza, in un'ampia coorte prospettica di uomini e donne svedesi (Am J Clin Nutr August 2013 ajcn.056119). Il consumo di FV era valutato attraverso un questionario auto- amministrato in una coorte basata sulla popolazione di 71.706 partecipanti, di cui 38.221 uomini e 33.485 donne di età compresa tra i quarantacinque e gli ottantatré anni. Gli Autori, così, compivano un’analisi dose-risposta per valutare le differenze in dieci PD (percentile differences), utilizzando la regressione di Laplace e le HR stimate secondo la regressione di Cox. Durante i tredici anni di follow - up, si verificavano nella coorte 11.439 decessi, 6.803 negli uomini e 4.636 nelle donne. In confronto con il consumo di cinque porzioni di FV / die, quello inferiore era progressivamente associato a una minore sopravvivenza e a tassi di mortalità più elevati. Coloro che non avevano consumato mai FV dimostravano una vita più breve di tre anni (PD: -37 mo, IC 95%: -58, -16 mo) e avevano un tasso di mortalità del 53% più alto (HR: 1,53, IC 95%: 1.19, 1.99), rispetto a coloro che avevano consumato cinque porzioni FV / die. Nell’analisi separata di frutta e verdura si dimostrava che coloro che non avevano mai consumato frutta vivevano diciannove mesi in meno (PD: -19 mo, IC 95%: -29, -10 mesi), rispetto ai soggetti che mangiavano frutta 1 / die. Invece, i partecipanti che consumavano tre verdure / die vivevano trentadue mesi più a lungo, rispetto a coloro che non ne avevano mai consumate (PD: 32 mo; IC 96 %: 13, 51 mesi). Degno di nota era che sia la frutta sia la verdura contengono diversi tipi di vitamine e che la prima ha generalmente un più alto grado di calorie. In genere, però, nella maggior parte delle diete vengono considerate come un gruppo combinato. Nello studio presentato le donne tendevano, in verità, a mangiare più frutta e verdura rispetto agli uomini. Inoltre, coloro che avevano riferito di consumare meno frutta e verdura erano stati anche più propensi a fumare, tendevano a essere meno istruiti e mangiavano maggiore quantità di carne rossa, latticini ad alta percentuale di grassi, dolci e snack. D’altra parte, coloro che avevano mangiato molta frutta e verdura avevano mostrato tendenza ad assumere quotidianamente maggiori calorie complessive.
In conclusione a tutto, però, il consumo di FV inferiore alle cinque porzioni / die si associava con una sopravvivenza progressivamente più breve e con tassi di mortalità più elevati. Gli Autori commentavano anche che il loro studio offriva spunto per dichiarare la debolezza relativa alle informazioni della dieta segnalata direttamente dai partecipanti, piuttosto che misurata in modo indipendente.
Max Leenders dell’University Medical Center Utrecht - the Netherlands e collaboratori hanno studiato il rapporto tra il consumo di ortofrutticoli e la mortalità nell'ambito dell’EPIC (European Prospective Investigation Into Cancer and Nutrition (Am J Epidemiol. 2013;178(4):590-602). Gli Autori hanno eseguito le analisi di sopravvivenza di 451.151 partecipanti arruolati in dieci paesi europei tra il 1992 e il 2000 e seguiti fino al 2010 (Danimarca, Francia, Germania, Grecia, Italia, Paesi Bassi, Norvegia, Spagna, Svezia e Regno Unito). Il consumo di frutta e verdura risultava inversamente associato con la mortalità con un hazard ratio per il più alto quartile = 0,90, intervallo di confidenza 95 % (IC): 0.86, 0.94, con un periodo di avanzamento di tasso di 1,12 anni (95 % IC: 0.70, 1.54) e con una quota prevenibile del 2,95%. Quest’associazione era influenzata principalmente dalla mortalità per malattia cardiovascolare, per cui l’hazard ratio per il più alto quartile era 0,85 con IC 95 %: 0.77, 0.93. Le più forti associazioni inverse si osservavano per i partecipanti con un cospicuo consumo di alcool o con un più elevato indice di massa corporea ed erano suggerite nei fumatori. Le associazioni inverse erano più forti per il consumo di verdure non lavorate, piuttosto che per quelle cucinate.
L’Italia partecipava a questo studio con 13.274 uomini e 29.136 donne di età media al momento dell’arruolamento di 50.4 (39.9–60.9), con un follow-up medio di 12.3 (10.2–14.6). Il consumo medio di vegetali era di 155.9 (70.1–297.6) gr/die e di frutta 313.7 (137.0–575.6) gr/die. Le morti verificate erano 1.381.
In conclusione, questi risultati secondo gli Autori supportavano l’evidenza che il consumo di ortofrutticoli si associava al minor rischio di morte.
Sta di fatto che a fronte delle evidenze delle proprietà della dieta salutare sulla protezione verso le malattie croniche, ancora pochi successi si rilevano nei cambiamenti dello stile di vita delle popolazioni. Deludenti sono anche i risultati delle cure primarie sui pazienti.
A tal proposito, Kushner RF dell’University of Chicago – USA nel 1995, avendo riscontrato la disparità tra la consapevolezza dei medici circa l'importanza della dieta per il mantenimento della salute e la prevenzione delle malattie con l'effettiva prescrizione delle raccomandazioni nutrizionali, ha voluto valutare gli attuali atteggiamenti, comportamenti, prassi e barriere in tale campo da parte dei medici di assistenza primaria (Prev Med. 1995 Nov;24(6):546-52). L’Autore, avvalendosi per questo di un questionario, ha stratificato i partecipanti per età, sesso, regione geografica. Le principali misure di esito erano la determinazione del tempo speso dai medici nel fornire i consigli dietetici con la percentuale dei pazienti e l’individuazione degli ostacoli alla fornitura della consulenza nutrizionale. Otteneva un tasso di risposta del 49% (n = 1.103) sui risultati con i dati completi presentati da 1.030 medici, di cui il 70% forniva una pratica privata. Oltre i due terzi dei medici avevano fornito consulenza dietetica a meno del 40% dei pazienti e avevano speso cinque minuti o meno per discutere dei cambiamenti nella dieta. Quasi i tre quarti degli intervistati avevano ritenuto che la consulenza dietetica era importante ed era sotto la responsabilità del medico. Nella classifica delle barriere percepite per la consegna delle raccomandazioni dietetiche si ponevano la mancanza di tempo e di osservanza del paziente, l’assenza di materiali didattici adeguati, la scarsità di consultazione di formazione e di aggiornamento, il rimborso insufficiente e la scarsa fiducia nel medico.
In conclusione, lo studio dell’Autore evidenziava molteplici ostacoli che impedivano al medico di base di fornire la corretta consulenza dietetica. Kushner, per superare questa condizione critica, dichiarava la necessità di un approccio diversificato medico-paziente.
In seguito Kolasa KM e Rickett K dell’East Carolina University – USA, rivisitando lo studio di Kushner, hanno voluto verificare le condizioni ai loro giorni, soprattutto dopo che l’Healthy People 2010 e la Preventive Task Force avevano insistentemente raccomandato la necessità che i medici affrontassero con i pazienti il problema della nutrizione (Nutrition in Clinical Practice. 2010;25(5):502–509). In effetti, l'obiettivo del 2010 era quello di aumentare sino al 75% la percentuale delle visite in studio che includessero la consulenza e la prescrizione di una dieta ai malati cardiovascolari, ai diabetici o agli ipertesi. A metà corso della revisione, la percentuale, in realtà, era scesa dal 42% al 40%. Eppure, i medici di base continuavano a ritenere che la consulenza nutrizionale era nel loro ambito di responsabilità. Ciò nonostante, rimaneva il divario tra la proporzione dei pazienti che i medici credevano potessero trarre beneficio dalla consulenza nutrizionale e coloro che la ricevevano o erano trasferiti ai dietisti e ad altri operatori sanitari. Le barriere citate negli ultimi anni continuavano, quindi, a essere le stesse elencate da Kushner.