Componenti di una dieta cardioprotettiva
Il peso globale delle CVD (cardiovascular diseases), del DM 2 (diabetes mellitus) e dell'obesità è in preoccupante aumento. Si stanno producendo, a tal proposito, enormi perdite di vite e di anni di vita con disabilità sia nei paesi economicamente sviluppati e sia in quelli in via di sviluppo. Peraltro, la maggior parte di questi oneri, che possono essere evitati, si sta verificando anche nei più giovani. Le cause di tutto ciò si ravvedono, ormai soprattutto, negli stili di vita non salutari che includono una cattiva alimentazione, un apporto calorico in eccesso, un'inattività fisica e il fumo. In tutto il mondo esistono, in effetti, notevoli differenze nelle abitudini alimentari, così come nei tassi di prevalenza delle malattie croniche. In ragione di tutto ciò, si stanno sviluppando notevoli sforzi nel campo della salute pubblica e scientifica per identificare il ruolo dei fattori dietetici nel determinismo delle malattie e pure per il maggiore potenziale di riduzione di esse. La scienza della dieta, applicata alle malattie croniche, è sorta alla metà del secolo scorso e si è ingigantita nel tempo. I progressi scientifici hanno ormai offerto le evidenze sostanziali sugli effetti cardiometabolici degli specifici fattori dietetici. L’interesse peculiare di alcune sostanze selettive e le abitudini alimentari globali, piuttosto che i soli nutrienti individuali, la rilevanza dei carboidrati e della qualità dei grassi, così come pure la quantità, gli effetti e le implicazioni del consumo del sodio, l'importanza del bilancio energetico, il ruolo degli integratori alimentari, rappresentano alcuni risultati chiave d’interesse attuale. (vedi notiziario Novembre 2013 N.10)
Dariush Mozaffarian dell’Harvard School of Public Health; Boston e collaboratori hanno fornito un rapporto utile per gli operatori sanitari e per i decisori politici per comprendere le problematiche contemporanee legate agli effetti della dieta sulle CVD (Circulation. 2011; 123: 2870-2891). Gli Autori si sono avvalsi delle recensioni complete effettuate per politiche o attività simili, comprese quelle dell’American Heart Association 2020 Impact Goals Committee (DM , LJA ), dell’AHA Nutrition Committee (D.M., L.J.A., L.V.H.), dell’US Dietary Guidelines Advisory Committee (L.J.A., L.V.H.), del World Health Organization Expert Consultation on Fats and Fatty Acids in Human Nutrition (D.M.), del World Health Organization Global Burden of Diseases, Risk Factors and Injuries Nutrition and Chronic Diseases Expert Group (D.M.) e dell’Institute of Medicine Report on Strategies to Reduce Sodium Intake (L.J.A.). Seguiva, comunque, la precisazione che le opinioni e le conclusioni espresse nel loro rapporto erano del tutto personali e non necessariamente derivate da quelle delle commissioni di cui si erano serviti.
Gli RCT (Randomized, controlled trials) sui fattori di rischio cardiometabolico e gli studi di coorte prospettici degli end point delle malattie fornivano una forte concordante evidenza sugli effetti cardiovascolari di diversi alimenti specifici. In contrasto con i nutrienti considerati isolatamente, gli effetti sulla salute degli alimenti rappresentavano probabilmente la sinergia di effetti compositi e le interazioni di molteplici fattori, tra cui la qualità dei carboidrati, il contenuto di fibre, di acidi grassi e di proteine specifiche, i metodi di preparazione, la struttura degli alimenti stessi e la biodisponibilità dei connessi micronutrienti e sostanze fitochimiche. I modelli alimentari basati su particolari cibi / componenti hanno, in effetti, stabilito i benefici cardiometabolici e sono caratterizzati da più alte quote di fibre, di acidi grassi sani, di vitamine, di antiossidanti, di potassio, di altri minerali e sostanze fitochimiche. Sono, invece, a più basso valore salutare i carboidrati raffinati, gli zuccheri, il sale, gli acidi grassi saturi (SFA), il colesterolo e i grassi trans.
Le diete che enfatizzavano il consumo di frutta e verdura producevano, in effetti, sostanziali miglioramenti sui diversi fattori di rischio, tra cui la BP (blood pressure), i livelli dei lipidi e dei biomarcatori infiammatori, l’insulino-resistenza, la funzione endoteliale e il controllo del peso.
I benefici, però, non sembravano riproducibili con quantità equivalenti di minerali e integratori di fibre, né erano dipendenti dalla composizione dei macronutrienti della dieta, come grassi, proteine o carboidrati. Questa evidenza suggeriva che i benefici potessero essere derivati da:
- una maggiore complessità dell’insieme dei micronutrienti, delle sostanze fitochimiche presenti nella frutta e nella verdura,
- una potenziale maggiore biodisponibilità di questi nutrienti al loro stato naturale e/o
- una sostituzione nella dieta dei cibi meno salutari.
In studi osservazionali a lungo termine il maggiore consumo di frutta e verdura si associava individualmente con una minore incidenza della CHD (coronary heart disease), mentre il maggiore consumo di frutta con una minore incidenza d’ictus. I risultati, comunque, degli RCT sulle misure fisiologiche e sui potenziali esiti di malattia delle coorti, fornivano insieme una concordante, forte evidenza che il consumo di frutta e verdura riduceva il rischio delle CVD (vedi not. maggio 2013 N.5).
Nei riguardi dei cereali integrali bisogna annotare che, anche se non esiste un'unica definizione accettata di grano intero, essi comprendono generalmente la crusca, il germe e l’endosperma del cereale naturale. La crusca contiene fibre alimentari solubili e insolubili, vitamine del gruppo B, minerali, flavonoidi e tocoferoli. Il germe contiene numerosi acidi grassi, antiossidanti e sostanze fitochimiche. L’endosperma fornisce, a sua volta, gran parte di amido con carboidrati polisaccaridi e proteine di deposito. Il tipo e l'entità della preparazione sembrano poter modificare gli effetti sulla salute del grano e del consumo dei carboidrati. Ad esempio, la rimozione della crusca e del germe riduce le fibre alimentari che producono importanti benefici, tra cui l'abbassamento della pressione arteriosa e dei livelli del colesterolo. Inoltre, aumenta la biodisponibilità e la rapidità della digestione dell’endosperma, il che aumenta le risposte glicemiche ed elimina i minerali, i micronutrienti e altre sostanze fitochimiche che possono avere ulteriore beneficio indipendente sulla salute.
Negli RCT il consumo dei cereali integrali migliorava l'omeostasi del glucosio-insulina e la funzione endoteliale, riduceva eventualmente anche l'infiammazione e migliorava la perdita del peso. Inoltre, il consumo di cereali integrali riduceva le LDL senza effetto sulle HDL e senza alzare i trigliceridi. Coerentemente con i benefici fisiologici, il maggiore consumo dei cereali integrali si associava con una minore incidenza di CHD, di DM e possibilmente d’ictus. Le fibre alimentari dei cereali integrali contribuivano, di certo, a questi benefici. Negli RCT, infatti, un aumento delle fibre alimentari riduceva i livelli sierici dei trigliceridi, delle LDL, della glicemia e della BP. Ancora, prove emergenti sostenevano i contributi supplementari indipendenti per la salute per merito delle altre caratteristiche dei cereali integrali, tra cui la digestione più lenta con risposte glicemiche più basse e il più alto contenuto di minerali, di sostanze fitochimiche e di acidi grassi. Così che, in modo simile alla frutta e alla verdura, gli effetti sulla salute dei cereali integrali potevano risultare dagli effetti sinergici di più componenti difficilmente derivati dalla sola supplementazione della fibra, dall’aggiunta della crusca, o da micronutrienti isolati. Allo stesso modo non erano egualmente efficaci le sostituzioni dietetiche per carboidrati e amidi più altamente raffinati/ trasformati che a loro volta potevano indurre effetti cardiometabolici avversi.
Il pesce e i frutti di mare contengono diversi componenti salutari, tra cui specifiche proteine, grassi insaturi, vitamina D, selenio e PUFA (polyunsaturated fatty acids) che comprendono l'EPA 20:05 omega -3 (eicosapentaenoic acid) e il DHA; 22:06 omega - 3 (docosahexaenoic acid). Negli esseri umani questi ultimi due composti sono sintetizzati in particolare in quantità basse, pari a meno del 5%, dal loro precursore, l'acido α - linolenico 18:03 omega -3 di derivazione vegetale. Pertanto, i livelli tissutali di EPA e DHA sono fortemente influenzati dal loro diretto consumo alimentare. Il loro contenuto medio nelle diverse specie di pesce varia anche più di dieci volte. Pesci grassi, come le acciughe, le aringhe, il salmone selvatico e di allevamento, le sardine, la trota e il tonno bianco tendono ad avere le più alte concentrazioni. Studi sperimentali in animali e in vitro hanno suggerito che l'olio di pesce aveva effetti antiaritmici diretti, ma le prove in pazienti con aritmie preesistenti hanno fornito risultati inconsistenti. Nell’uomo i trial hanno evidenziato che l'olio di pesce riduceva i livelli dei trigliceridi, la pressione sistolica e diastolica, la frequenza del polso a riposo. Poteva anche diminuire l'infiammazione, normalizzare la variabilità della frequenza cardiaca, migliorare la funzione endoteliale, il rilasciamento e l'efficienza miocardica e a dosi elevate contrastare l’aggregazione piastrinica. Coerentemente con questi vantaggi fisiologici, il consumo abituale di pesce si associava a una minore incidenza di CHD e d’ictus ischemico e, soprattutto, al rischio di morte cardiaca in una popolazione di sani. Rispetto a chi non ne consumava l’uso alimentare di 250 mg / die di EPA e DHA di derivazione dal pesce si associava a una più bassa mortalità CHD, pari al 36%. Da notare che il pesce e l’olio di pesce sono tra i fattori alimentari per i quali sono stati effettuati entrambi gli studi RCT e sugli eventi cardiovascolari osservazionali a lungo termine (vedi anche not. luglio 2012 N°7).
Le noci contengono diversi componenti bioattivi che potrebbero migliorare la salute cardiometabolica, compresi gli acidi grassi insaturi, le proteine vegetali, come la l- arginina, precursore dell'ossido nitrico, le fibre, l’acido folico, i sali minerali, gli antiossidanti e i fitochimici. Negli RCT il consumo di noci riduceva il colesterolo totale, il colesterolo LDL, l'iperglicemia postprandiale dopo pasto ad alto contenuto di carboidrati, in modo variabile i biomarker dell’ossidazione, dell’infiammazione e della disfunzione endoteliale. Negli studi osservazionali il consumo di noci era anche associato con una minore adiposità e con la perdita di peso. Il consumo di noci, anche modesto, si associava con una minore incidenza di CHD. Da notare che gli studi epidemiologici e clinici hanno valutato prevalentemente le noci propriamente dette e le arachidi.
I legumi, come piselli, fagioli, lenticchie e ceci, possono anche fornire benefici cardiovascolari. In una meta-analisi di RCT, il consumo di alimenti contenenti soia produceva tendenza verso l'abbassamento della pressione sistolica di 5,8 mm Hg e della diastolica di 4,0 mm Hg BP, ma senza raggiungere significato statistico. Le proteine di soia o gli isoflavoni (fitoestrogeni) sembravano avere effetti più modesti, producendo solo alcune riduzioni della pressione diastolica di 2 mm Hg e di colesterolo LDL del 3%. Peraltro, i legumi forniscono un pacchetto complessivo di micronutrienti, sostanze fitochimiche e fibre che potrebbero plausibilmente ridurre il rischio cardiometabolico.
Diversi componenti delle carni rosse potrebbero, invece, aumentare il rischio cardiometabolico e tra essi gli SFA, il colesterolo, il ferro dell’eme. Tale condizione è più evidente per le carni lavorate in cui si riscontrano più alti livelli di sale e di altri conservanti (vedi notiziario di Aprile 2013 N. 4).
Gli RCT sui potenziali benefici del consumo dei prodotti lattiero-caseari sono stati in parte incoerenti e inconcludenti. L'assunzione giornaliera di basso contenuto dei grassi dei latticini abbassava significativamente la BP, i livelli dei lipidi e la resistenza insulinica e migliorava la funzione endoteliale, indipendentemente dai cambiamenti del peso. Tuttavia, in linea con i benefici fisiologici, il maggiore consumo dei latticini si associava anche con un minor rischio d’ictus e di DM in coorti osservazionali a lungo termine.
L’acido linoleico coniugato e il calcio sono stati proposti come i potenziali mediatori dei benefici dei prodotti lattiero caseari (vedi not. N.6 giugno 2013, luglio 2013 N.7, settembre 2013 n.8).
Le bevande zuccherate, per loro conto, nei trial di comparazioni ecologiche e delle coorti potenziali dimostravano associazioni positive con l’adiposità. In particolare, i rilievi negli Stati Uniti tra il 1965 e il 2002, corrispondenti al rapido aumento del sovrappeso / obesità, segnalavano per queste bevande una percentuale aumentata dallo 11,8 al 21,0% delle calorie totali della dieta o intorno alle 222 calorie / die per persona. La maggior parte di questo incremento era dovuto per il 60% alle bevande zuccherate, come quelle gassate / coca cola, succhi di frutta zuccherati, bevande sportive, seguite per il 31% dall'alcol e per il 9% dai succhi di frutta al 100%. Le calorie derivate da altre bevande, come il latte, non erano, invece, aumentate. L’adolescente americano medio, se ragazzo beveva circa 700 gr / die, pari a 300 kcal, di bevande zuccherate, se ragazza circa 450 gr / die, pari a 200 kcal. Peraltro, l’assunzione della maggior parte delle bevande dolcificate da parte dei bambini avveniva in casa e non a scuola. A tale riguardo, bisogna considerare che i cibi liquidi rispetto a quelli solidi tendono ad avere un valore meno saziante e, quindi, porterebbero ad aumentare l’assunzione totale di calorie giornaliere, spiazzando, peraltro, le bevande più salutari, come il latte. Peraltro, diversi studi randomizzati avrebbero dimostrato come da una parte la ridotta assunzione di bevande zuccherate migliorasse la perdita di peso o ne riducesse l'aumento e dall’altra come la maggiore assunzione fosse associata a una più marcata incidenza di diabete mellito, sindrome metabolica e malattia coronarica.
L'uso dell’alcol correlava con esiti cardiovascolari sia positivi sia negativi. La sua massiccia assunzione abituale si rivelava cardiotossica con evidenza in molti paesi di cardiomiopatie dilatative non ischemiche. La disfunzione ventricolare conseguente era spesso irreversibile con evidenza di alta mortalità. Sia gli smodati occasionali consumi di alcol e sia la sua maggiore assunzione abituale erano associati con un rischio più elevato di fibrillazione atriale. Al contrario, in studi controllati l'uso moderato di alcol, in assenza di aumento del peso corporeo, aumentava le HDL, riduceva l'infiammazione sistemica e migliorava la resistenza insulinica. Coerentemente con questi effetti, rispetto ai non bevitori, le persone che bevevano moderatamente alcol, fino a circa due bevande / die per gli uomini e circa una per le donne, sperimentavano una minore incidenza di malattia coronarica e di diabete mellito. In questi studi osservazionali, però, i benefici del consumo moderato di alcol avrebbero potuto ottenere una sopravvalutazione per aver compreso nei gruppi di confronto degli astemi ex bevitori o altre persone che evitavano l'alcol a causa delle cattive condizioni di salute o per altre limitazioni specifiche di studio. In effetti, studi sperimentali hanno suggerito che alcuni componenti non alcolici, come il resveratrolo del vino, potrebbero produrre potenziali benefici. In definitiva, però, l’uso dell’alcol non appare consigliabile in una strategia di riduzione del rischio di CVD. Per gli adulti che già bevono alcolici, è consigliabile mantenersi nei limiti dell’uso moderato, tenendo a mente che bisogna evitare l'aumento del peso corporeo dato che una porzione media di alcol contribuisce a offrire circa 120-200 kcal e che ha un effetto meno saziante, rispetto ai cibi solidi.
Un imponente e ampio corpo di evidenze ha dimostrato il potere di migliorare la salute e prevenire CVD con i modelli alimentari globali, spesso derivati da approcci di ricerca diversi, ma condivisi in alcune caratteristiche chiave, tra cui l'accento sulla frutta, sulla verdura, su altri alimenti vegetali come i fagioli e le noci, i cereali integrali e il pesce. I prodotti lattiero-caseari sono stati limitati, oppure suggeriti occasionalmente, ma le carni rosse, specialmente se lavorate, sono state indicate con i maggiori contenimenti con i carboidrati raffinati e altri prodotti alimentari trasformati. Negli RCT l’adesione a tali modelli alimentari, quali il DASH (Dietary Approaches to Stop Hypertension), la Dieta Mediterranea, la Vegetariana, la Giapponese migliorava sostanzialmente i molteplici fattori di rischio cardiovascolare (vedi not. ottobre 2013 N.9).
La DASH, in particolare, ribadisce il valore della frutta, verdura e latticini a basso contenuto di grassi. Include i cereali integrali, il pollame, il pesce e le noci. La carne rossa, i dolci e le bevande zuccherate sono molto limitati. La dieta DASH originale era a basso contenuto di grassi totali, pari al 27% dell’energia, contro il 55% dei carboidrati.
Pur tuttavia, l'importanza della qualità dei carboidrati ha rappresentato una delle più importanti nuove intuizioni legate al valore cardiometabolico della dieta. Difatti, anche se i carboidrati sono tradizionalmente classificati in semplici, come i monosaccaridi e i disaccaridi e in complessi, come l’amido e il glicogeno, si sono aggiunte diverse rilevanti caratteristiche nel determinismo degli effetti cardiometabolici, come i contenuti di crusca e germi, di fibra alimentare, di struttura del cibo, ad esempio intatto, minimamente trasformato, raffinato, o liquido e le potenziali risposte glicemiche o l’induzione di lipogenesi epatica de novo dopo ingestione. In effetti, anche se le più rilevanti dimensioni della qualità dei carboidrati, oltre alla tassonomia corrispondente, possa rimanere incerta, risulta oggi chiaro che molti aspetti della qualità di queste sostanze possono influenzare la salute cardiometabolica. D’altro verso, gli effetti delle fibre alimentari sono meglio stabiliti, compreso l'abbassamento dei trigliceridi sierici, del colesterolo LDL, della glicemia e della pressione sanguigna.
Emergenti e convincenti evidenze suggeriscono, d’altro canto, che gli alimenti con le risposte glicemiche più alte possono influenzare negativamente il controllo della glicemia e dei trigliceridi e forse anche dei livelli di colesterolo LDL, dei biomarker dell’infiammazione, della funzione endoteliale e della fibrinolisi.
Peraltro, altre evidenze suggeriscono che gli effetti della qualità dei carboidrati possono essere più adatti al periodo post-prandiale immediato e tra gli individui più predisposti all'insulina resistenza.
Per quanto riguarda i grassi della dieta, bisogna considerare che tradizionalmente sono stati consigliati a più bassa assunzione, soprattutto per la loro maggiore densità calorica, rispetto alle proteine o ai carboidrati. Tuttavia, il tipo sembra essere di gran lunga più rilevante per la salute cardiometabolica che la loro percentuale di calorie consumate in totale. Comunque, i grassi trans prodotti dagli oli vegetali parzialmente idrogenati hanno forti relazioni negative con il rischio di CHD e, quindi, il loro consumo deve essere il più vicino possibile allo zero. Al contrario, gli omega- 3 PUFA derivati dai frutti di mare hanno una forte relazione inversa con la mortalità per CHD tanto che l’Organizzazione Mondiale della Sanità ha raccomandato per gli adulti un consumo di almeno 250 mg / die di EPA e DHA marini. Alcune evidenze supportano, anche se in forma più debole, i benefici cardiovascolari dei grassi omega-3 di origine vegetale.
In definitiva, la sostituzione degli SFA (saturated fatty acids) con i PUFA (polyunsaturated fatty acids) e dei carboidrati raffinati/amidi e zuccheri con sostanze meno raffinate ad alto contenuto di fibre permette di ottenere rilevanti effetti contro il rischio cardiometabolico.
In effetti, il consumo dei PUFA ha dimostrato di migliorare i livelli dei lipidi e delle lipoproteine nel sangue, associandosi negli studi di coorte prospettici ai tassi più bassi degli eventi cardiovascolari. Si riducono in questo modo anche gli eventi clinici quando i PUFA s sostituiscono agli SFA.
Il consumo degli acidi grassi monoinsaturi ha dimostrato anche di influire positivamente nei confronti dei livelli dei lipidi e delle lipoproteine del sangue. Migliora anche l’insulino-resistenza riducendosi il rischio CVD. Pur tuttavia, nei primati si è dimostrato un aumento dell’aterosclerosi non umana, per cui vanno raccomandati con una certa cautela.
A proposito del sale nella dieta, diversi studi e metanalisi confermano che il suo alto consumo aumenta la pressione arteriosa, stimata causa di quasi due terzi degli ictus e della metà di tutti gli eventi di CHD (vedi not. novembre 2013 N°10).
L’uso degli integratori alimentari, consigliato spesso ad alte o farmacologiche dosi, è un luogo comune, nonostante l'assenza di convincenti evidenze sui benefici per la salute o anche sulla possibilità di danno.
Il bilancio energetico tra le calorie assunte, rispetto a quelle spese, è, comunque, il determinante principale dell'aumento del peso corporeo e dell’adiposità. A tale riguardo, alcune persone possono avere un relativo elevato consumo di calorie con un equilibrio energetico neutro o negativo per una spesa alta. Al contrario, altre possono consumare relativamente poche calorie, ma con un bilancio energetico positivo a causa della bassa spesa.