Le malattie croniche, la plurimultimorbilità, la Systems Biology e la Systems Medicine
Le malattie croniche, come quelle cardiache e respiratorie, l’ictus, il cancro e il diabete, sono di gran lunga la principale causa di mortalità nel mondo. Esse sono state responsabili, di fatto, del 63% dei cinquantasette milioni di decessi verificatisi nel 2008. In effetti, il rapporto OMS sullo stato globale delle malattie non trasmissibili nel 2010 (GSR 2010) ha evidenziato che le malattie non trasmissibili hanno rappresentato la principale causa di morte nel mondo nel 2008 con più di trentasei milioni di morti. Si tratta soprattutto delle malattie cardiovascolari per il 48%, dei tumori per il 21%, delle malattie respiratorie croniche per il 12% e del diabete per il 3%. Ciò che amareggia, purtroppo, è che più di nove milioni di questi decessi si sono verificati prima dei sessanta anni e che sarebbero potuto essere evitati in gran parte. Nei paesi a basso reddito le morti premature per malattie non trasmissibili hanno mostrato una variabilità dal 22% tra gli uomini e il 35% tra le donne, mentre nei paesi ad alto reddito rispettivamente dall'8% e il 10%. Il GSR 2010 ha offerto una linea di base per il futuro monitoraggio delle tendenze correlate alle malattie non trasmissibili e per valutare i progressi che i paesi stanno facendo per affrontare le malattie cardiovascolari, il diabete, i tumori e le malattie polmonari croniche. Ha fornito anche un quadro per monitorare queste malattie, concentrandosi sui fattori di rischio, sui risultati della morbilità e della mortalità e sulla capacità del sistema di salute e di risposta. Peraltro, i tassi di mortalità legati alle malattie non trasmissibili sono risultati strettamente correlati al reddito nazionale, essendo più alti nei paesi a basso reddito. I paesi a reddito basso e medio-basso hanno offerto a considerare la più alta percentuale dei decessi sotto i sessanta anni. Difatti, nei paesi a medio-alto reddito le morti premature sotto i sessanta anni sono state più del doppio di quelle dei paesi ad alto reddito. In questi ultimi, in effetti, erano corrispondenti al 13% e nei paesi a basso reddito la percentuale saliva sino a tre volte. Pertanto, contrariamente alla percezione comune, l'80% delle morti per malattie croniche si è verificata nei paesi a basso e medio reddito. Esse oramai costituiscono, di fatto, un’epidemia invisibile, determinata anche da una povertà sottovalutata che ostacola lo sviluppo economico di molti paesi. I fattori di rischio prevenibili comuni sono, peraltro, alla base della maggior parte delle malattie non trasmissibili e costituiscono, già di per sé, alcune principali cause di morte e un gravoso onere di disabilità in quasi tutti i paesi, indipendentemente dallo sviluppo economico. L’ipertensione ha rappresentato il principale fattore per la mortalità globale, essendo risultata a livello mondiale responsabile del 13% dei decessi. Di seguito, si è collocato il consumo di tabacco con il 9% e, quindi, a seguire l’alto livello di glucosio nel sangue con il 6%, l’inattività fisica con il 6% e il sovrappeso e l'obesità con il 5%. In ogni caso, l'invecchiamento della popolazione contribuisce in modo sostanziale a rendere sempre più complicata l’azione del medico clinico.
Tutto ciò anche in ragione che gli individui più anziani non solo soffrono di malattie croniche, ma molto spesso presentano un quadro clinico di plurimultimorbilità. Peraltro, questa condizione, a sua volta, corrisponde consequenzialmente alla fragilità rendendo questo insieme ben difficile ogni atto operativo che possa rispondere ai concetti chiave della pratica basata sulle evidenze per la cura centrata sul paziente. Difatti, la contemporanea presenza di diversi problemi nel paziente comporta evidenze in genere deboli e anche praticamente inesistenti in alcune circostanze. Peraltro, l'applicazione delle linee guida cliniche per tutti i problemi potrebbe persino produrre più danni che benefici. Inoltre, è quasi sempre semplicemente non nota come la presenza di un problema possa influenzare l'efficacia del trattamento di un altro, soprattutto in caso di comorbidità multiple. Pur tuttavia, tutto questo insieme può comportare per i diversi pazienti vantaggi e danni e ognuno di essi va sempre considerato come un sistema di un unico corpo multi articolato incluso in un sistema complesso ambientale e sociale.
Robert L Kane e Mary Butler dell’University of Minnesota – USA hanno sintetizzato e discusso i molteplici problemi interattivi dei pazienti polipatologici con richiesta di cure (Aging Health, December 2012, Vol. 8, No. 6, Pages 635-636). Gli Autori hanno affermato che nel campo della complessità il costruire modelli può essere di certo aiuto, ma nel contempo devono necessariamente essere approntati sempre nuovi approcci per affrontare i problemi connessi a tale stato. Di fatto, da qualche tempo la sanità mondiale deve misurarsi con la crescente schiera di pazienti geriatrici. Essi pongono onerose sfide cliniche e politico sociali. Tutti hanno bisogno di essere coinvolti nella ricerca di efficaci e convenienti modi di affrontare il problema. Secondo gli Autori, la confusione professionale del medico si estende anche per il concetto di cura centrata sul paziente, proposizione accattivante, ma con significato inafferrabile. In effetti, essa è stata usata per denotare le SDM (shared decision making), oltre che per fornire una base per la definizione dei significativi risultati di cura. Dal punto di vista delle SDM, la multimorbidità introduce il concetto delle complicazioni multiple. Peraltro, i pazienti e alcuni medici già dimostrano, in genere, una dimostrata problematicità di cura per i semplici concetti di rischio. Quindi, risulta molto meno probabile la possibilità di trattare con successo la complessità delle multimorbidità e dei compromessi coinvolti con essa. Un altro aspetto delle SDM è di decidere quali risultati siano i più importanti e per chi. La plurimultimorbilità e l’associata fragilità, in particolare, incoraggiano a prestare maggiore attenzione ai più sostanziali problemi relativi alla funzione e alla qualità della vita. In tale ambito, gli effetti marginali dei trattamenti specifici sono limitati e, invece, è necessario applicare maggiore attenzione ai risvolti di vita complessiva e del benessere del paziente. Purtroppo, per molti medici, abituati a celebrare i livelli delle costanti fisiologiche dell’organismo, tutto questo non rappresenta, certo, un terreno agevole. Gli Autori, comunque, si domandano:
In che modo si può valutare la qualità della vita con deboli esiti di morbidità?
Siamo pronti ad affrontare la multimorbidità?
Di certo, le condizioni cliniche complesse dominano ormai il quadro clinico dei pazienti, soprattutto anziani. Esse hanno anche incominciato ad assumere un particolare rilievo nella pratica professionale del medico, caratterizzando quadri di multimorbidità per la quale sono sempre più necessarie ricerche specifiche. È, peraltro, di particolare rilievo che soprattutto nei paesi più economicamente sviluppati circa due terzi dei costi dell’assistenza sanitaria vengono spesi per i pazienti con plurimultimorbilità, dovuta alla presenza d’insieme di diverse patologie croniche nello stesso paziente. Gli sforzi degli organismi sanitari, per raggiungere i livelli di qualità dell’assistenza a minor costo, sono per questo rivolti a dettare linee guida appropriate. Purtroppo, la carenza dei dati epidemiologici è di reale ostacolo alle intenzioni.
In tale campo di studio, Susan M Smith del Royal College of Surgeons, Dublin - Ireland e collaboratori, per determinare l'efficacia degli interventi volti a migliorare gli esiti dei pazienti con multimorbidità nel contesto delle cure primarie di comunità, hanno svolto una revisione sistematica della letteratura (BMJ 2012;345:e5205). I criteri di ammissibilità riguardavano trial e studi clinici randomizzati, controllati prima e dopo, e analisi di serie, interrotte e storiche, di reporting sugli interventi per migliorare i risultati nelle persone con multimorbidità in ambito alle cure primarie. La plurimultimorbilità era definita come quadro clinico comprendente due o più condizioni croniche nello stesso individuo. Negli esiti erano inclusi qualsiasi misura convalidata di salute fisica o mentale e lo stato psicosociale, tra cui la qualità di vita, lo stato di benessere e le misure di disabilità o lo stato funzionale. Erano presenti anche le misure di comportamento del paziente e del fornitore dei servizi e i costi. S’identificavano, così, dieci studi, tutti randomizzati e controllati con un basso rischio di bias, con esame di una serie d’interventi complessi per un totale di 3.407 pazienti con multimorbidità. Due descrivevano gli interventi per i pazienti con comorbidità specifiche, mentre i restanti otto erano focalizzati soprattutto sulla plurimultimorbilità nei pazienti più anziani. La considerazione dell'impatto di deprivazione socio-economica era minima e tutti coinvolgevano interventi complessi con più componenti. In sei la componente predominante era un cambiamento nell'organizzazione delle cure, di solito attraverso la gestione del caso o di un maggiore lavoro di squadra multidisciplinare. Nei restanti quattro le componenti d’intervento erano prevalentemente orientate al paziente. Nel complesso, i risultati erano misti con una tendenza verso una migliore prescrizione e aderenza ai farmaci. I risultati indicavano la difficoltà di migliorare i risultati in questa popolazione di pazienti. Pur tuttavia, gli interventi, incentrati su particolari fattori di rischio in condizioni di comorbidità o difficoltà funzionali nella multimorbidità, risultavano passibili di maggiore efficacia. Non risultava inclusa nessuna analisi economica, anche se in alcuni studi i miglioramenti nella prescrizione e la gestione dei fattori di rischio avrebbero potuto fornire dati importanti di potenziale risparmio.
In conclusione, le evidenze sulla cura dei pazienti con plurimultimorbilità erano limitate, nonostante la sua prevalenza e il suo impatto sui pazienti e sui sistemi sanitari. Gli Autori affermavano che gli interventi da loro valutati avevano avuto effetti contrastanti. Probabilmente sarebbero stati più efficaci se mirati ai fattori di rischio o alle difficoltà funzionali specifiche.
In definitiva, gli Autori suggerivano la necessità di identificare chiaramente i pazienti con multimorbidità e di sviluppare indici di costo-efficacia, come pure interventi specificamente mirati a migliorare i risultati sulla salute.
Pertanto, i dati di questa ricerca ribadivano che i pazienti con multimorbidità avevano risultati di salute più poveri rispetto a quelli con singole patologie croniche e che, nonostante il crescente loro numero, l’assistenza di solito s’imperniava attorno alle singole malattie. Peraltro, le evidenze esistenti sull'efficacia degli interventi per migliorare gli esiti di questi pazienti erano limitate.
Più recentemente Steven M. Ornstein della Medical University of South Carolina, Charleston e collaboratori hanno esaminato la prevalenza di ventiquattro malattie croniche e la plurimultimorbilità nella pratica di assistenza primaria negli Stati Uniti (J Am Board Fam Med 2013;26:518–524). Gli Autori premettevano che la presenza multipla delle malattie croniche, o la plurimultimorbilità nello stesso paziente, in condizioni di scarsità di dati epidemiologici di base, influivano notevolmente nella prestazione delle cure sanitarie e nella valutazione della qualità dell'assistenza sanitaria.
Il loro studio trasversale era condotto dal primo ottobre 2011 nella PPRNet, una rete di ricerca di 226 pratiche assistenziali in quarantatré stati, che mantiene un database clinico derivante da un record di salute elettronico comune.
In tal modo, si potevano calcolare la prevalenza di ogni malattia cronica e la multimorbidità. Erano, così, incluse in queste analisi 148 pratiche con 667.379 pazienti attivi. La prevalenza media delle patologie si sviluppava dallo 0,23 % della malattia di Parkinson sino al 35,8% dell'ipertensione, con un’ampia variabilità per tutte le condizioni. La plurimultimorbilità aumentava marcatamente con l'età per stabilizzarsi agli ottanta anni. Complessivamente, il 45,2 % dei pazienti aveva più di una malattia cronica.
In conclusione, la plurimultimorbilità costituiva un problema diffuso nella pratica delle cure primarie, un rilievo con implicazioni per la fornitura dell’assistenza sanitaria e per i costi, nonché per la valutazione della qualità delle cure e della ricerca.
Recentemente è stato pubblicato il quaderno del Ministero della salute n 23 del settembre-ottobre 2013 dedicato ai criteri di appropriatezza clinica, tecnologica e strutturale nell’assistenza del malato complesso. In esso si ribadisce come il concetto di complessità in medicina tenda a considerare l’insieme delle diverse condizioni morbose, non solo perché associate nello stesso paziente, ma anche per la loro interazione multidimensionale come comorbilità, multi morbilità a genesi comune o diversa, convergenza su elementi comuni e interconnessione con acuzie e cronicità, necessità delle relative cure. Di certo, non poteva mancare il riferimento all’epidemia mondiale delle malattie croniche che rappresentano ormai il principale problema di salute nei paesi economicamente sviluppati. Esse sono, peraltro, un preoccupante problema di costi e di spesa pubblica. Sono responsabili, di fatto, del 92% di tutte le morti in Italia con maggiore rilevanza delle patologie cardiovascolari con il 41% e dei tumori con il 28%. Peraltro, il crescente invecchiamento demografico, determinato anche dal miglioramento dei trattamenti mirati per patologie e per individuo, conduce a un progressivo aumento della polipatologia nello stesso paziente, soprattutto anziano. Si rendono, pertanto, indispensabili linee guida particolarmente definite, oltre all’individuazione dei parametri di esito relativi alla complessità del quadro clinico. L’approccio mirato alla complessità, si afferma nel documento, consentirà di ottimizzare le proposte terapeutiche muovendosi in uno scenario di medicina reattiva e personalizzata, in grado di migliorare il rapporto costo-beneficio degli interventi.
La malattia-ontologia non corrisponde, in effetti, a un fenotipo unico e stabile, ma diverso per ogni paziente cui deve adeguarsi ogni intervento. I sistemi biologici del nostro organismo, infatti, costituiscono un insieme strutturale che domina sulle singole parti. La comprensione del sistema, quindi, richiede la valutazione contemporanea, e senza regole di gerarchia, delle sue singole componenti. Pertanto, la medicina della complessità deve esercitarsi con quella sintesi che diviene sinergia tra l’EBM e la medicina narrativa. Deve cogliere, infatti, attraverso tutti i sensi ogni dinamica della vita della persona. Si deve, di certo, implementare il rigore metodologico clinico abituale con l’approccio inclusivo olistico e sistematico, valorizzando ogni elemento.
L’emergenza dei quadri clinici polipatologici ha portato a caratterizzare, sotto il profilo eziopatogenetico, prognostico, diagnostico e terapeutico, il fenoma complesso come entità fenomenica particolare. La gestione di tali casi non deve misurarsi con il semplice coordinamento delle varie prestazioni specialistiche, ma deve prevedere con un buon rapporto costo/efficacia i percorsi diagnostici-terapeutici-riabilitativi, i più possibili personalizzati. In tale contesto, è necessario sviluppare sempre più l’empouerment del paziente e dei familiari e la continuità dei percorsi assistenziali tra l’ospedale e il territorio. È opportuno sviluppare, insomma, una sanità d’iniziativa con modello assistenziale che intervenga già prima dell’esordio della malattia e, comunque, che eserciti le strategie delle cure tempestive che rallentino il decorso della stessa o ne limitino le riacutizzazioni, garantendo gli interventi più adeguati e differenziati.
Per comprendere i sistemi biologici complessi, si richiedono l'integrazione di ricerca computazionale sperimentale e, in altre parole, un approccio di biologia dei sistemi, ossia la Systems Biology, scienza integrativa e multidisciplinare.
Le domande scaturite dalla definizione e dalla programmazione della systems biology sono state:
- È possibile stabilire a priori i presupposti che condizionano il comportamento di un sistema biologico, come il raggiungimento di uno stato stazionario o l’andamento periodico, oscillante?
- Si può prevedere se e in quali condizioni tale sistema cambierà comportamento?
- A dispetto dei turbamenti nel sistema, è determinabile la sua capacità di mantenere un dato comportamento?
- E in modo più attinente alla clinica terapeutica, in che modo si può ottimizzare la produzione di un certo prodotto con l’ingegnerizzazione di un organismo, vedi il caso dell’insulina da E. coli?
- Si può predeterminare l’efficacia di un farmaco o il suo annullamento per effetto di altri processi cellulari?
A.D. Weston e L. Hood dell’Institute for Systems Biology, Washington definirono la systems biology come l'analisi delle relazioni tra gli elementi di un sistema in risposta a perturbazioni genetiche o ambientali con l'obiettivo di comprendere le proprietà emergenti (Journal of Proteome Research 2004, 3, 179-196 179).
La complessità nello studio dei sistemi biologici è, di fatto, relativa alla difficoltà di gestione delle numerose variabili che sono collegate in modo non lineare fra loro, sulla base di reti a livelli multipli e con molteplici condizioni gerarchiche, secondo il problema dell’osservabilità. Si genera, peraltro, difficoltà nel produrre i dati sperimentali quantitativi e dinamici, quali serie temporali basate sul rapporto stimolo-risposta, secondo un problema di misurabilità. Inoltre, esiste una difficoltà nel gestire le incertezze che derivano dalla carenza o addirittura dall’assenza delle osservazioni e delle misure. Sta di fatto che per comprendere nella sua completezza la funzionalità di un sistema biologico non è certo sufficiente identificare e classificare tutti i suoi elementi, né comprendere la funzione di ogni singolo elemento o generare diagrammi statici delle interazioni fra gli stessi costituenti. È necessario, invece, identificare la natura delle varie interazioni, capire le dinamiche che governano il sistema, prevedendone il comportamento per poter intervenire e per poi controllarlo.
La medicina, con l’applicazione delle nuove tecnologie, diventa, quindi:
- Predittiva per consapevolezza dei rischi di sviluppare la malattia prima che si manifesti. Utilizza per questo i biomarcatori molecolari e le analisi genomiche.
- Preventiva per lo sviluppo e la somministrazione, prima che insorgano i sintomi della malattia, delle terapie efficaci e mirate.
- Personalizzata per una diagnosi e un trattamento individuale, basati sul proprio profilo molecolare.
- Partecipatoria per l’attiva partecipazione del paziente nelle scelte relative al proprio stato di salute e alla malattia.
Lo sviluppo tecnologico delle metodiche della biologia molecolare e cellulare consente l’analisi su vasta scala del DNA, dello mRNA, delle proteine e dei metaboliti, contribuendo, così, al progresso della Systems Biology. Questa scienza, avvalendosi, peraltro, della rapida evoluzione della computer science applicata alla biologia e alla medicina, ha la capacità di prevedere gli esiti di un certo stato di modifiche nell’assetto genetico-proteomico-metabolomico-esposomico e, quindi, di consentire lo sviluppo delle nuove strategie diagnostico-terapeutiche. Si potranno, in tal modo, ottenere le informazioni rilevanti per l’identificazione di nuovi target terapeutici e di metodi innovativi di diagnosi e terapia per l’applicazione di un approccio personalizzato di Systems Medicine. Tutto ciò soprattutto a vantaggio nell’approccio olistico alla complessità che richiede la capacità di inglobare con una Capacity Building tutti gli elementi rilevanti del quadro clinico del paziente, per la loro analisi appropriata e di quella economico-gestionale.
La Systems Medicine è, di fatto, il nuovo modello di gestione scientificamente accettabile, organizzativamente praticabile ed economicamente sostenibile del paziente complesso. Con essa il singolo cittadino è posto realmente al centro del processo dell’assistenza sanitaria, conciliando le differenze individuali in tutte le fasi del processo dalla prevenzione al follow-up, attraverso la diagnosi e il trattamento.