NOTIZIARIO Luglio 2011 N°6
"VITAMINA "D" E SALUTE"
A cura di:
Giuseppe Di Lascio
Con la collaborazione di:
Bagalino Alessia, Bauzulli Doriana, Di Lascio Alessandro, Di Lascio Susanna, Levi Della Vida Andrea, Melilli Simonetta, Pallotta Pasqualino, Sesana Giovanna, Stazzi Claudio, Zimmatore Elena
VITAMINA “D” E SALUTE
La vitamina “D”, essenziale micronutriente liposolubile scoperto nel 1922 in una ricerca per curare il rachitismo, svolge un ruolo molto importante nel nostro organismo, non solo per il metabolismo osseo, ma anche per tutte le sue normali funzioni.
Essa è storicamente deputata a mantenere un adeguato livello del calcio e del fosforo sierici. Pertanto, è determinante per la formazione e robustezza delle ossa. In sua mancanza, difatti, sono assorbiti solo il 10-15% del calcio e circa il 60% del fosforo degli alimenti. L'interazione dell'1,25 OH D con i propri recettori intestinali aumenta l'efficienza dell'assorbimento del calcio dal 30 al 40% e circa dell'80% quello del fosforo.
Nel corso dgli anni, nei riguardi della salute si sono succedute molte ipotesi e teorie a favore e contro le proprietà benefiche di questo composto. In particolare, la luce del sole, come elioterapia, sin dai tempi di Ippocrate, padre della medicina occidentale, è stata considerata parte dell’armamentario delle cure mediche. Nel primo novecento, questo rimedio è stato, poi, usato per trattare molti disturbi, come la tubercolosi, il rachitismo dei bambini e le ferite da guerra. La sua importanza è esplosa, però, soprattutto quando il danese Niels Ryberg Finsen nel 1903 fu insignito del Premio Nobel per aver sviluppato il trattamento con i raggi ultravioletti (UV) contro la tubercolosi. Tutte le forme di vitamina “D” sono secosteroidi con condivisione di una stretta somiglianza strutturale e funzionale con gli steroidi, le cui implicazioni complete devono essere ancora pienamente stimate. Peraltro, la sovrapposizione tra steroidi e secosteroidi costituisce la chiave per comprendere la Patogenesi di Marshall, che tende a spiegare come una vitamina possa essere in grado di esercitare effetti palliativi a breve termine e, invece, al lungo danni. Secondo tale principio, ai pazienti con Patogenesi di Marshall si dovrebbe consigliare di evitare il consumo della vitamina, a causa dei suoi effetti immunomodulatori.
Cause e conseguenze della deficienza della Vit. “D”
Pur tuttavia, è ormai noto che la sua deficienza, riconducibile a diverse cause, comporta condizioni di scarsa salute e di malattie.
Ciò rappresenta, invero, uno dei fondamentali motivi per il rinnovato interesse sulla sintesi della vitamina “D”, il suo metabolismo e la sua azione. Difatti, i due principali motori di questo maggiore interesse possono essere ricondotti a:
1) la tendenza mondiale al peggioramento nutrizionale e alla consequenziale insufficienza della vitamina,
2) le nuove conoscenze sull'uomo in merito alle azioni ormonali, intracrine e paracrine dei suoi metaboliti 1-idrossilati.
In tale contesto, le citazioni annuali nel database PubMed sulla vitamina sono notevolmente aumentate con una stima di raddoppio negli ultimi dieci anni e un aumento del 15% nell'ultimo anno.
Fonti, siti e trasformazione dei metaboliti della Vit. “D”
A tale proposito, bisogna notare che i livelli di vitamina sono determinati principalmente dall’azione dei raggi ultravioletti sulla pelle, mentre la quota indotta dall'alimentazione e dagli integratori svolge un ruolo soltanto secondario. In effetti, solo recentemente la comunità scientifica ha preso consapevolezza che la vitamina, a differenza delle altre, non è acquisita principalmente attraverso la dieta. Su tale base, pertanto, la prima classificazione, come nutriente indispensabile, dovrebbe essere, invero, sostituita da quella di ormone, come suggerito da Wolf G (Nutrition. 2004;134:1299-1302).Nella pelle, difatti, i raggi UVB, di lunghezza d'onda fra i 290 e i 315 nm, convertono la provitamina (7-deidrocolesterolo) in previtamina “D3”, che a sua volta isomerizza rapidamente in “D3” (colecalciferolo). Poiché un eventuale eccesso di previtamina o di vitamina è distrutto dalla stessa luce del sole, un'eccessiva esposizione ad essa non causa mai intossicazione (Holick MF, Am Soc Bone and Mineral Research 2006:129-37). La vitamina “D”, quindi derivata dalla cute o dalla dieta, viene metabolizzata dagli enzimi epatici nella forma biologicamente attiva, la 25-idrossivitamina D [25 (OH) D], nota anche come calcidiolo, la cuiemivita è da 2 a 3 settimane,. Nel rene è attivata la trasformazione in 1,25-diidrossivitamina, ad opera dell'enzima 25-idrossivitamina D-1α-idrossilasi (CYP27B1). La produzione renale di 1,25-diidrossivitamina D è strettamente regolata dai livelli plasmatici dell’ormone paratiroideo e dai livelli del calcio e del fosforo plasmatici. La soppressione della sintesi della 1,25-diidrossivitamina D avviene ad opera del fattore 23 di crescita fibroblastica, secreto dall'osso, che internalizza il controtrasportatore sodio-fosfato nelle cellule del rene e del tenue. L'efficienza dell'assorbimento del calcio renale e intestinale e del fosforo aumenta in presenza di 1,25-diidrossivitamina D. Il fattore 23 di crescita fibroblastica, inoltre, induce anche l'espressione dell'enzima 25-idrossivitamina D-24-idrossilasi (CYP24), che catabolizza sia la 25 idrossivitamina D sia la 1,25-diidrossivitamina D in acido calcitroico, biologicamente inattivo e solubile in acqua.
Livelli di 25 (OH) D e stato di salute
Diversi altri tessuti possiedono gli enzimi per tale ciclo di metabolizzazione ma, poiché il prodotto epatico è la principale forma circolante, è proprio la concentrazione sierica di 25 (OH) D che viene utilizzata solitamente per la valutazione dello patrimonio vitaminico di un individuo. A causa delle differenze metodologiche dei test di misurazione e delle caratteristiche delle popolazioni, tuttavia, non c'è ancora un globale consenso sui valori di cutoff che definiscano l’insufficienza della vitamina o la sua carenza. C'è, quindi, qualche disaccordo circa gli esatti livelli di 25-idrossi-vitamina D necessari per una buona salute.
In effetti, una sua concentrazione sierica inferiore ai 10 ng / mL (25 nmol / L) si associa a malattie di più grave carenza, come il rachitismo nei neonati e nei bambini e l’osteomalacia negli adulti. Una concentrazione superiore ai 15 ng / ml (37,5 nmol / L) è, invece, comunemente considerata adeguata per le persone in buona salute. Livelli superiori ai 30 ng / ml (75 nmol / L) sono generalmente proposte come auspicabili per la salute ottimale, senza, però, prove sufficienti a sostegno. I livelli costantemente superiori ai 200 ng / ml (500 nmol / L) sono, d’altro canto, ritenuti potenzialmente tossici, anche se i dati sugli esseri umani sono scarsi. In studi su animali i valori fino a 400 ng / ml (1.000 nmol / L) non sono risultati associati a tossicità, rivelatasi, di solito, dopo assunzione di integratori in eccesso. L'ipercalcemia è normalmente la causa dei sintomi. In tal caso spesso si riscontrano quantità di vitamina superiori ai 150 ng / ml (375 nmol / L), anche se in alcuni casi essa può risultare normale. I soggetti trattati con alte dosi di vitamina, comunque, devono misurare periodicamente i livelli sierici del calcio. In caso di prolungata assunzione di vitamina, superiore ai 250-1250 μg/die, quindi, si possono verificare fenomeni di tossicità acuta o cronica con comparsa di nausea, diarrea, ipercalciuria, ipercalcemia, poliuria, calcificazione dei tessuti molli. Generalmente ciò avviene allorché i livelli circolanti di vitamina “D” superano i 100 ng/ml. Per evitare ciò, è consigliabile non superare un'assunzione giornaliera di 50 μg/die. Al tale proposito, bisogna notare che l’aumento della massa grassa, propria delle persone in sovrappeso, si associa inversamente con i livelli sierici di 25 (OH) D in modo da confondere i rapporti tra i bassi livelli di vitamina e le condizioni che si verificano più spesso nei casi di obesità, come la sottostima della 25 (OH) D totale del corpo. Tuttavia, siccome la vitamina “D” è liposolubile, le quantità eccedenti possono essere immagazzinate nei tessuti grassi e utilizzate durante i mesi invernali, quando l'esposizione al sole è limitata.
La prevalenza di ipovitaminosi “D”
La prevalenza delle deficienza della vitamina “D”, soprattutto dai più recenti studi in tutto il mondo, è risultata epidemica. Si considera che circa un miliardo di persone globalmente presentino valori bassi e non sufficienti di 25 (OH) D e Holick MF della BostonUniversity ha riportato (N Engl J Med 2007;357:266-81)che essa è presente nel 30-50% dei bambini americani ed europei, nel 50% degli adolescenti, nel 70% nelle mamme, nell'80% dei loro bambini al momento della nascita,nel 40-100% degli anziani, mentre nei ricoverati supera l’80%. Peraltro, nelle donne in età fertile dai 15 ai 49 anni nel NHANES, 1988-1994 (National Health and Nutrition Examination Survey), la prevalenza di ipovitaminosi, definita dalla 25 (OH) D ≤ 37,5 nmol / L, è stata riscontrata pari al 4,2% nelle donne bianche e al 42% in quelle di colore, le quali, anche utilizzando 200 UI o più di vitamina “D” con integratori, nel 30% avevano l’ipovitaminosi.
In Europa la condizione della carenza di vitamina “D” ha segnato nei diversi studi consistenti variazioni per i diversi paesi Paesi, come riferito da A. Mithal, D.A e collaboratori dell’IOF Committee of Scientific Advisors (CSA) Nutrition Working Group (Osteoporosis International, Vol. 20, Number 11 , 2009, p. 1807-1820). Una 25 (OH) D inferiore ai 25nmol / l è stata riscontrata dal 2 al 30% degli adulti, ma con possibile aumento sino al 75% o più negli anziani istituzionalizzati. Gli studiosi concludevano, infine, che il deficit della vitamina era più comune nel sud che nel nord dell’Europa. I gruppi a rischio erano, di fatto, gli anziani, in particolare istituzionalizzati, e gli adolescenti e gli immigrati non occidentali. Vanderwielen RPJ e collaboratori, nello studio Euronut-Seneca su anziani indipendenti, riportavano medie plasmatiche dai 20 ai 30 nmol / l nel sud Europa e dai 40 a 50 nmol / l nel nord (Lancet 1995, 346:207-210), con valori di solito più alti negli uomini che nelle donne e inaspettata forte correlazione positiva tra 25 (OH) D e latitudine. Chapuy MC e collaboratori, invece, nello studio SUVIMAX riscontravano una 25 (OH) D media in uomini e donne adulti tra i 35 ei 65 anni di 43nmol / l nel nord e 94nmol / l nel sud-ovest della Francia, con correlazione, quindi, negativa come previsto, con la latitudine. Nei Paesi Bassi, Snijder MB e collaboratori con lo studio LASA (Longitudinal Aging Study Amsterdam) rilevavano una 25 (OH) D inferiore a 25 nmol / l nello 8% degli uomini e nel 14% delle donne e inferiore ai 50 nmol / l nel 45% e nel 56% rispettivamente (2005, J Clin Endocrinol Metab 90:4119-4123). Isaia G e collaboratori hanno riscontrato, per loro conto, donne italiane in postmenopausa con valori medi di 25 (OH) D pari a 45 nmol / l e i livelli erano più bassi di25nmol / l in circa il 30% di esse (Osteoporos Int, 2003, 14:577-582).
La dose giornaliera raccomandata di vitamina D nell'Unione Europea è a tale proposito (European Food Information Council. 10-12-2010. Retrieved 2010-12-11) 5 mg. (1 mg = 40 UI e 0.025 mg = 1 UI).
Azioni ed effetti della vitamina “D”
Oggi giorno, a quasi novanta anni dalla sua scoperta, si sta iniziando a comprendere il ruolo della vitamina “D” sulla salute per gli effetti che trovano spiegazione nella sua capacità di legare il DNA e influenzare la regolazione genica. Ormai v’è univoco convincimento che il rachitismo è solo la punta dell’iceberg della carenza di vitamina, che esplica le sue azioni biologichemediante il suo recettore (VDR).
Essa regola circa il 3% del genoma umano, determinando, così, la sua importanza clinica come componente essenziale del sistema endocrino. La 1,25-OH D si lega, pertanto, agli appositi recettori (fattori di trascrizione nucleare) e induce all'interno della cellula una cascata d’interazioni molecolari che modulano la trascrizione dei geni specifici. Recentemente, si sono, in effetti, identificati 2.276 siti di legame per il recettore per tutta la lunghezza del genoma, molti dei quali concentrati presso i geni associati al rischio dei disturbi autoimmuni e del cancro. Inoltre, si è scoperto che la vitamina ha un effetto significativo sulle attività di 229 geni, compresi quelli per la sclerosi multipla, il morbo di Crohn e il diabete mellito di tipo 1.
Negli ultimi due decenni si è dimostrata la presenza del recettore non solo nei classici tessuti bersaglio, come le ossa, i reni e l’intestino, ma anche nel sistema immunitario, le cellule T e B, i macrofagi e i monociti, nel sistema riproduttivo, nell'utero, testicolo, ovaio, prostata, placenta e ghiandole mammarie, nel sistema endocrino, pancreas, ipofisi, tiroide e la corteccia surrenale, nei muscoli scheletrici, lisci e nel cuore, nel cervello, nella pelle e nel fegato. Inoltre, alcune cellule e tessuti esprimono anche l'enzima 25-idrossivitaminaD-1α-idrossilasi. Peraltro, diversi tipi di cellule, come i cheratinociti, i monociti, l’osso, la placenta, sono in grado di metabolizzare la 25-idrossivitamina D (3) a 1,25 (OH) (2) D (3) dall'enzima 25 (OH) D (3)-1alfa-idrossilasi, codificati dal CYP27B1. La vitamina, di poi, direttamente o indirettamente controlla, come detto, più di 200 geni, tra cui quelli responsabili della regolazione della proliferazione cellulare, della differenziazione, dell'apoptosi e dell’angiogenesi. Essa, quindi, riduce la proliferazione cellulare delle cellule normali, ma anche delle cancerose e induce la loro differenziazione terminale. Per tal effetto viene anche praticamente usata nel trattamento della psoriasi.
La presenza combinata del CYP27B1 e del recettore specifico in diversi tessuti ha, quindi, introdotto l'idea di un ruolo paracrino / autocrino della sostanza. Inoltre, poichè l’1,25 (OH) (2) D (3) può indurre la differenziazione e inibire la proliferazione delle cellule normali e maligne, la sua carenza dovrebbe associarsi a un aumentato rischio per quasi tutte le principali malattie umane, come il cancro, le malattie autoimmuni, le cardiovascolari e le metaboliche. Pertanto, in aggiunta al trattamento delle malattie specifiche delle ossa, tutte le funzioni di recente scoperta, tendono ad aprire prospettive nuove per l'uso della vitamina, per esempio come modulatore immunitario nel trattamento delle malattie autoimmuni o di prevenzione del rigetto del trapianto o come inibitore della proliferazione cellulare e induttore di differenziazione delle cellule. La vitamina esercita una complessiva attività inibitoria sulla proliferazione dei T-CD4 linfociti agendo, quindi, sull’immunità adattativa che coinvolge l’azione dei linfociti T e B e anche la rispettiva produzione di citochine e immunoglobuline, come risposta alla presentazione dell’antigene da parte dei macrofagi e delle cellule dendritiche.
In particolare, la vitamina blocca la differenziazione dei TCD4 in T-helper 1 e T-helper 17, stabilendo una riduzione delle citochine proinfiammatorie tra cui l’IFN-γe IL2, essenziali per i processi di attivazione macrofagica. Ne consegue una complessiva ridotta presentazione antigenica dei macrofagi e l’inibizione del reclutamento e della proliferazione di nuovi linfociti T. Nello stesso tempo, la vitamina favorisce la produzione dell’IL4, spostando l’equilibrio Th1-Th2 a favore di quest’ultimo fenotipo. Potenzia, anche, l’attività e la differenziazione dei linfociti T regolatori, aumentando la prodzione di IL-10. Diminuisce, inoltre, la produzione delle immunoglobuline per un effetto inibitorio diretto sui precursori dei linfociti B, risolvendosi il tutto in un aumento complessivo finale della tolleranza immunologica e di riduzione dell’infiammazione. Gli antigeni microbici attivano i TLR (recettori toll like), portando all’aumento dell’espressione macrofagica del VDR, recettore della vitamina, e dell’enzima CYP27B1, che la trasforma nella sua forma attiva. Le risposte immunitarie innate, difatti, coinvolgono l’attivazione dei recettori toll like (TLR) in cellule polimorfonucleate, monociti e macrofagi, oltre che in altre numerose cellule epiteliali, come quelle dell’epidermide, dell’intestino, della gengiva, dei polmoni e dell’apparato genito-urinario. L’interazione tra recettore e neoprodotti della vitamina “D” stimola, quindi ad opera del macrofago, l’espressione dei peptidi antimicrobici, come la catelecidina e le altre defensine. Le proprietà immunomodulatorie, riconosciute alla vitamina “D”, hanno, pertanto, aperto nuove frontiere di conoscenze e di terapia delle malattie del sistema immunitario in cui si riconosca un danno diretto ai tessuti dell’ospite da parte dell’infiammazione. Particolare interesse, difatti, hanno suscitato tutti quegli studi che hanno dimostrato come le popolazioni delle latitudini più elevate nel globo, con livelli sierici di 25-(OH)2D tendenzialmente più bassi, sono a maggior rischio di patologie autoimmuni.
Gombart AF e collaboratori del David Geffen School of Medicine at UCLA, Los Angeles, California, considerando che il sistema immunitario dei mammiferi fornisce una connaturata risposta rapida agli assalti dei numerosi agenti infettivi e parassitar, nel loro lavoro (FASEB J. 2005 Jul;19(9):1067-77),in effetti, dimostrarono che la 1,25-diidrossivitamina D3 e tre dei suoi analoghi inducevano l’espressione del gene umano della catelicidina, peptide ad azione antimicrobica (CAMP). Questa induzione fu osservata nella leucemia mieloide acuta (AML), nei cheratinociti immortalati e nelle cellule tumorali del colon e anche nelle normali cellule del midollo osseo umano. La ricerca, pertanto, rivelò un'attività della 1,25-diidrossivitamina D3 e del VDR nella regolazione dell'immunità innata dei primati.
In definitiva, una componente importante di questo sistema è una combinazione di diversi peptidi antimicrobici cationici che includono l'alfa e beta-defensine e la catelicidina. In particolare, la vitamina “D” regola la produzione dei peptidi antimicrobici catelicidina e beta-defensina-2, che svolgono un ruolo importante nella innata risposta immunitaria alle infezioni.
La vitamina, comunque, nella sua veste funzionale d’origine mantiene, invero, il calcio del corpo a un livello costante, anche in caso di sua insufficiente assunzione con la dieta. Un basso livello di calcio promuove la produzione dell'ormone paratiroideo (PTH), che, a sua volta, stimola l'attività dei reni per la produzione di 1,25-diidrossivitamina D. Il PTH, di conseguenza, stimola afflusso di calcio negli adipociti, aumentando la lipogenesi e inibendo la lipolisi con conseguente accumulo di grasso. La vitamina “D”, quindi, normalizza i livelli sierici di calcio, con l’aumento dell’assorbimento intestinale e la riduzione delle perdite urinarie, ma anche con la sua mobilitazione dalle ossa. Ne consegue che una sua carenza comporta un’inadeguata mineralizzazione dello scheletro e che i suoi livelli sono direttamente associati alla densità minerale ossea. Difatti, ai livelli d’ipovitaminosi, corrispondenti a 30 ng / ml o meno, l'assorbimento intestinale del calcio si riduce, compromettendo pure l'assorbimento del fosforo. S’instaura conseguenziamente anche un iperparatiroidismo secondario nel tentativo di mobilitare il calcio dalle ossa.
Revisioni sistematiche di prevenzione o trattamento con la Vit. “D”
Di recente, al fine di definire il supporto scientifico della possibile influenza della vitamina sulle condizioni extrascheleriche il comitato IOM (Institute of Medicine) ha rivisitato tutto il corpo di evidenze sulla relazione tra i suoi livelli e le conseguenze per la salute, tra cui più in particolare il:
• Cancro;
• Malattie cardiovascolari e ipertensione;
• Diabete e sindrome metabolica;
• Cadute e prestazioni fisiche;
• Risposta immunitaria e malattie autoimmuni,
• Funzioni neuropsicologiche.
A tale riguardo, anche se si è spesso evidenziata la prova della plausibilità biologica di un suo ruolo di prevenzione, non si è riusciti, però, a tradurre il dato in una coerente riduzione del rischio per la malattia. Difatti, i rapporti scientifici dei benefici per la salute sono risultati misti e inconcludenti e, quindi, non garanti di affidabilità. (Food and Nutrition Board, Institute of Medicine. Dietary Reference Intakes for Calcium and Vitamin D. Washington, DC; National Academies Press, 2011).
In particolare, Catharine Ross della Pennsylvania State University ha presieduto un comitato di quattordici esperti, incaricati di valutare i dati attuali sugli esiti per la salute, associati all’assunzione di calcio e vitamina “D”.
Il gruppo, esaminando più di mille studi riguardanti il legame tra la vitamina e una vasta gamma di malattie croniche, ha dichiarato, nel corso di una conferenza stampa, di non aver trovato nei meriti prove consistenti sul valore protettivo delle sostanze nutritive, pur ammettendo che, nei riguardi della vitamina “D”, potrebbe esserci un qualche ruolo sulla salute, non ancora ben chiaro. Da notare che il rapporto IOM ha riportato un aumento della dose giornaliera raccomandata di vitamina a 600 unità internazionali (UI), ben superiori ai 200 del 1997. Le persone, poi, con più di settanta anni dovrebbero usare 800 UI il giorno, con un apporto alimentare consigliato di calcio di 1000 - 1300 mg / die. Il Comitato, inoltre, ha suggerito livelli sierici di 25- idrossivitamina D di 50 nmol / L (20 ng / mL), come sufficienti per tutte le persone, stabilendo anche che il rischio dei danni aumenta quando si consumano più di 2000 mg di calcio o più di 4000 UI di vitamina il giorno.
Conviene notare che negli ultimi anni le popolazioni contemporanee, con l’incalzante urbanizzazione e industrializzazione da una parte e dall’altra con le pressanti raccomandazioni dei media sulla salute, hano ridotto l'esposizione al sole. Tale condizione contribuisce, così, alla diminuzione dei livelli della principale forma circolante della vitamina, necessaria al funzionamento ottimale dei vari organi e tessuti dell’organismo.
La sua carenza, in effetti, ha raggiunto livelli epidemici con segnalazioni di prevalenza da un terzo alla metà degli adulti. Essa, peraltro, tradizionalmente associata ai disturbi muscolo-scheletrici, è implicata, come detto, come causa di malattie cardiovascolari, potendo aumentare l’ipertrofia ventricolare sinistra direttamente, modificando la contrattilità miocardica, o indirettamente attraverso altre vie, come quella dell'attivazione del sistema renina-angiotensina-aldosterone, che influenzano i noti fattori di rischio per la malattia cardiovascolare, ad esempio, l’ipertensione, il diabete, l’infiammazione.
Sono, oramai, ben note le evidenze sui collegamenti dei bassi livelli di vitamina “D”, in particolare della 25-idrossivitamina o della 25 [OH] D, con le malattie cardiovascolari e con i fattori di rischio cardiovascolare, quali l'obesità, l'ipertensione, il diabete, l’arteriopatia periferica, la malattia renale cronica. Gli studi hanno anche rivelato l’associazione tra i bassi livelli vitaminici e gli incidenti cardiovascolari, compreso l’infarto del miocardio, attraverso l’alterazione non solo dell’asse renina-angiotensina per soppressione diretta dell’espressione del gene della renina, ma anche per compromissione della funzione endoteliale vascolare, attraverso la proliferazione della muscolatura liscia, l’'infiammazione, la trombosi. È stata, inoltre, dimostrata l’alterazione dei flussi dei canali del calcio, l’iperparatirodismo secondario, associato particolarmente alla mortalità negli anziani, eventualmente attraverso effetti vascolari. Sul piano diagnostico, come accennato, la misurazione dei livelli sierici della 25-OH-D è il modo migliore e affidabile per valutare lo stato della sua dotazione in un individuo. Tuttavia, questa misura non può essere appropriata per i pazienti con alterazioni della sintesi del calcitriolo, come nella sarcoidosi. Inoltre, come già detto, i test che misurano la 25-OH-D possono variare tra i diversi laboratori e nella valutazione dei referti i medici dovrebbero fare attenzione a tale circostanza. Sotto altro punto di vista, le raccomandazioni attuali non sostengono lo screening diffuso nei soggetti senza osteoporosi o malattie che potrebbero interferire con il metabolismo della vitamina. Comunque, il suo livello sierico ottimale è definito tra i 75 e gli 80 nmol / L, mentre la sua carenza dai livelli inferiori ai 25 nmol / L. Nei pazienti trattati con supplementi per via orale, i livelli sierici si stabilizzano, in genere, dopo 3-4 mesi, per cui, in caso di osteoporosi, è bene controllare la 25-OH-D al basale e dopo tre mesi dall'inizio della supplementazione.
Nello WHI (Women's Health Initiative) la supplementazione con 1000 mg di calcio carbonato aggiunti a 400 UI di vitamina D3 il giorno migliorava la densità minerale ossea a livello dell'anca, non influenzando, però, significativamente il rischio di frattura in un follow-up medio di sette anni. Pur tuttavia, lo studio è stato criticato per la dose troppo bassa di vitamina, considerando anche che le donne del gruppo con integrazione presentavano un incremento del 17% del rischio di calcoli renali.
Bischoff-Ferrari HA e collaboratori, invece, nella loro meta-analisi hanno dimostrato che dosi di vitamina di 700-800 UI il giorno riducevano il rischio di frattura dell'anca del 26% e qualsiasi frattura non vertebrale del 23%, rispetto a entrambi gli integratori di calcio o il placebo. Le 400 UI/die, invece, non si dimostravano efficaci (JAMA. 2005;293: 2257-64.). Peraltro, gli alti livelli di vitamina si sono anche dimostrati capaci di ridurre il rischio di cadute, probabilmente tramite un miglioramento della forza muscolare dei pazienti. Difatti, sempre Bischoff-Ferrari HA e collaboratori, in una precedente meta-analisi di cinque studi randomizzati per un totale di 1.237 partecipanti, avevano dimostrato che gli integratori di vitamina riducevano il rischio di cadute del 22% rispetto al calcio o al placebo (JAMA. 2004;291:1999-2006).
Vit.“D”, ciclicità stagionale e androgeni
Elisabeth Wehr della Medical University of Graz, Austria e collaboratori, sulla base della scarsità dei dati relativi all'associazione di stato della vitamina “D” con la funzione delle gonadi, considerando la presenza dell’espressione di VDR (vitamin D receptor) nei tessuti riproduttivi, come ovaio, utero, prostata, testicoli e sperma umano, sulla scorta di esperienze sperimentali su ratti con dimostrazione di una variazione istintuale stagionale dei livelli di testosterone, che sembrava associarsi alle variazioni dei livelli di 25 (OH) D in rapporto alle differenze di luce solare, hanno voluto valutare la stessa correlazione tra la vitamina e i livelli di testosterone, la SHBG (sex hormone binding globuline) e l'indice di androgeni liberi (FAI) in 2.299 uomini con una età media ± SD di 62 ± 11 anni, arruolati nell’ambito dello studio prospettico LURIC (LUdwigshafen RIsk and Cardiovascular Health)tra il 1997 e il gennaio 2000.
Le variazioni mensili dei livelli di 25 (OH) D, di testosterone e di FAI erano statisticamente significative (P <0 • 001, P = 0 • 018 e P = 0 • 030, rispettivamente), in maniera più marcate se regolate per l'età (P <0 •001per tutti) e con un nadir in primavera e i livelli di picco durante la tarda estate.
Nessuna variazione mensile significativa si evidenziava per la SHBG, lo LH o l’albumina. Dal più alto al più basso medio mensile, gli Autori rilevavano una differenza del 16% e del 18% rispettivamente per i livelli di testosterone e FAI.
I risultati, quindi, non solo erano in linea con quelli sperimentali sugli animali, ma potrebbero condurre a importanti implicazioni cliniche, poiché sia la carenza di vitamina sia l’ipogonadismo sono stati associati con conseguenze negative sulla salute, tra cui un aumento della mortalità. In questo contesto, una meta-analisi di 18 studi randomizzati, controllati hanno, peraltro, dimostrato che le supplementazioni riducevano significativamente la mortalità. Inoltre, è noto che il declino della funzione testicolare con l’avanzare dell’età porta alla riduzione dei livelli di testosterone e del FAI con effetti negativi sulla funzione sessuale, sulle funzioni cognitive, sulla perdita di densità minerale ossea, della massa muscolare e della forza ed anche sulla omeostasi metabolica. La supplementazione di testosterone, di fatto, migliora queste condizioni, ma potrebbe anche aumentare il rischio di cancro alla prostata e, quanto meno, di iperplasia prostatica benigna.
In conclusione, da tale ricerca si evincerebbe un’associazione tra 25 (OH) D e androgeni in un'ampia coorte di uomini anziani, ulteriormente supportata da analoghe loro variazioni stagionali. Tale dato, secondo gli Autori, potrebbe fornire un razionale per studi randomizzati, controllati, rivolti a valutare gli effetti della supplementazione della vitamina sui livelli di testosterone di per sé e sull’ipogonadismo associato, con le conseguenze negative sulla salute.
Quattro varianti genetiche associate con i bassi livelli di Vit. “D”
Lo studio GWAS (genomewide association study) ha identificato quattro varianti genetiche in loci diversi, possibilmente associati nelle persone di razza bianca con l’insufficienza della vitamina “D” [Lancet2010; DOI:10.1016/S0140-6736(10)60588-0]. Tutte le varianti erano vicine a geni sospetti di essere coinvolti nel metabolismo della vitamina. Thomas J. Wang del Massachusetts General Hospital, Boston e colleghi hanno valutato le associazioni genetiche con due soglie di insufficienza: le concentrazioni circolanti di 25-idrossivitamina D inferiori a 75 nmol / L (30 ng / mL) e quelle inferiori a 50 nmol / L (20 ng / ml). È stata trovata una significativa associazione tra i livelli di 25-idrossivitamina “D” e SNP (single-nucleotide polymorphisms) sul cromosoma 4 (4p12) e sul cromosoma 11 (11q12 e 11p15).Questi loci erano nella zona di geni GC, DHCR7/NADSYN1 o CYP2R1. I valori P in campioni di replica per i più fortemente associati a ciascun locus SNP erano di 2,9 × 10-48, 2,4 × 10-16, e 2.1 × 10 - 14, rispettivamente. Solo un gene candidato era abbastanza forte da replicare: CYP24A1 (sul cromosoma 20). Pertanto, il P era uguale a 8,4 × 10-8 nelle coorti di replica. Le varianti genetiche, individuate in questo studio, erano associazioni logiche con la vitamina “D”. Il GC codifica una proteina vincolante la vitamina, il CYP2R1 codifica un enzima microsomiale del fegato, che può essere responsabile dell’idrossilazione della vitamina. Il DHCR7/NADSYN1 codifica un enzima che converte un precursore della vitamina in colesterolo, diminuendo, così, la quantità di precursore che diventa vitamina. Wang, che è un cardiologo, ha commentato che tali risultati non dimostrano una qualche diretta rilevanza con le malattie cardiovascolari ma che è opportuno proseguire nella ricerca di studi clinici di grandi dimensioni in tal senso. Peraltro, l’ampio studio randomizzato VITAL sulla vitamina “D” e gli omega-3, sponsorizzato dal National Institutes of Health, rivolto a valutare se la supplementazione di 2000-UI di vitamina D e / o di di acidi grassi omega-3 possa ridurre il rischio di sviluppare malattie cardiache, ictus o cancro in 20.000 uomini e donne, dovrebbe fornire risposte adeguate nei meriti. Anche lo studio TIDE (Thiazolidinedione Intervention with Vitamin D Evaluation)staaffrontando il problema, valutando nel rischio di malattie cardiache l'intervento del rosiglitazone vs il pioglitazone con la vitamina “D” nei pazienti con diabete di tipo 2.