Inibitori dell'aromatasi e accidenti cardiovascolari
Da più di cento anni è noto che l’ovariectomia bilaterale determina la regressione del carcinoma mammario in fase avanzata nelle donne in premenopausa, definendo, così, il ruolo importante degli estrogeni nella sua genesi e sviluppo. In età postmenopausale la produzione di questi ormoni è dovuta quasi esclusivamente alla aromatasi periferica non ovarica, essendo determinante, quindi, quella del grasso sottocutaneo. Esiste, difatti, un diretto rapporto tra indice di massa corporea ed estrogeni ematici. In particolare, la maggior parte dei carcinomi mammari possiede un'attività aromatasica propria che influisce fortemente sui livelli intratumorali degli ormoni con concentrazioni di estradiolo anche 10 volte superiori rispetto alle plasmatiche. L'aromatasi, presente nella granulosa dei follicoli ovarici e meno nel grasso sottocutaneo, nel fegato e nel muscolo, è un enzima della famiglia del citocromo P-450 che catalizza la reazione di sintesi degli estrogeni a partire dagli androgeni. Il tamoxifene è stato per diversi anni il farmaco principale utilizzato nel trattamento endocrinologico del carcinoma mammario. A seguito di sempre nuove evidenze, gli inibitori dell'aromatasi, soprattutto quelli di nuova generazione, sono andati sempre più imponendosi come farmaci antitumorali, potenzialmente anche in chiave preventiva.
Essi inibiscono o inattivano, in particolare nelle donne in postmenopausa, l'enzima con consequenziale soppressione totale della sintesi di estrogeni, per cui svolgono un’azione antiestrogenica totale, essendo privi dell'attività agonistica parziale propria del tamoxifene, responsabile dell’effetto protettivo sulla mineralizzazione ossea, ma anche dell’aumentato rischio di neoplasie uterine e di tromboembolie venose. Si classificano: in inibitori di tipo 1 o inattivatori enzimatici steroidei, analoghi dell'androstenedione, che si legano irreversibilmente al medesimo sito della molecola dell'aromatasi; in inibitori di tipo 2 o inibitori enzimatici non steroidei, sostanze a struttura non steroidea, che si legano reversibilmente al gruppo eme dell'enzima aromatasi. In particolare, i farmaci di terza generazione anastrozolo (Arimidex), letrozolo (Femara) ed exemestane (Aromasin) hanno dimostrato negli studi preclinici una potenza tre volte superiore rispetto all'aminoglutetimide, farmaco di prima generazione, associata a una buona tollerabilità.
Aman Buzdar e collaboratori dell’University of Texas, Houston, hanno condotto una meta-analisi di sette studi clinici ed hanno rilevato che l'uso degli inibitori dell’aromatasi si era associato a un rischio statisticamente espressivo di aumento di evento cardiovascolare (dal 3,4% al4,2%, incremento assoluto dello 0,8%, p<0,01) (SABCS 2010; Abstract 157). Questo rischio sembrava, tuttavia, attenuato se preesisteva un trattamento con tamoxifene, per poi passare all’inibitore dell’aromatasi. La differenza, peraltro, degli eventi cardiovascolari tra anastrozolo e tamoxifene era stata minima. Comunque, gli inibitori dell’aromatasi avevano impedito un cancro su cinque, rispetto alla verifica con tamoxifene. L’analisi ha anche dimostrato che le donne che assumevano inibitori dell'aromatasi avevano un 47% di aumento del rischio relativo di fratture ossee. Tale studio dovrebbe indurre a raccomandare ai pazienti con malattia cardiaca di cambiare farmaco o evitarne l'assunzione per un lungo periodo e passare al tamoxifene, dotato di più basso rischio in tale ordine, ma più propenso a determinare trombosi, ictus e cataratta. Tale considerazione acquista maggiore importanza nel caso di preesistente malattia cardiaca.