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notiziario Ottobre 2013 N.9 ALIMENTAZIONE E SALUTE: LA DIETA MEDITERRANEA E I PRODOTTI ORTOFRUTTICOLI - Longevità non più speranza ma realtà

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Indice
notiziario Ottobre 2013 N.9 ALIMENTAZIONE E SALUTE: LA DIETA MEDITERRANEA E I PRODOTTI ORTOFRUTTICOLI
Dieta e tossicità degli inquinanti ambientali
Alimentazione sana, a basso costo e ambientalmente sostenibile
La dieta mediterranea
Dieta mediterranea e stato socioeconomico
Le malattie croniche, la plurimultimorbilità, la Systems Biology e la Systems Medicine
Aderenza alla dieta mediterranea e malattie croniche
Longevità non più speranza ma realtà
La dieta mediterranea aumenta la speranza di longevità
Minore la probabilità di morte con la dieta vegetariana
Tutte le pagine

Longevità non più speranza ma realtà

L'invecchiamento, definito in genere come il processo naturale che conduce qualunque sistema fisico a un aumento dell'entropia e subito passivamente dalla materia inorganica, viene continuamente contrastato negli esseri viventi da sistemi che tendono a mantenere costante l'ordine della propria struttura fisica. I notevoli progressi scientifici degli ultimi decenni hanno permesso di raggiungere oggi giorno condizioni sempre migliori che permettono di registrare un benessere nell’età avanzata, ormai diventata per molti una fase di continuata produttività, d’indipendenza e di buona salute. Grazie a questi progressi, è possibile, infatti, prevenire l'insorgenza di numerose malattie croniche, soprattutto migliorando lo stile di vita delle persone e attivando quei cambiamenti comportamentali orientati verso una dieta salutare, un regolare esercizio fisico, una razionale gestione dello stress. La longevità è una condizione ormai discussa da più parti e rappresenta un principale obiettivo della scienza medica. Si tende, difatti, a utilizzare le nuove scoperte scientifiche nel campo della genetica per ottenere, con l’adozione della medicina predittiva, interventi sempre più precoci sui fattori individuali di rischio. Le scienze biotecnologiche con le cellule staminali, il DNA ricombinante, la clonazione, le terapie geniche e le nanotecnologie potranno rendere disponibili ulteriori strumenti per combattere e rallentare il processo dell'invecchiamento. Di certo, si deve considerare che dalla metà del secolo scorso l’aspettativa della vita alla nascita ha segnato un progressivo incremento. Con il ritmo di aumento attuale, secondo un trend mantenutosi pressoché costante negli ultimi sessant'anni, l'aspettativa della vita umana cresce di circa 2,2 mesi l'anno e quella di un neonato di oggi sarebbe di circa cento anni. L'invecchiamento demografico globale, e particolarmente quello italiano, sono ben noti. Tutto ciò stimola sempre più l’adozione di combattere gli effetti negativi dell’usura dettata dal tempo. L'aspettativa di vita nel 1900 era di quarantasette anni, mentre ora è di oltre ottanta. Facendo i dovuti calcoli, si stanno aggiungendo, progressivamente con il tempo, sempre più anni di vita e l’anziano di un tempo in assoluto è l’anziano giovane di oggi con speranza di vita abbastanza lunga da far cambiare alcune condizioni e impostazioni sociali e sanitarie, come il limite di età per il pensionamento e per la controindicazione di atti invasivi e chirurgici.
Rafael Lozano dell’Institute for Health Metrics and Evaluation, Seattle, WA – USA, nel considerare la fondamentale risorsa nei dibattiti di politica sanitaria costituita dalle informazioni affidabili e tempestive sulle principali cause di morte per 235 malattie nelle popolazioni e dalle modalità del loro cambiamento, hanno prodotto una stima dei decessi annuali in ventuno regioni del mondo tra il 1980 e il 2010 con gli intervalli d’incertezza (UI) e separatamente per età e sesso (The Lancet, Volume 380, Issue 9859, Pages 2095 - 2128, 15 December 2012). Gli Autori hanno, quindi, cercato nel GBD (Global Burden of Diseases) 2010 le lesioni e i fattori di rischio. Nel 2010 erano avvenuti nel mondo 52,8 milioni di decessi. A livello più aggregato, le cause infettive, materne, neonatali e nutrizionali erano corrisposte al 24,9% di tutti i casi di morte, segnando, così, un calo di 15,9 milioni con il 34,1%, dai totali di 46,5 milioni del 1990. Tale diminuzione era stata in gran parte dovuta alla diminuzione della mortalità per le malattie diarroiche (dai 2,5 agli 1,4 milioni), delle infezioni delle vie respiratorie inferiori (dai 3,4 ai 2,8 milioni), delle patologie neonatali (dai 3,1 ai 2,2 milioni), del morbillo (dagli 0,63 agli 0,13) e del tetano (dagli 0,27 agli 0,06). Le morti per HIV / AIDS erano aumentate dagli 0,30 milioni del 1990 agli 1,5 del 2010, raggiungendo un picco di 1,7 milioni nel 2006. Anche la mortalità per malaria era aumentata di circa il 19,9% dal 1990 con 1.170.000 di morti nel 2010. La tubercolosi nel 2010aveva ucciso 1,2 milioni di persone. Entro il 2010 le morti in tutto il mondo per le malattie non trasmissibili erano, invece, aumentate di poco meno di otto milioni tra il 1990 e il 2010, rappresentando due decessi su ogni tre (34,5 milioni). Complessivamente nel 2010 otto milioni di persone erano morti per cancro, il 38% in più dei due decenni precedenti. L’ammontare di 1,5 milioni (il 19%) di questi ultimi erano riferibili alla trachea, ai bronchi e al polmone. La cardiopatia ischemica e l’ictus erano stati complessivamente responsabili di 12,9 milioni di decessi, in altre parole uno su quattro decessi in tutto il mondo, rispetto a uno su cinque del 1990.  Il diabete entrava in gioco per 1,3 milioni di morti, il doppio rispetto al 1990. Gli infortuni contavano 5,1 milioni di morti con il 9,6%, in modo leggermente più elevato rispetto allo 8,8% dei due decenni precedenti. Peraltro, quest’ultimo dato era stato legato all’aumento del 46% dei decessi in tutto il mondo a causa d’incidenti stradali con gli 1,3 milioni nel 2010 e a un aumento delle morti per cadute. Le malattie ischemiche cardiache, l’ictus, le COPD (chronic obstructive pulmonary disease), le infezioni delle basse vie respiratorie, il cancro ai polmoni e l'HIV / AIDS erano stati le principali cause di morte nel 2010. La cardiopatia ischemica, le infezioni delle basse vie respiratorie, l’ictus, le malattie diarroiche, la malaria e l'HIV / AIDS erano stati, invece, le principali cause di YLL (years of life lost) a causa della mortalità prematura. Questi ultimi dati erano simili a quelli del 1990, fatta eccezione per l'HIV / AIDS e le complicazioni pretermine alla nascita. Gli YLL da infezioni delle basse vie respiratorie e la diarrea erano diminuiti del 45-54% rispetto al 1990, mentre erano aumentati del 17-28% per quanto riguardava la cardiopatia ischemica e l’ictus. L’analisi delle variazioni regionali delle principali cause di morte offriva dati sostanziali. Difatti, le cause infettive, materne, neonatali e nutrizionali rappresentavano nel 2010 ancora il 76% della mortalità prematura nell’Africa sub-sahariana. I tassi di mortalità standardizzati per età erano saliti in alcune patologie importanti, come nell’HIV / AIDS, nella malattia di Alzheimer, nel diabete mellito e in particolare nelle malattie renali croniche. Però, nella maggior parte i tassi di mortalità negli ultimi due decenni erano scesi, come nelle principali malattie vascolari, nella BPCO, nella maggior parte delle forme di cancro, nella cirrosi epatica e nei disturbi materni. Per altre condizioni, in particolare per la malaria, per il cancro alla prostata e per le lesioni, si notava una piccola variazione.
In conclusione, la crescita demografica, l'aumento dell'età media della popolazione mondiale e in gran parte la diminuzione dei tassi di mortalità specifici per età, sesso e causa si erano, di certo, combinati per pilotare l’ampio passaggio dalle cause infettive, materne, neonatali e nutrizionali verso le malattie non trasmissibili. Tuttavia, le prime rimanevano ancora le cause dominanti degli YLL nell’Africa sub-sahariana. Sovrapposto a questo schema generale di transizione epidemiologica, si rilevavano variazioni regionali in molte cause di morte, come nel caso della violenza interpersonale, del suicidio, del cancro al fegato, del diabete, della cirrosi, della malattia di Chagas, della tripanosomiasi africana, del melanoma e di altri ancora. Pur tuttavia, l’eterogeneità regionale metteva in evidenza l'importanza delle regolarità delle valutazioni epidemiologiche delle cause di morte.
In definitiva, le malattie infettive neonatali o materne erano passate da un terzo a un quarto dei decessi, pesando sempre meno sulla mortalità generale. La denutrizione e l’inquinamento mostravano decisamente di lasciare il posto come più importanti fattori di rischio all’ipertensione e al fumo di tabacco. Ormai erano le malattie croniche le responsabili della maggior parte delle morti, cioè 34,5 milioni sui 52,8 presi in considerazione.
Su altro fronte, Joshua A Salomon dell’Harvard University, Boston, MA – USA e collaboratori, per un confronto di salute tra i vari paesi o per misurare le sue variazioni nel tempo, hanno svolto un'analisi sistematica sulle HALE (Healthy life expectancy) per 187 paesi per gli ultimi due decenni 1990 – 2010. (The Lancet, Volume 380, Issue 9859, Pages 2144 - 2162, 15 December 2012). L'aspettativa di vita in buona salute riassume la mortalità e gli esiti non mortali in una sola misura di salute media della popolazione. Questi dati, secondo gli Autori, avrebbero fornito utili informazioni per le politiche sociali in rapporto alle modalità dei cambiamenti della morbilità e della mortalità. Utilizzando i dati del GBD (Global Burden of Disease Study) 2010, gli Autori hanno valutato le HALE per gli ultimi due decenni. Nel 2010 a livello mondiale per i maschi l’HALE alla nascita era di 59,0 anni (intervallo d’incertezza 57,3-60,6), mentre quella femminile di 63,2 (61,4-65,0). Le HALE aumentavano più lentamente rispetto all'aspettativa di vita degli ultimi venti anni. Difatti, ogni aumento di un anno nella speranza di vita alla nascita si era associato ai soli dieci mesi d’incremento dell’HALE. Nel 2010 in tutti i paesi l’HALE dei maschi alla nascita era variato dai 27,8 anni (17,2-36,5) di Haiti ai 70,6 (68,6-72,2) del Giappone. Nelle femmine l’HALE alla nascita era variato dai 37,1 anni (26, 8-43,8) di Haiti ai 75,5 (73,3-77,3) del Giappone. Tra il 1990 e il 2010 l’HALE dei maschi era aumentata di cinque anni o più in quarantotto paesi e diminuita in ventidue. Nelle femmine, invece, l’HALE era aumentata in quarantatré paesi e diminuita in undici. Nel tempo l'aspettativa di vita tra i paesi era fortemente e positivamente correlata al numero degli anni persi per la disabilità. Questa relazione era coerente tra i sessi, nell’analisi trasversale e longitudinale e quando determinata alla nascita, o all'età di cinquanta anni. I cambiamenti nella disabilità avevano piccoli effetti sull’HALE, rispetto a quelli sulla mortalità.
In conclusione, l’HALE differiva notevolmente da paese a paese. L'aspettativa di vita era aumentata, il numero degli anni in buona salute persi per invalidità era anche aumentato nella maggior parte dei paesi, in linea con l'espansione delle ipotesi di morbilità per le sue implicazioni sulla programmazione e sulla spesa sanitaria. Rispetto ai progressi sostanziali nella riduzione della mortalità nel corso degli ultimi due decenni, secondo gli Autori, erano stati compiuti relativamente pochi progressi per la riduzione dell'effetto complessivo della malattia non fatale e per le lesioni sulla salute della popolazione. L’HALE, comunque, si rilevava un indicatore interessante per il monitoraggio sanitario dopo il 2015.
In particolare, i dati differenziati dei singoli paesi indicavano per l'Italia un'aspettativa di vita media di 81,5 anni. Solo i giapponesi, vivendo in media 82,6 anni, superavano di oltre un anno tale traguardo. Pur tuttavia, oltre che sull'aspettativa di vita, gli italiani facevano segnare, per una durata media abbastanza ridotta della disabilità, un buon risultato nei riguardi delle condizioni di salute, classificandosi in tale ordine di dati al sesto posto nel mondo.

Sicuramente, in tali risultati dovevano essere entrati in gioco le malattie gravi più diffuse, come l’infarto, l’ictus e i tumori, responsabili della mortalità prematura che può essere in parte prevenuta riducendo la potenzialità dei fattori di rischio. A tale proposito, per spiegare, ad esempio, le differenze di salute e di longevità tra gli italiani e gli inglesi con aspettativa di vita media di 79,9 anni, gli osservatori hanno ipotizzato e valorizzato per i primi il ruolo del clima, del fumo, dell’alcol e soprattutto della dieta mediterranea. Dalla seconda metà del secolo scorso, in effetti, gli italiani hanno migliorato molto la loro dieta consumando più pesce fresco e una più ampia varietà di frutta e verdura fresca, peraltro comunemente disponibili. L’uso dell’olio extravergine d'oliva e della frutta secca a guscio, con la riduzione dei grassi animali integra, di certo, la varietà salutare della dieta. Peraltro, in Italia il rimodellamento del Servizio Sanitario Nazionale universale del 1970 con maggiori risorse dedicate al settore, in parte basato su quello inglese dello NHS, deve aver inciso sui risultati stessi.
In definitiva, la speranza di vita si presenta sì come un semplice numero, ma è straordinariamente complicata, soprattutto per i numerosi fattori che entrano in gioco per determinarla.
Sempre nell’ordine della longevità, Julie A. Mattison del National Institute on Aging, Maryland - USA e collaboratori hanno presentato i risultati di sopravvivenza di un regime CR (Calorie restriction) in scimmie rhesus di giovane e avanzata età (Nature Vol 489, P 318–321 2012). In effetti, sino alla loro pubblicazione la restrizione calorica con una riduzione del 10-40% dei nutrienti della dieta era stata segnalata come il meccanismo non genetico più valido per estendere la durata della vita e della salute. Essa era anche spesso utilizzata come strumento per comprendere i meccanismi alla base delle malattie dell'invecchiamento e associate all'età. In effetti, sembrerebbe indipendentemente associata all’aumento della durata della vita ritardando o prevenendo l'insorgenza di molte malattie croniche in diversi animali. In contrasto con i risultati di altri ricercatori in tale campo, lo studio di Mattison ha suggerito una separazione tra gli effetti sulla salute, la morbilità e la mortalità nelle scimmie sottoposti a restrizione calorica, non migliorando la sopravvivenza. Il risultato degli studiosi è, infatti, apparso sorprendente per lo scollamento tra la salute e la durata della vita. Si è riscontrato che la maggior parte delle cinquantasette scimmie sottoposte a regime di dieta ipocalorica avevano un cuore e sistema immunitario sani con anche più bassi tassi di diabete, cancro o altre malattie rispetto alle sessantaquattro scimmie di controllo. Ma non c'era il tornaconto della longevità.



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