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notiziario Giugno 2013 N.6 ALIMENTAZIONE E SALUTE: I PRODOTTI LATTIERO-CASEARI - Allergia e intolleranza al latte e derivati

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Indice
notiziario Giugno 2013 N.6 ALIMENTAZIONE E SALUTE: I PRODOTTI LATTIERO-CASEARI
Definizione e breve storia dei prodotti lattiero caseari
Principali caratteristiche del latte e dei suoi derivati
Il controverso rapporto tra prodotti lattiero caseari e salute
Prodotti lattiero-caseari e biomarcatori dell’infiammazione
Allergia e intolleranza al latte e derivati
Cheeseburger, soda, patatine fritte e malattia di Alzheimer
Tutte le pagine

Allergia e intolleranza al latte e derivati

Gli svantaggi del latte appaiono, comunque, soprattutto in chi soffre di allergie o intolleranze al lattosio.
Quando l’organismo non produce abbastanza lattasi, l'enzima che scinde il lattosio, si produce un quadro clinico da intolleranza con sintomi intestinali fastidiosi. Bisogna, quindi, rivolgersi a fonti alternative di calcio e vitamina D, come il latte a base di soia. Le verdure, peraltro, come gli spinaci, i broccoli e il pane forniscono anche il calcio. I prodotti vegani, ad esempio, non contengono sottoprodotti di origine animale, quindi, sono una fonte di alimenti senza latte. Comunque, è bene ricordare a chi è affetto dai problemi che si riferiscono al consumo dei latticini di leggere con attenzione tutte le etichette degli alimenti per verificare l’assenza di lattosio nella composizione del prodotto.  
In effetti, i mammiferi hanno bisogno della lattasi, enzima che serve a digerire il lattosio del latte. È un dato di fatto che nell’uomo, tra i diciotto mesi e i quattro anni di età, si perde dal 90 al 95% di questo enzima. In tal modo, si diventa per la maggior parte dei casi intolleranti al lattosio. Già nel 1965 sono state descritte notevoli differenze razziali nella prevalenza del malassorbimento del lattosio in conformità a ipotesi genetiche casuali o di qualche altro processo di selezione che ha portato alcune comunità a intraprendere la produzione dei prodotti lattiero-caseari e l'uso del latte come un alimento principale. Le persone aberranti di tali gruppi avrebbero, di poi, potuto godere di un notevole vantaggio selettivo. Difatti, oltre a una maggiore sopravvivenza, è stato suggerito che chi manteneva la possibilità di usufruire della lattasi e, quindi di digerire il lattosio, avrebbero potuto sperimentare anche un piccolo vantaggio nell’allevamento del bestiame.
Pur tuttavia, questo disturbo intestinale si esprime clinicamente con sintomi sino a vere e proprie coliche, infezioni dell'orecchio, problemi respiratori e dermopatie. Peraltro, possono aggiungersi problemi dell’accrescimento, acne, disturbo da deficit dell’attenzione, deficit di attenzione e iperattività, sindrome del colon irritabile e ansia.
In effetti, la maggior parte dei mammiferi smette di bere latte subito dopo lo svezzamento e nella maggior parte degli individui, in generale anche in alcune razze umane, il gene per la lattasi viene a cessare con l’età con riduzione irreversibile nell’espressione dell’enzima intestinale. Viene, così, a perdersi la capacità di digerire il lattosio. Pur tuttavia, nella maggioranza dei cittadini dell’Europa settentrionale questo gene rimane attivo come tratto mendeliano dominante e ben oltre il 90% di essi durante tutta la propria vita riesce a consumare quantitativi relativamente elevati di latte. A tal proposito, in effetti, sono state descritte notevoli differenze razziali sulla prevalenza del malassorbimento del lattosio con vantaggi sulla sopravvivenza e sull’allevamento. Anche in Africa e Medio Oriente, ma non ubiquitariamente, si sono dimostrate alcune presenze di pastori con alte frequenze di LP. Il gene per l’enzima lattasi, denominato LCT, è localizzato nel cromosoma 2 ed è formato da 50 kb. Esso presenta nella sua sequenza 17 esoni. Gli individui lattasi persistenti sono quelli che hanno subito una mutazione nel gene regolatore dell’enzima lattasi, per cui riescono a digerire il lattosio anche in età adulta. Gli individui lattasi non persistenti, invece, sono quelli che non hanno subito la mutazione, per cui dallo svezzamento in poi hanno una produzione limitata dell’enzima. La mutazione coinvolge un singolo nucleotide situato a 14 Kb prima del punto d’inizio della trascrizione della lattasi, precisamente in un introne adiacente al gene MCM6. Essa è dovuta a un polimorfismo nella posizione C/T 13910 secondo il database ed è una sostituzione del nucleotide C à T in un punto del gene regolatore dello LCT. Nella popolazione europea si ritrovano tre genotipi:

  • 13910 TT con frequenza di circa il 40% e nessun segno di PLI (intolleranza primaria al lattosio),
  • 13910 TC con frequenza di circa il 45% portatore, ma con nessun segno di PLI,
  •  13910 CC con frequenza di circa il 15% con predisposizione genetica per il PLI.

L’allele con la base T è dominante rispetto a quello con la base C. Quindi, solo al genotipo CC è dato di manifestare l’intolleranza al lattosio. Si è ipotizzato che la frequenza attuale in Europa dello LP sarebbe il risultato di un processo di selezione relativamente recente, in diretto rapporto con i vantaggi biologici che probabilmente includono la continua disponibilità di una bevanda energetica e ricca di calcio, necessaria per una comunità agricola per superare le indigenze derivate dagli scarsi raccolti. L’alta frequenza dell’allele per la persistenza della lattasi potrebbe essere, quindi, il risultato di anni di selezione naturale che hanno favorito le popolazioni del neolitico, dedite alla pastorizia.
La prevalenza dell’intolleranza primaria al lattosio varia, quindi, in base alla razza. Secondo le stime attuali raggiunge ben il 25% della popolazione bianca, soprattutto con radici nell'Europa meridionale. Nella popolazione mondiale è, invece, di circa il 75%, essendo molto più comune tra gli asiatici, sudamericani, africani, in cui raggiunge il valore del 75-90%. L'intolleranza al lattosio non è letale e dimostra una bassa morbilità con possibile effetto di un’osteopenia come sua complicanza.  Non vi sono condizioni preferenziali per il sesso e le donne in cinta, intolleranti al lattosio, nel 44% dei casi riacquistano la capacità di digerirlo durante la gravidanza. L’età d’insorgenza è comunemente tra i venti e i quaranta anni. I sintomi includono soprattutto: dischezia, gonfiore e dolore addominale, flatulenza, nausea e borborigmi.
D’altro canto, quando il sistema immunitario risponde erroneamente ai prodotti lattiero-caseari si verificano le reazioni allergiche, che nei bambini sono le forme più diffuse tra quelle alimentari. Le allergie al lattosio possono causare problemi cutanei con un’angioedema, un’orticaria rossa sul petto con protuberanze gonfie, pruriginose o urenti, oppure una semplice eruzione cutanea, o un eczema con prurito e/o bruciore peri orale e/o al viso, alle braccia, alle gambe e al cuoio capelluto. Possono comparire difficoltà respiratorie per edema delle vie respiratorie con dispnea, tosse, starnuti, rinorrea e attacchi di asma. I problemi digestivi sono comuni nell’allergia da latte e comprendono: crampi addominali, diarrea, meteorismo con senso di gonfiore addominale, flatulenza e nausea. Può anche verificarsi una condizione di anafilassi con perdita della coscienza e arresto respiratorio. I sintomi, peraltro, compaiono da pochi minuti a due ore dopo l’ingestione di un latticino e la loro gravità è correlata alla quantità utilizzata.. Nei casi di particolare gravità si possono verificare eruzione di vesciche e di vere piaghe con trasudazione.
            L'EAACI (European Academy of Allergy and Clinical Immunology) ha di recente elaborato le linee guida su come prevenire e gestire le allergie alimentari sulla base di una revisione sistematica sulla prevenzione delle allergie alimentari (EAACI Food Allergy Primary prevention Guideline. 30.3.2013). Antonella Muraro dell’Università di Padova ha partecipato alla loro stesura, come parte italiana, per fornire la sinossi state-of-the-art sulla base dei dati attuali in materia di epidemiologia, di prevenzione, di diagnosi e di gestione clinica e dell'impatto sulla qualità della vita, che sono stati utilizzati per produrre le raccomandazioni cliniche. Lo scopo della revisione sistematica è stato quello di valutare l'efficacia degli approcci per la prevenzione primaria delle allergie alimentari, come quelle del latte, delle uova, degli arachidi e della frutta a guscio. Esse, in effetti, possono avere non solo un effetto significativo sulla qualità della vita e sulla funzionalità fisica delle persone, ma possono anche essere molto costose per la sanità pubblica.
Data la morbilità risultante dalle allergie alimentari, vi è un notevole e crescente interesse scientifico nei meriti per ottenere risultati favorevoli che possano ridurne il rischio. A tale scopo sono proposti continuamente diversi interventi prenatali, perinatali, neonatale e nell'infanzia. Le linee guida dell'EAACI sono state approntate proprio per raccomandare come prevenire e gestire le allergie alimentari.
In verità, con “ipersensibilità alimentare” si tende a descrivere una qualsiasi reazione avversa al cibo, mentre con “allergia alimentare” ci si riferisce a un sottogruppo di reazioni in cui vengono implicati i meccanismi immunologici, anche con eziologia IgE-mediata, non IgE-mediata, o che coinvolgono una combinazione di IgE e non IgE-mediate. Tutte le altre reazioni al cibo, a volte indicate come intolleranza alimentare, costituiscono, invece, le reazioni di ipersensibilità alimentari non allergiche.
Sulla base delle evidenze acquisite dall’analisi degli studi, le linee guida dell’EAACI forniscono alcuni consigli su come prevenire l'allergia alimentare, soprattutto nei riguardi dei bambini ad alto rischio di sviluppo della malattia allergica. Durante la gravidanza e l'allattamento è espressa la raccomandazione per tutte le madri di seguire una normale dieta salutare senza restrizioni e per tutti i  neonati di essere allattati esclusivamente al seno per i primi 4-6 mesi di vita. Se l'allattamento al seno è insufficiente o impossibile per i primi quattro mesi, si dovrebbe provvedere nei neonati ad alto rischio con una formula ipoallergenica. Oltre i quattro mesi non si esprime la necessità di evitare l'introduzione di alimenti complementari. Peraltro, non ci sono prove sull'uso degli integratori per la prevenzione delle allergie alimentari, come i prebiotici o i probiotici.
Bisogna, comunque, considerare che negli ultimi decenni, l'allergia alimentare ha assunto sempre maggiore importanza nella assistenza sanitaria e vi sono dati della letteratura che segnalano un suo progressivo aumento di prevalenza e della riduzione della qualità di vita dei pazienti. In verità, vi sono scarsi e poco affidabili dati di aggiornamento sull’epidemiologia delle allergie alimentari in Europa.
            Nwaru BI dell’University of Edinburgh – UK e collaboratori, per capire e descrivere l'epidemiologia delle allergie alimentari, cioè la loro frequenza con i fattori di rischio e i risultati di cura sui pazienti con le caratteristiche individuali, di luogo e di tempo, hanno sviluppato una strategia di ricerca altamente sensibile, recuperando articoli della letteratura nei meriti (Clin Transl Allergy. 2013 Apr 1;3(1):13). La ricerca è stata realizzata combinando i concetti di allergia alimentare in Europa con l’epidemiologia da banche dati bibliografiche elettroniche. La prevalenza di allergia alimentare autoriferita è risultata (%, IC 95%) di:

  • Per tutti 17.3 (17.0-17.6).
  • Per i bambini da zero a17 anni 17.4 (16.9-18.0).
  • Per gli adulti dai 18 anni e oltre 17.2 (16.0-17.6).
  • Per l’Europa occidentale 23.8 (22.9-24.7).
  • Per l’Europa orientale 41.6 (39.5-43.7).
  • Per l’Europa meridionale 30.3 (28.7-31.9).
  • Per l’Europa settentrionale 19.2 (18.6-19.8).

            Per altro canto, a proposito dei minerali è bene ricordare che il latte di mucca, utilizzato spesso per lo svezzamento dei bambini come loro principale fonte di calorie, è la più comune causa di anemia da carenza di ferro. In effetti, il latte è carente di questo minerale che può anche legarsi con quello che si trova in altri alimenti, con intralcio all'assorbimento. Inoltre, la reazione infiammatoria contro il latte, che spesso avviene nei neonati e nei bambini, può anche causare un sanguinamento digestivo occulto con consequenziale stillicidio di sangue e anemia. D’altronde, il latte materno è perfettamente progettato per i piccoli esseri umani, mentre quello vaccino lo è per i vitellini da latte.
            J. Burger della Johannes Gutenberg University, Mainz – Germany e collaboratori, proprio considerando che la persistenza della lattasi (LP) negli adulti, conferita come capacità di digerire il lattosio con tratto dominante mendeliano, negli ultimi ventimila anni si è confermata frequente nell’Europa centro-settentriomale, hanno sviluppato una strategia a tappe per l'ottenimento del DNA antico nucleare affidabile da antichi scheletri (Proceedings of the National Academy of Sciences of the United States of America [2007, 104(10):3736-3741]. Gli Autori hanno, così, ottenuto dati in base a:

  • la selezione di scheletri provenienti da siti archeologici che avevano mostrato ottima conservazione biomolecolare,
  • l’ottenimento di sequenze di DNA mitocondriale umano altamente riproducibili,
  • l’affidabilità dello STR (short tandem repeat) dei genotipi degli stessi campioni.

Applicando questa strategia sperimentale, ottenevano, così, un’alta fiducia di associazione LP in otto resti umani neolitici e uno mesolitico, utilizzando una serie di criteri rigorosi per il lavoro dell’antico DNA su cinquantacinque campioni di ossa appartenenti a otto soggetti neolitici risalenti a circa il 5.500 aC.
Gli Autori, peraltro, non osservavano l'allele più comunemente associato con lo LP negli europei, ottenendo, così, la prova per l'ipotesi culturale storica e indicando che lo LP era raro nei primi agricoltori europei. Questa caratteristica era probabilmente quella che conferiva un vantaggio selettivo agli individui che consumavano quantità apprezzabili di latte fermentato. Difatti, alcuni hanno sostenuto l’ipotesi culturale storica secondo la quale gli alleli LP sarebbero stati rari all'inizio del neolitico fino all'avvento della cultura casearia, per poi salire rapidamente di frequenza con la selezione naturale.
Altri, invece, hanno preferito l’ipotesi inversa, in base alla quale la cultura casearia sarebbe stata adottata dalle popolazioni con frequenze elevate preadattative dell’allele LP. L’analisi, basata sulla conservazione degli aplotipi del gene della lattasi, indicherebbe, comunque, un’origine recente e coefficienti di selezione elevati per lo LP, anche se non è stato possibile affermare se le prime popolazioni europee neolitiche fossero state lattasi persistenti a frequenze apprezzabili.
            In conclusione, secondo i dati ottenuti, la mutazione nel gene lattasi risultava assente, suggerendo che la capacità di digerire il lattosio e, quindi, di consumare quantità virtualmente illimitate di latte si era probabilmente sviluppata negli ultimi 7000 anni. L'alta prevalenza della mutazione all'interno delle comunità dell'Europa settentrionale era, peraltro, coerente con il notevole vantaggio acquisito per la sopravvivenza.
            D’altro canto, Amel Lamri dell’Univ. Paris Diderot – France e collaboratori, si sono posti l’obiettivo di testare l'associazione dello rs4988235 con la BMI e le malattie metaboliche correlate nell’interazione con il consumo dei latticini (Nutrition (impact factor: 3.03). 12/2012; DOI:10.1016/j.nut.2012.08.013). Tutto ciò sulla base che l'allele T del polimorfismo funzionale (rs4988235: LCT-13910 C> T) in prossimità del gene della lattasi correla negli adulti con la persistenza della lattasi (LP). Il dato derivava anche dalla considerazione sugli studi trasversali in cui il genotipo LP (TT + TC) era stato associato con una BMI (body mass index) più alta nelle popolazioni europee e che nella coorte francese del D.E.S.I.R. (Data from an Epidemiological Study on the Insulin Resistance syndrome) un elevato consumo di latticini si era associato oltre i nove anni con un guadagno di peso corporeo più basso e con una minore incidenza di elevati livelli di glucosio nel plasma e / o la sindrome metabolica. Gli studiosi genotipizzavano e seguivano per oltre nove anni 3.575 caucasici dei 5.212 soggetti del DÉSIR nati nella Francia continentale. Quelli con il genotipo LP (frequenza: 78,5%) al momento dell’inclusione e alla data dei nove anni rispondevano a un più elevato consumo di latticini, (P <0,001). Avevano anche un indice di massa corporea superiore nelle due rilevazioni di tempo (differenza = 0,3 kg / m 2, P = 0.05). Pur tuttavia, questo effetto era limitato al medio / alto consumo dei prodotti lattiero-caseari (differenza = 0,5 kg / m 2, P = 0,006). Questo genotipo si associava anche con la sindrome metabolica, secondo la definizione IDF (International Diabetes Federation), che, però, scompariva dopo aggiustamento per la BMI. In tutta la popolazione l'allele C si associava, peraltro, con una più alta prevalenza di alterata glicemia a digiuno e / o diabete di tipo 2.
            In conclusione, la persistenza del genotipo lattasi si associava nello studio longitudinale con una BMI più alta, soprattutto in coloro che consumavano elevate quantità di latticini.
            In particolare, Ricardo Almon dell’Örebro University, Sweden e collaboratori hanno voluto analizzare con randomizzazione mendeliana negli abitanti delle isole Canarie della Spagna la potenziale associazione della LP rispetto alla non persistenza della lattasi (LNP) con la BMI (PLoS ONE (impact factor: 4.09). 01/2012; 7(8):e43978). Tutto ciò in relazione della provata associazione positiva tra il genotipo LCT -13.910 C> T, rs4988234, relativo alla tolleranza europea al lattosio, con gli indici di massa corporea (BMI) in una meta-analisi di 31.720 individui di discendenza del nord e centro Europa. Peraltro, era stata già evidenziata in una popolazione mediterranea spagnola una forte associazione di persistenza della lattasi (LP) con l’indice di massa corporea e l’obesità. Gli Autori hanno, così genotipizzato per il polimorfismo LCT - 13910 C> T un campione casuale di 551 adulti dell’ENCA (Canary Islands Nutrition Survey) in Spagna, di età compresa tra i diciotto e i settantacinque anni. Il consumo di latte era valutato mediante un questionario validato. Le variabili antropometriche erano misurate direttamente ed era utilizzata la classificazione WHO della BMI.
            Gli individui LP erano significativamente più obesi rispetto a quelli LNP (χ (2) = 10.59, p <0.005) e in un’analisi di regressione lineare multivariata mostravano un'associazione positiva con la BMI rispetto agli LNP, (β = 0.96, IC 95%: 0,08-1,85, p = 0,033). Peraltro, in un'analisi di regressione logistica multinomiale i soggetti LP di normale peso dimostravano un odds ratio per l'obesità di 2,41, IC 95% 1,39-418, (p = 0.002), rispetto a quelli LNP.
Il polimorfismo T-13910 dell'allele LCT-13910 C> T si associava positivamente con la BMI. Pertanto, lo LP aumentava significativamente il rischio di sviluppare l'obesità nella popolazione studiata.



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