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notiziario Giugno 2013 N.6 ALIMENTAZIONE E SALUTE: I PRODOTTI LATTIERO-CASEARI

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Indice
notiziario Giugno 2013 N.6 ALIMENTAZIONE E SALUTE: I PRODOTTI LATTIERO-CASEARI
Definizione e breve storia dei prodotti lattiero caseari
Principali caratteristiche del latte e dei suoi derivati
Il controverso rapporto tra prodotti lattiero caseari e salute
Prodotti lattiero-caseari e biomarcatori dell’infiammazione
Allergia e intolleranza al latte e derivati
Cheeseburger, soda, patatine fritte e malattia di Alzheimer
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NOTIZIARIO Giugno 2013 N°6

ALIMENTAZIONE E SALUTE:
I PRODOTTI LATTIERO-CASEARI

 

 

 

 

 

A cura di:
Giuseppe Di Lascio §

 

Con la collaborazione di:

Doriana Bauzulli *, Alessandro Di Lascio**
Andrea Levi Della Vida §, Simonetta Melilli §
Claudio Stazzi §, Elena Zimmatore §
 
§ Medico specialista in Medicina Interna
* Coordinatrice degli Infermieri, ** Fisioterapista

Definizione e breve storia dei prodotti lattiero caseari

I prodotti lattiero-caseari, ossia il latte e tutti i suoi derivati, come il burro, il formaggio, il gelato, lo yogurt e il latte condensato ed essiccato, generalmente sono prodotti nei caseifici e definiti alimenti ad alto rendimento energetico. Il latte, invero, utilizzato dagli esseri umani fin dall'antichità, fornisce prodotti sia freschi e sia di riserva. In alcuni paesi quasi la metà della sua produzione viene consumata come latte intero, pastorizzato, fresco, a basso contenuto di grassi, o scremato. Tuttavia, la maggior parte viene trasformata in prodotti caseari più stabili, come il burro, il formaggio, il latte essiccato, i gelati e il latte condensato, commerciabili in tutto il mondo. Il latte di mucca è di gran lunga il tipo principale utilizzato nelle varie regioni del mondo. Quello di altri animali proviene soprattutto in India, Cina, Egitto e Filippine dalla bufala, nei paesi mediterranei dalle capre e dalle pecore, nel nord dell’Europa dalle renne, in Asia dagli yak, nei paesi arabi dai cammelli e dai dromedari. Pur tuttavia, a parte i neonati allattati al seno, il consumo umano dei prodotti lattiero-caseari si ottiene principalmente dal latte delle mucche.
            I prodotti caseari sono comuni e soprattutto nell’alimentazione europea, americana, asiatica e del Medio Oriente.
Il termine latticini, derivato dal latino lacticinium, tende ad assumere due significati, uno più generico e l’altro più restrittivo. Con il primo s’intendono tutti quei derivati dal latte ottenuti con i procedimenti più vari, come la panna, il burro, lo yogurt, la ricotta, i formaggi freschi e quelli stagionati. Con il secondo ci si riferisce soltanto ai derivati che non subiscono la stagionatura, come i formaggi freschi, la mozzarella, lo stracchino, il mascarpone, la ricotta, il burro, la panna e lo yogurt.
I prodotti caseari più diffusi, comunque, sono il formaggio, la ricotta, la panna, il burro e lo yogurt.
Il formaggio, tramite la coagulazione dei grassi e della caseina, si ricava dal caglio, la parte proteica del latte. Sono disponibili formaggi freschi, che sono latticini in senso stretto, e gli stagionati.
La ricotta, parte del siero del latte, deriva dalla cagliata come residuo della produzione del formaggio.
La panna, ottenuta per centrifugazione o per affioramento in seguito alla decantazione lenta, è costituita dalla parte grassa del latte.
Il burro si produce dalla lavorazione della panna, o crema di latte, con formazione di un'emulsione.
A seguito della fermentazione batterica degli zuccheri del latte, si ottiene lo yogurt.
            Gli esseri umani agli inizi della loro storia e comparsa sulla terra erano principalmente cacciatori e raccoglitori e non utilizzavano i prodotti lattiero-caseari. Le più antiche documentazioni sull’uso del latte e derivati risalgono alle società nomadi e agricole di 9.000 anni fa, che dipendevano per questo dai bovini, dalle pecore, dalle capre, dai cavalli, dai bufali e dai cammelli. Con il processo evolutivo della specie umana, le più antiche popolazioni riscontrarono, quindi, la necessità di procurarsi i derivati fondamentali del latte, tanto da poterli conservare e usare nei momenti di maggiore bisogno.
            Il latte è divenuto, quindi, un pilastro in molte diete di tutto il mondo, disponibile in una varietà di forme: crudo, pastorizzato, in polvere. A oggi, sono, inoltre, disponibili numerosi prodotti a base di latte con i loro vantaggi e svantaggi, tra cui i formaggi, lo yogurt, il gelato e diversi prodotti confezionati. Interessante, in particolare, è la storia del formaggio che costituisce uno di questi preziosi alimenti. Questo prodotto ha seguito, infatti, un percorso parallelo a quello della civiltà dell’uomo, rappresentando per questo un’importante fonte alimentare, relativa alla cultura di ogni popolo, e un aspetto fondamentale della continua lotta per la sopravvivenza. Le varie fasi di lavorazione e trasformazione del latte in formaggio si riconoscono già in un bassorilievo su marmo del 3.000 a. C., noto come “fregio della latteria”. È, in effetti, il documento più antico del genere ed è esposto nel museo iracheno di Baghdad. Esso testimonia con particolare precisione le varie fasi della produzione del formaggio nella civiltà sumera. Pur tuttavia, presso alcune popolazioni nomadi la scoperta del formaggio sarebbe stata casuale. Difatti, dopo aver munto il latte al mattino, queste comunità, che usavano conservarlo nell’abomaso dei ruminanti lattanti chiuso come in un otre naturale, la sera trovavano la massa semisolida dell’antesignano del formaggio di oggi. Comunque, questo prezioso alimento nel bacino del Mediterraneo, nell’Africa settentrionale e in Asia minore ha origini antichissime.  Le prime testimonianze, che si rilevano già nel terzo millennio avanti Cristo, illustrano che la produzione del formaggio è sempre più migliorata nel tempo, soprattutto nella cultura dell’antica Grecia e antica Roma, come riportato da varie scritture di Aristotele, Virgilio, Omero, Ippocrate e Plinio. Peraltro, l'etimologia della parola “formaggio” risale all’antica  Grecia. Essa deriva, infatti, da "formos", che significa "messo in forma" perché riferito al riporre il latte coagulato in contenitori di giunco o in canestri. I francesi hanno mantenuto più o meno lo stesso termine di fromages, mentre gli italiani hanno fatto derivare dal latino "caseus" il termine di cacio, i tedeschi quello di Käse, gli spagnoli quello di queso e gli inglesi quello di cheese. La mitologia greca attribuiva al semidio Aristeo, figlio del dio Apollo e della ninfa Cirene, l’invenzione della produzione del formaggio. In Sardegna con la civiltà nuragica del primo millennio a.C. il Centauro Chitone fu indicato in questo ruolo e anche come chi insegnò all’uomo la tecnica casearia. Pur tuttavia, un altro momento molto significativo nella storia del formaggio è il Medio Evo, epoca in cui i monaci, con la loro organizzazione sociale e agricola e la loro golosità, seppero offrire alcuni capolavori dell'arte casearia, tuttora degni di ammirazione.
            Può essere interessante sapere che alcune confessioni religiose, ravvedendo nella produzione casearia una violenza contro le mucche, invitano a limitarne e anzi ad annullarne il consumo. In particolare, il giudaismo più stretto, come prescritto nel deuteronomio 14:21, richiede che carne e latticini non siano parte nello stesso pasto, oppure che siano serviti o cotti negli stessi utensili, o memorizzati insieme.
Inoltre, il veganismo porta a evitare tutti i prodotti di origine animale, compresi quelli lattiero-caseari. Tutto ciò, più spesso, a causa di un’etica che riguarda le modalità di produzione dei prodotti lattiero-caseari. In tali casi, comunque, le ragioni etiche che portano a evitare il consumo dei latticini si basano più precisamente su come il latte è prodotto, su come gli animali vengono trattati e sull'effetto ambientale della produzione lattiero-casearia.


Principali caratteristiche del latte e dei suoi derivati

Il latte, pur essendo un liquido e per questo considerato una bevanda, contiene tra il 12 e il 13% di solidi totali che ne fanno un vero e proprio alimento. D’altro canto, molti nutrimenti solidi, soprattutto tra gli ortaggi e la frutta, sono tali contenendo solo un minimo del 6 %. Proprio per questa sua particolare proprietà e per il suo alto contenuto di proteine, il latte è stato denominato “carne liquida”. In effetti, come la carne esso è completamente privo di fibre e delle numerose sostanze fitochimiche che si ritrovano nei vegetali con ruolo di protezione contro le malattie degenerative croniche non comunicabili. Peraltro, la produzione del latte e della carne sono strettamente congiunte, essendo l'una il possibile sottoprodotto dell'altra.
Le componenti principali del latte sono l’acqua, i grassi, le proteine​​, i carboidrati (il lattosio) e i minerali (le ceneri). Tuttavia, ci sono numerosi altri micronutrienti molto importanti, come le vitamine, gli aminoacidi essenziali, gli oligoelementi. Tali composti sono presenti in fasi fisiche diverse. Il grasso è in quella di emulsione, la caseina di sospensione colloidale. In soluzione sono dispersi, invece, i sali, le sieroproteine, il lattosio e le vitamine. Pur tuttavia, le diverse fasi sono caratterizzate da una certa instabilità con la possibilità di una separazione individuale, sfruttata per la produzione di una vasta gamma di alimenti diversi, anche per proprietà nutritive, organolettiche e funzionali.
Il latte, comunque, è la prima ed esclusiva fonte di nutrimento per i mammiferi neonati ed è in grado di fornire tutte le sostanze necessarie nella fase d’intenso accrescimento che segue alla nascita. La composizione in maggiore o minore quantità degli elementi nutritizi, soprattutto relativa alle proteine e al calcio, è correlata alle esigenze fisiologiche e, in particolare, alla velocità di crescita, propria di ogni specie. La composizione del latte, quindi, varia tra i mammiferi in modo tale di soddisfare i tassi di sviluppo della prole, condizionata soprattutto dalla presenza delle proteine. Da notare, a tale proposito, che il latte umano è relativamente basso in proteine ​​e sali minerali, rispetto a quello della mucca e della capra.

Diversi sono i fattori dell’animale produttore alla base della composizione del latte, come la razza, la costituzione genetica e l'età, lo stadio della lattazione, l’intervallo tra le mungiture e anche lo stato di salute. Peraltro, l'ultimo latte estratto da ogni mungitura risulta più ricco di grassi. Di poi, il tipo di mangime, quando di scarsa qualità o in quantità insufficiente, determina sia una bassa resa sia una scarsa percentuale dei solidi totali.
            Il latte di capra ha circa la stessa composizione di nutrienti di quello di mucca, ma è completamente di colore bianco perché tutto il beta-carotene ingerito dall’animale con i mangimi viene convertito in vitamina A. In esso i globuli di grasso sono più piccoli e, quindi, rimangono in sospensione, in modo che, escludendo la necessità dell’omogeneizzazione meccanica, non si forma la crema. Il latte di capra è più facilmente digeribile e la sua cagliata è molto simile a quella del latte umano. Spesso è prescritto in caso di allergia alle proteine ​​del latte di mucca e per alcuni pazienti con l’ulcera peptica.
Il latte di pecora è, per suo conto, ricco di sostanze nutritive con buona percentuale di solidi totali, di proteine ​​e di grassi. Il latte di renna ha, invece, il più alto livello di nutrienti con il 36,7 per cento di solidi totali, il 10,3% di proteine ​​e il 22% di grassi. Questi alti contenuti in grassi e in proteine sono ottimi ingredienti per formaggi e altri prodotti lattiero-caseari.

            Il formaggio, in proporzione diretta con la derivazione animale del latte usato, contiene un’alta concentrazione di nutrienti essenziali. Esso è, comunque, un alimento molto energetico e corrisponde in media a 300 kcal per ogni 100 g. Anch’esso è composto principalmente da acqua, proteine e grassi, in proporzioni mediamente tra loro di 50:25:25. I rapporti sono, peraltro, variabili secondo la tipologia di latte impiegato e del tipo di lavorazione adoperato, come anche della durata di maturazione. Nel formaggio, per altro canto, l’acqua è scarsa, sia perché persa dal latte con la rottura della cagliata sia per la maturazione che determina la sempre maggiore consistenza del prodotto. La trasformazione della caseina rappresenta la fase più importante del processo di maturazione con formazione di aromi e variazione della tessitura e della consistenza del formaggio.
            Gli zuccheri del latte nella quasi totalità sono rappresentati dal lattosio, disaccaride poco solubile in acqua, composto dal b-galattosio e dall'a-b-glucosio. La lattasi è l'enzima che scinde il lattosio nelle sue componenti che, a loro volta, sono assorbite dal tratto digestivo. Gli individui con deficit della lattasi non riescono a metabolizzare il lattosio, andando incontro a una condizione denominata intolleranza al lattosio. Il disaccaride non metabolizzato e, quindi, non assorbito si accumula nel tratto digestivo, causando il disturbo intestinale.
Con la caseificazione i batteri fermentano lo zucchero che si separa nel siero, rimanendo solo in tracce nel formaggio a loro volta rapidamente fermentate dai batteri starter. Con la fermentazione lattica la cagliata si trasforma in formaggio e i batteri lattici trasformano il lattosio in acido lattico. Viene conferita, così, al formaggio un’iniziale proprietà acida che favorisce lo spurgo della cagliata. In seguito, l’acido lattico con il calcio da origine al sale lattato di calcio, per cui il formaggio diventa neutro.

            Le proteine del latte costituiscono per il 95% il pool delle sostanze azotate.  Il rimanente 5% è, invece, rappresentato da altri composti, come gli amminoacidi liberi, i nucleotidi, l’urea, l’ammoniaca e la creatina.
Le proteine presenti nel latte sono caseine e sieroproteine. Le ultime, presenti nel siero, sono le lattoalbumine, le lattoglobuline e i proteoso-peptoni, che sono poi eliminati con il siero. Le caseine sono fosfoproteine che precipitano per azione del caglio e per acidificazione del latte a pH 4.6. Esse sono stabili al calore e hanno una struttura aperta per cui sono facilmente soggette alla lisi enzimatica. Hanno la proprietà di aggregarsi tra loro, sia in presenza sia in assenza degli ioni calcio. I prodotti caseari dispongono di una quota proteica variabile dal 3 al 40%, anche in relazione inversamente proporzionale a quella lipidica. È degno di nota che la caseificazione tradizionale fa perdere ed eliminare le sieroproteine del siero. Pertanto, il valore biologico delle proteine del formaggio risulta leggermente inferiore a quello del latte. Le proteine, comunque, sono altamente digeribili poiché la caseificazione e la maturazione determinano un aumento dell’idrolisi delle caseine e un aumento della loro frazione solubile.
La caseina ​​nel latte costituisce, quindi, l’80% delle proteine. Essa è un potente polimero legante, usato anche come collante per fare mobili robusti o tenere etichette sulle bottiglie. È anche impiegato in molti alimenti trasformati, sempre come un legante. Pur tuttavia, la caseina per la salute può rivestire il ruolo di un potente allergene.
            I lipidi del latte sono secreti da cellule specializzate nelle ghiandole mammarie dei vari mammiferi. Essi possono variare sensibilmente in base al tipo di latte, se intero o scremato, oppure addizionato con crema. Contribuiscono a determinare l’alto apporto calorico del 49% dei prodotti che in alcune composizioni di latte scremato al 2% può ridursi al 35%. Costituiscono mediamente i 2/3 del formaggio dove costituiscono le calorie per il 74%, mentre nel burro lo sono per il 100%.

Il grasso del latte è composto principalmente dai trigliceridi, tre catene di acidi grassi collegati ad una singola molecola di glicerolo. Esso contiene per il 65% acidi grassi saturi, per il 32% monoinsaturi  e per il 3% polinsaturi. Le goccioline di grasso trasportano la maggior parte del colesterolo e della vitamina A. Pertanto, il latte scremato con rimozione di più del 99,5% del grasso contiene un significativo più basso tenore di colesterolo rispetto all’intero e precisamente nell’ordine di 2 mg per 100 grammi di latte, rispetto ai 14. Nei lipidi del formaggio sono presenti molti acidi grassi a catena corta e l’alta concentrazione di acido oleico ne favorisce un buon assorbimento.
            Il latte è una buona fonte di molte vitamine. Tuttavia, il contenuto di alcune di esse, come nel caso della vitamina C, è facilmente perduto con la pastorizzazione. La vitamina D si forma naturalmente nel grasso del latte mediante l’irradiazione ultravioletta, ma non in quantità tali da soddisfare le esigenze nutrizionali umane. Nel latte vi sono anche molte delle vitamine del gruppo B, come la riboflavina (B2) e in minore quantità la tiamina (B1) e la niacina. L'acido pantotenico, il folico, la biotina, la piridossina (B6) e la vitamina B12 si trovano solo in tracce.
La quota di vitamine dipende dal latte di produzione, specialmente per quanto riguarda quelle liposolubili. Quelle idrosolubili sono presenti nel formaggio in ordine solitamente inferiore rispetto al latte, perché in parte sono perdute con il siero. Pur tuttavia, durante la stagionatura del formaggio alcuni microrganismi possono provvedere alla sintesi di alcune vitamine del gruppo B.
Nei confronti delle vitamine bisogna precisare che:

  • Il latte materno e quello vaccino contengono scarse quantità di vitamina D.
  • La vitamina E è sufficiente nel latte materno, ma non in quello artificiale.
  • La vitamina K é insufficiente nel latte, ma viene sintetizzata nell'intestino del neonato. Un’integrazione è, quindi, necessaria nei neonati prematuri e in quelli alimentati artificialmente.
  • La vitamina C é sufficiente nel latte materno, ma non in quello vaccino e il suo contenuto diminuisce fortemente con la sterilizzazione.

Pur tuttavia, i rilievi sono relativi e per il latte vaccino dipendono dall'alimentazione della mucca e anche dal tipo di trattamento subito dal latte.  La pastorizzazione, difatti, riduce la quota vitaminica. Per il latte materno dipendono anche dalla dieta della genitrice e soprattutto dall’adozione di un'alimentazione equilibrata, ricca di frutta e verdura. Tali valutazioni, unitamente alla scarsità di vitamine degli alimenti moderni, impoveriti da eccessivi tempi di conservazione e tecniche colturali e di cottura, hanno stimolato la supplementazione vitaminica sia in gravidanza sia nell'allattamento, ma anche in età neonatale.
            Il latte e i latticini sono anche ricchi di minerali. In effetti, questi oligoelementi, presenti in piccole quantità, assumono un’importanza non trascurabile perché catalizzatori o componenti di alcuni enzimi e vitamine. Da notare, però, che nel latte vaccino il calcio risulterebbe sostanzialmente inutile perché in rapporto a un contenuto insufficiente di magnesio. Difatti, quelle nazioni con il più alto consumo di latte / latticini avrebbero anche per questo dimostrato i più alti tassi di osteoporosi. In particolare, il latte di donna, pur essendo meno ricco di circa tre volte di calcio e fosforo rispetto a quello vaccino, ne permette un migliore assorbimento. Così pure il sodio, il cloro e il potassio sono contenuti molto meno nel latte materno senza arrecare, in tal modo, un sovraccarico di funzione al rene del neonato per l’eccesso di elettroliti da eliminare. Il latte di donna contiene scarse quantità di ferro e di rame, ma quello di mucca ne è ancora più povero. D’altra parte, i due tipi di latte hanno quantità uguali di zinco, minerale di primaria importanza, mentre lo iodio è maggiormente presente nel latte materno. Quest’ultimo elemento, com’è noto, assume particolare importanza per la funzione tiroidea e, quindi, per lo sviluppo fisico e intellettivo del bambino. Infine, per quanto riguarda il cloruro di sodio bisogna considerare la sua presenza nei latticini anche in rapporto alla salatura usata nel processo di caseificazione. Pur tuttavia, i minerali contenuti principalmente e in quantità importante nel latte sono il calcio e il fosforo. Il magnesio, il potassio, il cloruro, il sodio, lo zolfo, il rame, lo iodio e il ferro sono contenuti in quantità minori. Anzi, proprio per quanto riguarda il ferro, la sua scarsità impedisce, in effetti, di definire il latte un alimento completo.
Il contenuto di tutti i minerali e vitamine nei prodotti lattiero caseari è di fondamentale importanza per garantire l'ottimale funzionamento del metabolismo corporeo. In particolare, il latte è comunemente associato con il fabbisogno di calcio, ma è pur anche la fonte di magnesio, di cui l’organismo ha molta necessità. Questi due minerali coprono entrambi ruoli importanti, alcuni dei quali simili ma altri complementari. Di certo, è necessario ottenere attraverso le fonti alimentari la giusta dose di ognuno per assicurare quel bisogno adeguato per una buona salute. Il calcio, peraltro, è il minerale più abbondante del corpo e il magnesio è il quarto. Entrambi contribuiscono in modo significativo alla salute delle ossa in cui è immagazzinato quasi il 99% del primo e il 50% del secondo. Questi due minerali sono, peraltro, elettroliti essenziali che intervengono a mantenere un adeguato equilibrio dei liquidi nel corpo e la bassa pressione sanguigna. Tendono a prevenire gli spasmi muscolari, l’irregolarità del battito cardiaco e a regolare le funzioni nervose. Agli adulti tra i diciannove e i cinquanta anni è consigliato il consumo di 1.000 mg di calcio il giorno, mentre in seguito, per il deterioramento della massa ossea con l'età e il rischio di osteoporosi, l'assunzione dovrebbe raggiungere i 1.200 mg. Peraltro, oltre al calcio, è necessario un adeguato apporto giornaliero di vitamina D, dai 400 alle 1.000 UI il giorno, che aiuta ad assorbire il calcio correttamente. Per quanto riguarda, invece, il magnesio, la dose giornaliera raccomandata per gli adulti tra i diciannove ei trenta anni è dai 310 ai 400 mg il giorno. Dopo i trenta anni, l'apporto dovrebbe essere di 320-420 mg. A tale proposito, è bene ricordare che si è più sensibili alla carenza di magnesio in corso di terapia con diuretici o in caso di problemi dell’assorbimento intestinale, come nel morbo di Crohn. Una tazza di latte a basso contenuto di grassi all’1% fornisce generalmente una quantità di 305 mg di calcio e di ventisette di magnesio. Tale quota, in conformità a una dieta da 2000 calorie il giorno, rappresenta il 30% del calcio giornaliero consigliato e il 7% del magnesio. Da notare che la rimozione del grasso dal latte non influisce sul suo contenuto in minerali. Pur tuttavia, una dieta sana ed equilibrata soddisfa generalmente la maggior parte del fabbisogno di calcio e magnesio. Alimenti ricchi di calcio sono, in effetti, il latte, che per 226 gr ne fornisce 297 mg, lo yogurt magro che per 226 gr ne fornisce 415 mg e il formaggio cheddar che per 42 gr ne fornisce 306 mg. Fonti non caseari di calcio sono i broccoli crudi, gli spinaci cotti e i cereali fortificati. Fonti di magnesio sono la frutta a guscio, come le mandorle e gli anacardi con i 50 sino agli 80 mg di calcio in ogni 28 gr. Il calcio, come già enunciato, è il principale responsabile della struttura e della forza delle ossa e dei denti. È presente anche nel sangue e nei fluidi dell’organismo dove svolge un ruolo nella contrazione muscolare, nella vasocostrizione e vasodilatazione, nella trasmissione dell'impulso nervoso e nella secrezione degli ormoni, come l'insulina. Il magnesio, per sua parte, è importante anche per garantire la robustezza ossea e contribuisce al metabolismo minerale e alla forza della matrice collagene nel centro delle ossa. Prende, peraltro, parte a più di 300 reazioni metaboliche, come quelle per la produzione dell’energia, per la sintesi proteica e per la comunicazione cellulare.
In definitiva, il calcio e il magnesio sono minerali importanti necessari per sostenere soprattutto la salute scheletrica, ma anche quella cardiovascolare e del sistema neurologico.


Il controverso rapporto tra prodotti lattiero caseari e salute

Nei primi anni del 20° secolo, nelle società industrializzate si è andata consolidando la preoccupazione sullo sviluppo delle malattie determinate e trasmesse dal latte e derivati. Da una parte, nell'intenzione di distruggere i microrganismi che causano infezione, si è consolidato e diffuso il processo della pastorizzazione con il riscaldamento del latte a temperature molto elevate. Si è anche esteso, come metodo di conservazione del latte, l’uso del latte in polvere con rimozione di tutta l'umidità. Dall’altra parte, è stata dimostrata, ma non sempre, una protezione nell’assunzione dei latticini sui fattori di rischio cardiometabolici, come l’obesità viscerale, l’ipertensione, l’iperdislipidemia, la resistenza insulinica. È stato anche dimostrato l'effetto della supplementazione del calcio sulla perdita di peso.
Di certo, i latticini, fornendo quote necessarie di calcio e vitamina D, sono considerati vantaggiosi per la salute delle ossa e dei denti, dimostrandosi di sostegno per la prevenzione dell'osteoporosi. In tal modo, questi alimenti nei primi anni di vita e sino al raggiungimento dell’età dei vent’anni, corrispondente al picco della massa ossea, risultano, invero, particolarmente importanti. Peraltro, i prodotti lattiero-caseari sono anche fonte di fosforo, magnesio e proteine, sostanze tutte utili per la salute delle ossa.
Essi, inoltre, sono vantaggiosi anche per la salute cardiovascolare, come dimostrato in alcuni studi scientifici sull’associazione tra l’aumento del loro consumo e la riduzione del rischio d’ipertensione. Infine, altri nutrienti, come il potassio e il magnesio, presenti nei prodotti caseari con il calcio, hanno anch’essi effetti sui lipidi del sangue e sul peso corporeo, coadiuvando nella protezione contro le malattie cardiache.
Ancora, il consumo dei prodotti lattiero-caseari può anche contribuire a ridurre il rischio di soffrire della sindrome metabolica, riducendo, quindi, le probabilità d’incidente di malattie cardiache, ictus, o diabete.
Su tali premesse, i prodotti caseari sono inseriti nei programmi di numerose diete. Pur tuttavia, è importante considerare i loro effetti reali sulla salute e avere una visione equilibrata dei loro provati benefici nutrizionali.
Difatti, mentre molti studi hanno dimostrato i benefici dei prodotti lattiero-caseari, altri hanno anche sollevato dubbi sulla loro indispensabilità nella dieta, considerandoli anzi dannosi. A tale proposito, già vige la raccomandazione di non nutrire i bambini sotto l’anno di età con latte di mucca per la probabile carenza di ferro, consequenziale a una dieta ricca di calcio. Inoltre, è stato più volte ribadito che l’assunzione eccessiva con il latte vaccino di proteine​​, zuccheri e grassi favorirebbe lo sviluppo di malattie croniche, come l'obesità, le cardiopatie e il diabete.
In aggiunta a tutto questo meritano una considerazione a parte le possibili sostanze contaminanti che potrebbero inquinare il latte, come gli antibiotici, i pesticidi e gli ormoni sintetici. Tutte sostanze con effetto nocivo sulla salute, specialmente se protratte nel tempo. A proposito degli ormoni, bisogna poi considerare che non solo essi sono naturalmente presenti in più forte quantità nel latte di mucca rispetto a quello umano, ma che agli animali sono somministrati di routine steroidi e altri composti del genere per aumentare il loro peso e incrementare la produzione del latte. Il latte di mucca può, in effetti, contenere diversi ormoni attivi, decine di allergeni, grassi e colesterolo. Peraltro, il mangime commerciale per le mucche può contenere tutti i tipi d’ingredienti che includono generi di mais geneticamente modificati (OGM), soia OGM, pesticidi e antibiotici. Possono essere presenti, anche fino a 200 volte i livelli di sicurezza, quantità misurabili di erbicidi, pesticidi, diossine e diversi antibiotici. Talvolta ci sono tracce di sangue, pus e virus. Purtroppo, nel latte vaccino vi sono anche tracce di feci dell’animale, che costituiscono una fonte importante di batteri. Inoltre, il latte di mucca può avere qualsiasi traccia di composto che l’animale ingerisce, come anche residui di fallout radioattivo da test nucleari.
Da notare ancora che i prodotti lattiero-caseari, quando metabolizzati, producono acidi che tendono ad alterare l’equilibrio biochimico del pH del sangue normale a 7,365. L’alimentazione eccessiva dei prodotti che formano acidi può, in tal modo, richiedere un eccessivo bilanciamento con il rilascio del calcio alcalino delle ossa e causare, così nel tempo, la fragilità delle ossa.
In effetti, la ricerca ha dimostrato che nei paesi ad alto consumo di prodotti lattiero-caseari si risconta la più alta incidenza di osteoporosi con maggiore frequenza di fratture dell'anca, rispetto a quelli che consumano meno calcio. Peraltro, per mantenere il livello normale del calcio nelle ossa è fondamentale prevenirne la perdita che si realizza in caso di una dieta ricca di proteine​​. Questo perché le proteine​​, e specialmente quelle derivate ​​dalle fonti animali, rendono l'urina acida che richiama, come compenso, il calcio dalle ossa.
A completamento di quanto riportato, bisogna considerare anche che il latte generalmente consumato proviene da vacche confinate in spazi chiusi, non igienici, senza aperture sui pascoli di erba verde. Peraltro, il loro latte subisce la pastorizzazione che, oltre che eliminare i batteri potenzialmente nocivi, distrugge anche le vitamine, le proteine ​​e gli enzimi. Questi ultimi, di particolare aiuto nel processo della digestione, una volta assenti la rendono più difficile. Infine, i prodotti caseari tendono a formare il muco, per cui possono contribuire a produrre anche disturbi respiratori.
In ultima analisi, il latte vaccino costituisce un argomento di dibattito in campo nutrizionale volendo alcuni considerarlo espressione alimentare destinata unicamente ai piccoli della specie e non di certo all’uomo. Le argomentazioni portate in tale contesto ribadiscono che esso é troppo ricco di grassi, di colesterolo e di proteine per l’uomo, tanto da poter essere causa di malattie croniche. Gli effetti di un aumentato consumo di latte e latticini sulla salute sarebbero, quindi, simili a quelli provocati dall’aumento del consumo di altri prodotti animali, come la carne e lo strutto. Peraltro, il grasso rimosso nella produzione dei latticini a basso contenuto di grassi è messo in commercio come burro, panna, gelati o inserito in cibi confezionati. Da notare ancora che il latte contiene diverse sostanze che possono causare allergia e che si digerisce con difficoltà sino a costituire causa di disturbi intestinali, soprattutto nel caso d’incapacità di attaccare il lattosio. Anche la caseina, principale sua proteina, è indigesta, ma anche aterogenica. La lattoglobulina, proteina ad alto potenziale allergenico, non essendo demolita facilmente dal caldo e nemmeno dagli enzimi del corpo diventa poi motivo di putrefazione intestinale. La presenza nel latte di prolattina, di IGF1, di estrogeni e di altri ormoni costituisce, ancora, motivo di aumentato rischio per alcune neoplasie maligne. Il latte può contenere inquinanti di ogni specie, nocivi per la salute. Peraltro, il suo alto contenuto in grassi, soprattutto trasferito nei formaggi, favorirebbe le malattie croniche degenerative. Pur tuttavia, la particolare composizione del latte vaccino, più energetico e ricco di sostanze anche ormonali di quello umano, è stata indicata come possibile fattore di accelerazione dell’accrescimento dei bambini che si tradurrebbe nel corso degli anni, in una riduzione della sopravvivenza secondo quanto si constata in natura che gli animali a crescita più rapida muoiono prima.


Prodotti lattiero-caseari e biomarcatori dell’infiammazione

Labonté MÈ della Laval University, Quebec - Canada e collaboratori, sulla base dei dati sul consumo dei prodotti lattiero-caseari associato inversamente con un basso grado dell’infiammazione sistemica, hanno voluto esaminare i risultati degli studi randomizzati e controllati d’intervento nutrizionale sull'impatto del consumo di latticini, come latte, yogurt, e / o formaggio, sui biomarcatori dell’infiammazione in adulti di età uguale o superiore ai diciotto anni (Am J Clin Nutr. 2013 Apr;97(4):706-17). Gli Autori hanno, così, eseguito una ricerca sistematica in letteratura nel mese di aprile 2012, limitata agli studi randomizzati e controllati sugli esseri umani, pubblicati in inglese, escludendo quelli con donne in gravidanza o in allattamento. Erano inclusi, quindi, otto studi condotti in adulti in sovrappeso o obesi e l'unico, che indicava come misura di esito primario il cambiamento del profilo infiammatorio, mostrava che il consumo di latte alimentare aveva migliorato le concentrazioni dei biomarker pro e anti-infiammatori, rispetto alla dieta di controllo a basso contenuto di latticini. Dopo consumo di latticini, tre dei sette studi in cui l'infiammazione era un risultato secondario o indefinito mostravano, invece, un miglioramento dei biomarker infiammatori di riferimento, quali la proteina C-reattiva, l’IL-6, il TNF-α, mentre gli altri quattro non avevano mostrato alcun effetto.
            In conclusione, secondo la revisione degli Autori, il consumo di latticini negli adulti in sovrappeso o obesi non avrebbe mostrato alcun effetto negativo sui biomarcatori dell’infiammazione. Pur tuttavia, i diversi fattori metodologici e le limitazioni, che si evidenziavano tra gli studi esistenti, non consentivano la differenziazione tra un impatto positivo o indifferente dei prodotti lattiero-caseari. Questo dato portava gli studiosi a stimolare ulteriori ricerche specificamente progettate nei meriti.


Allergia e intolleranza al latte e derivati

Gli svantaggi del latte appaiono, comunque, soprattutto in chi soffre di allergie o intolleranze al lattosio.
Quando l’organismo non produce abbastanza lattasi, l'enzima che scinde il lattosio, si produce un quadro clinico da intolleranza con sintomi intestinali fastidiosi. Bisogna, quindi, rivolgersi a fonti alternative di calcio e vitamina D, come il latte a base di soia. Le verdure, peraltro, come gli spinaci, i broccoli e il pane forniscono anche il calcio. I prodotti vegani, ad esempio, non contengono sottoprodotti di origine animale, quindi, sono una fonte di alimenti senza latte. Comunque, è bene ricordare a chi è affetto dai problemi che si riferiscono al consumo dei latticini di leggere con attenzione tutte le etichette degli alimenti per verificare l’assenza di lattosio nella composizione del prodotto.  
In effetti, i mammiferi hanno bisogno della lattasi, enzima che serve a digerire il lattosio del latte. È un dato di fatto che nell’uomo, tra i diciotto mesi e i quattro anni di età, si perde dal 90 al 95% di questo enzima. In tal modo, si diventa per la maggior parte dei casi intolleranti al lattosio. Già nel 1965 sono state descritte notevoli differenze razziali nella prevalenza del malassorbimento del lattosio in conformità a ipotesi genetiche casuali o di qualche altro processo di selezione che ha portato alcune comunità a intraprendere la produzione dei prodotti lattiero-caseari e l'uso del latte come un alimento principale. Le persone aberranti di tali gruppi avrebbero, di poi, potuto godere di un notevole vantaggio selettivo. Difatti, oltre a una maggiore sopravvivenza, è stato suggerito che chi manteneva la possibilità di usufruire della lattasi e, quindi di digerire il lattosio, avrebbero potuto sperimentare anche un piccolo vantaggio nell’allevamento del bestiame.
Pur tuttavia, questo disturbo intestinale si esprime clinicamente con sintomi sino a vere e proprie coliche, infezioni dell'orecchio, problemi respiratori e dermopatie. Peraltro, possono aggiungersi problemi dell’accrescimento, acne, disturbo da deficit dell’attenzione, deficit di attenzione e iperattività, sindrome del colon irritabile e ansia.
In effetti, la maggior parte dei mammiferi smette di bere latte subito dopo lo svezzamento e nella maggior parte degli individui, in generale anche in alcune razze umane, il gene per la lattasi viene a cessare con l’età con riduzione irreversibile nell’espressione dell’enzima intestinale. Viene, così, a perdersi la capacità di digerire il lattosio. Pur tuttavia, nella maggioranza dei cittadini dell’Europa settentrionale questo gene rimane attivo come tratto mendeliano dominante e ben oltre il 90% di essi durante tutta la propria vita riesce a consumare quantitativi relativamente elevati di latte. A tal proposito, in effetti, sono state descritte notevoli differenze razziali sulla prevalenza del malassorbimento del lattosio con vantaggi sulla sopravvivenza e sull’allevamento. Anche in Africa e Medio Oriente, ma non ubiquitariamente, si sono dimostrate alcune presenze di pastori con alte frequenze di LP. Il gene per l’enzima lattasi, denominato LCT, è localizzato nel cromosoma 2 ed è formato da 50 kb. Esso presenta nella sua sequenza 17 esoni. Gli individui lattasi persistenti sono quelli che hanno subito una mutazione nel gene regolatore dell’enzima lattasi, per cui riescono a digerire il lattosio anche in età adulta. Gli individui lattasi non persistenti, invece, sono quelli che non hanno subito la mutazione, per cui dallo svezzamento in poi hanno una produzione limitata dell’enzima. La mutazione coinvolge un singolo nucleotide situato a 14 Kb prima del punto d’inizio della trascrizione della lattasi, precisamente in un introne adiacente al gene MCM6. Essa è dovuta a un polimorfismo nella posizione C/T 13910 secondo il database ed è una sostituzione del nucleotide C à T in un punto del gene regolatore dello LCT. Nella popolazione europea si ritrovano tre genotipi:

  • 13910 TT con frequenza di circa il 40% e nessun segno di PLI (intolleranza primaria al lattosio),
  • 13910 TC con frequenza di circa il 45% portatore, ma con nessun segno di PLI,
  •  13910 CC con frequenza di circa il 15% con predisposizione genetica per il PLI.

L’allele con la base T è dominante rispetto a quello con la base C. Quindi, solo al genotipo CC è dato di manifestare l’intolleranza al lattosio. Si è ipotizzato che la frequenza attuale in Europa dello LP sarebbe il risultato di un processo di selezione relativamente recente, in diretto rapporto con i vantaggi biologici che probabilmente includono la continua disponibilità di una bevanda energetica e ricca di calcio, necessaria per una comunità agricola per superare le indigenze derivate dagli scarsi raccolti. L’alta frequenza dell’allele per la persistenza della lattasi potrebbe essere, quindi, il risultato di anni di selezione naturale che hanno favorito le popolazioni del neolitico, dedite alla pastorizia.
La prevalenza dell’intolleranza primaria al lattosio varia, quindi, in base alla razza. Secondo le stime attuali raggiunge ben il 25% della popolazione bianca, soprattutto con radici nell'Europa meridionale. Nella popolazione mondiale è, invece, di circa il 75%, essendo molto più comune tra gli asiatici, sudamericani, africani, in cui raggiunge il valore del 75-90%. L'intolleranza al lattosio non è letale e dimostra una bassa morbilità con possibile effetto di un’osteopenia come sua complicanza.  Non vi sono condizioni preferenziali per il sesso e le donne in cinta, intolleranti al lattosio, nel 44% dei casi riacquistano la capacità di digerirlo durante la gravidanza. L’età d’insorgenza è comunemente tra i venti e i quaranta anni. I sintomi includono soprattutto: dischezia, gonfiore e dolore addominale, flatulenza, nausea e borborigmi.
D’altro canto, quando il sistema immunitario risponde erroneamente ai prodotti lattiero-caseari si verificano le reazioni allergiche, che nei bambini sono le forme più diffuse tra quelle alimentari. Le allergie al lattosio possono causare problemi cutanei con un’angioedema, un’orticaria rossa sul petto con protuberanze gonfie, pruriginose o urenti, oppure una semplice eruzione cutanea, o un eczema con prurito e/o bruciore peri orale e/o al viso, alle braccia, alle gambe e al cuoio capelluto. Possono comparire difficoltà respiratorie per edema delle vie respiratorie con dispnea, tosse, starnuti, rinorrea e attacchi di asma. I problemi digestivi sono comuni nell’allergia da latte e comprendono: crampi addominali, diarrea, meteorismo con senso di gonfiore addominale, flatulenza e nausea. Può anche verificarsi una condizione di anafilassi con perdita della coscienza e arresto respiratorio. I sintomi, peraltro, compaiono da pochi minuti a due ore dopo l’ingestione di un latticino e la loro gravità è correlata alla quantità utilizzata.. Nei casi di particolare gravità si possono verificare eruzione di vesciche e di vere piaghe con trasudazione.
            L'EAACI (European Academy of Allergy and Clinical Immunology) ha di recente elaborato le linee guida su come prevenire e gestire le allergie alimentari sulla base di una revisione sistematica sulla prevenzione delle allergie alimentari (EAACI Food Allergy Primary prevention Guideline. 30.3.2013). Antonella Muraro dell’Università di Padova ha partecipato alla loro stesura, come parte italiana, per fornire la sinossi state-of-the-art sulla base dei dati attuali in materia di epidemiologia, di prevenzione, di diagnosi e di gestione clinica e dell'impatto sulla qualità della vita, che sono stati utilizzati per produrre le raccomandazioni cliniche. Lo scopo della revisione sistematica è stato quello di valutare l'efficacia degli approcci per la prevenzione primaria delle allergie alimentari, come quelle del latte, delle uova, degli arachidi e della frutta a guscio. Esse, in effetti, possono avere non solo un effetto significativo sulla qualità della vita e sulla funzionalità fisica delle persone, ma possono anche essere molto costose per la sanità pubblica.
Data la morbilità risultante dalle allergie alimentari, vi è un notevole e crescente interesse scientifico nei meriti per ottenere risultati favorevoli che possano ridurne il rischio. A tale scopo sono proposti continuamente diversi interventi prenatali, perinatali, neonatale e nell'infanzia. Le linee guida dell'EAACI sono state approntate proprio per raccomandare come prevenire e gestire le allergie alimentari.
In verità, con “ipersensibilità alimentare” si tende a descrivere una qualsiasi reazione avversa al cibo, mentre con “allergia alimentare” ci si riferisce a un sottogruppo di reazioni in cui vengono implicati i meccanismi immunologici, anche con eziologia IgE-mediata, non IgE-mediata, o che coinvolgono una combinazione di IgE e non IgE-mediate. Tutte le altre reazioni al cibo, a volte indicate come intolleranza alimentare, costituiscono, invece, le reazioni di ipersensibilità alimentari non allergiche.
Sulla base delle evidenze acquisite dall’analisi degli studi, le linee guida dell’EAACI forniscono alcuni consigli su come prevenire l'allergia alimentare, soprattutto nei riguardi dei bambini ad alto rischio di sviluppo della malattia allergica. Durante la gravidanza e l'allattamento è espressa la raccomandazione per tutte le madri di seguire una normale dieta salutare senza restrizioni e per tutti i  neonati di essere allattati esclusivamente al seno per i primi 4-6 mesi di vita. Se l'allattamento al seno è insufficiente o impossibile per i primi quattro mesi, si dovrebbe provvedere nei neonati ad alto rischio con una formula ipoallergenica. Oltre i quattro mesi non si esprime la necessità di evitare l'introduzione di alimenti complementari. Peraltro, non ci sono prove sull'uso degli integratori per la prevenzione delle allergie alimentari, come i prebiotici o i probiotici.
Bisogna, comunque, considerare che negli ultimi decenni, l'allergia alimentare ha assunto sempre maggiore importanza nella assistenza sanitaria e vi sono dati della letteratura che segnalano un suo progressivo aumento di prevalenza e della riduzione della qualità di vita dei pazienti. In verità, vi sono scarsi e poco affidabili dati di aggiornamento sull’epidemiologia delle allergie alimentari in Europa.
            Nwaru BI dell’University of Edinburgh – UK e collaboratori, per capire e descrivere l'epidemiologia delle allergie alimentari, cioè la loro frequenza con i fattori di rischio e i risultati di cura sui pazienti con le caratteristiche individuali, di luogo e di tempo, hanno sviluppato una strategia di ricerca altamente sensibile, recuperando articoli della letteratura nei meriti (Clin Transl Allergy. 2013 Apr 1;3(1):13). La ricerca è stata realizzata combinando i concetti di allergia alimentare in Europa con l’epidemiologia da banche dati bibliografiche elettroniche. La prevalenza di allergia alimentare autoriferita è risultata (%, IC 95%) di:

  • Per tutti 17.3 (17.0-17.6).
  • Per i bambini da zero a17 anni 17.4 (16.9-18.0).
  • Per gli adulti dai 18 anni e oltre 17.2 (16.0-17.6).
  • Per l’Europa occidentale 23.8 (22.9-24.7).
  • Per l’Europa orientale 41.6 (39.5-43.7).
  • Per l’Europa meridionale 30.3 (28.7-31.9).
  • Per l’Europa settentrionale 19.2 (18.6-19.8).

            Per altro canto, a proposito dei minerali è bene ricordare che il latte di mucca, utilizzato spesso per lo svezzamento dei bambini come loro principale fonte di calorie, è la più comune causa di anemia da carenza di ferro. In effetti, il latte è carente di questo minerale che può anche legarsi con quello che si trova in altri alimenti, con intralcio all'assorbimento. Inoltre, la reazione infiammatoria contro il latte, che spesso avviene nei neonati e nei bambini, può anche causare un sanguinamento digestivo occulto con consequenziale stillicidio di sangue e anemia. D’altronde, il latte materno è perfettamente progettato per i piccoli esseri umani, mentre quello vaccino lo è per i vitellini da latte.
            J. Burger della Johannes Gutenberg University, Mainz – Germany e collaboratori, proprio considerando che la persistenza della lattasi (LP) negli adulti, conferita come capacità di digerire il lattosio con tratto dominante mendeliano, negli ultimi ventimila anni si è confermata frequente nell’Europa centro-settentriomale, hanno sviluppato una strategia a tappe per l'ottenimento del DNA antico nucleare affidabile da antichi scheletri (Proceedings of the National Academy of Sciences of the United States of America [2007, 104(10):3736-3741]. Gli Autori hanno, così, ottenuto dati in base a:

  • la selezione di scheletri provenienti da siti archeologici che avevano mostrato ottima conservazione biomolecolare,
  • l’ottenimento di sequenze di DNA mitocondriale umano altamente riproducibili,
  • l’affidabilità dello STR (short tandem repeat) dei genotipi degli stessi campioni.

Applicando questa strategia sperimentale, ottenevano, così, un’alta fiducia di associazione LP in otto resti umani neolitici e uno mesolitico, utilizzando una serie di criteri rigorosi per il lavoro dell’antico DNA su cinquantacinque campioni di ossa appartenenti a otto soggetti neolitici risalenti a circa il 5.500 aC.
Gli Autori, peraltro, non osservavano l'allele più comunemente associato con lo LP negli europei, ottenendo, così, la prova per l'ipotesi culturale storica e indicando che lo LP era raro nei primi agricoltori europei. Questa caratteristica era probabilmente quella che conferiva un vantaggio selettivo agli individui che consumavano quantità apprezzabili di latte fermentato. Difatti, alcuni hanno sostenuto l’ipotesi culturale storica secondo la quale gli alleli LP sarebbero stati rari all'inizio del neolitico fino all'avvento della cultura casearia, per poi salire rapidamente di frequenza con la selezione naturale.
Altri, invece, hanno preferito l’ipotesi inversa, in base alla quale la cultura casearia sarebbe stata adottata dalle popolazioni con frequenze elevate preadattative dell’allele LP. L’analisi, basata sulla conservazione degli aplotipi del gene della lattasi, indicherebbe, comunque, un’origine recente e coefficienti di selezione elevati per lo LP, anche se non è stato possibile affermare se le prime popolazioni europee neolitiche fossero state lattasi persistenti a frequenze apprezzabili.
            In conclusione, secondo i dati ottenuti, la mutazione nel gene lattasi risultava assente, suggerendo che la capacità di digerire il lattosio e, quindi, di consumare quantità virtualmente illimitate di latte si era probabilmente sviluppata negli ultimi 7000 anni. L'alta prevalenza della mutazione all'interno delle comunità dell'Europa settentrionale era, peraltro, coerente con il notevole vantaggio acquisito per la sopravvivenza.
            D’altro canto, Amel Lamri dell’Univ. Paris Diderot – France e collaboratori, si sono posti l’obiettivo di testare l'associazione dello rs4988235 con la BMI e le malattie metaboliche correlate nell’interazione con il consumo dei latticini (Nutrition (impact factor: 3.03). 12/2012; DOI:10.1016/j.nut.2012.08.013). Tutto ciò sulla base che l'allele T del polimorfismo funzionale (rs4988235: LCT-13910 C> T) in prossimità del gene della lattasi correla negli adulti con la persistenza della lattasi (LP). Il dato derivava anche dalla considerazione sugli studi trasversali in cui il genotipo LP (TT + TC) era stato associato con una BMI (body mass index) più alta nelle popolazioni europee e che nella coorte francese del D.E.S.I.R. (Data from an Epidemiological Study on the Insulin Resistance syndrome) un elevato consumo di latticini si era associato oltre i nove anni con un guadagno di peso corporeo più basso e con una minore incidenza di elevati livelli di glucosio nel plasma e / o la sindrome metabolica. Gli studiosi genotipizzavano e seguivano per oltre nove anni 3.575 caucasici dei 5.212 soggetti del DÉSIR nati nella Francia continentale. Quelli con il genotipo LP (frequenza: 78,5%) al momento dell’inclusione e alla data dei nove anni rispondevano a un più elevato consumo di latticini, (P <0,001). Avevano anche un indice di massa corporea superiore nelle due rilevazioni di tempo (differenza = 0,3 kg / m 2, P = 0.05). Pur tuttavia, questo effetto era limitato al medio / alto consumo dei prodotti lattiero-caseari (differenza = 0,5 kg / m 2, P = 0,006). Questo genotipo si associava anche con la sindrome metabolica, secondo la definizione IDF (International Diabetes Federation), che, però, scompariva dopo aggiustamento per la BMI. In tutta la popolazione l'allele C si associava, peraltro, con una più alta prevalenza di alterata glicemia a digiuno e / o diabete di tipo 2.
            In conclusione, la persistenza del genotipo lattasi si associava nello studio longitudinale con una BMI più alta, soprattutto in coloro che consumavano elevate quantità di latticini.
            In particolare, Ricardo Almon dell’Örebro University, Sweden e collaboratori hanno voluto analizzare con randomizzazione mendeliana negli abitanti delle isole Canarie della Spagna la potenziale associazione della LP rispetto alla non persistenza della lattasi (LNP) con la BMI (PLoS ONE (impact factor: 4.09). 01/2012; 7(8):e43978). Tutto ciò in relazione della provata associazione positiva tra il genotipo LCT -13.910 C> T, rs4988234, relativo alla tolleranza europea al lattosio, con gli indici di massa corporea (BMI) in una meta-analisi di 31.720 individui di discendenza del nord e centro Europa. Peraltro, era stata già evidenziata in una popolazione mediterranea spagnola una forte associazione di persistenza della lattasi (LP) con l’indice di massa corporea e l’obesità. Gli Autori hanno, così genotipizzato per il polimorfismo LCT - 13910 C> T un campione casuale di 551 adulti dell’ENCA (Canary Islands Nutrition Survey) in Spagna, di età compresa tra i diciotto e i settantacinque anni. Il consumo di latte era valutato mediante un questionario validato. Le variabili antropometriche erano misurate direttamente ed era utilizzata la classificazione WHO della BMI.
            Gli individui LP erano significativamente più obesi rispetto a quelli LNP (χ (2) = 10.59, p <0.005) e in un’analisi di regressione lineare multivariata mostravano un'associazione positiva con la BMI rispetto agli LNP, (β = 0.96, IC 95%: 0,08-1,85, p = 0,033). Peraltro, in un'analisi di regressione logistica multinomiale i soggetti LP di normale peso dimostravano un odds ratio per l'obesità di 2,41, IC 95% 1,39-418, (p = 0.002), rispetto a quelli LNP.
Il polimorfismo T-13910 dell'allele LCT-13910 C> T si associava positivamente con la BMI. Pertanto, lo LP aumentava significativamente il rischio di sviluppare l'obesità nella popolazione studiata.


Cheeseburger, soda, patatine fritte e malattia di Alzheimer

La malattia di Alzheimer sporadica (AD) è caratterizzata in parte dall’accumulo dei peptidi della β-amiloide (Aβ) nel cervello, legati ai lipidi o alle proteine ​​di trasporto di essi, come l’apolipoproteina E (ApoE), oppure essere liberi in soluzione (lipid-depleted [LD] Aβ). I livelli di LD Aβ sono più elevati nel plasma degli adulti con AD, ma meno si sa su questi peptidi nel liquido cerebrospinale (CSF). La comprensione dell'ambiente lipidico in cui l’Aβ sussiste insieme a come modulare lo stesso rappresenta un momento di particolare interesse poiché LD Aβ è più probabile che formi oligomeri neurotossici.
Un meccanismo che potrebbe influire sulla lipidazione dell’Aβ potrebbe essere quello di alterare la concentrazione o la funzione delle apolipoproteine ​​leganti l’Aβ. Differenti alleli delle APOE influenzano il rischio dell’AD. La presenza di un allele ε4 rappresenta un rischio per l'AD (indicato come E4 + se presente ed E4-se assente). Invece, l'allele ε2 è protettivo. Gli adulti con stato di E4 + hanno, quindi, livelli più elevati di amiloide cerebrale, suggerendo che la proteina ApoE gioca un ruolo nella clearance dell’Aβ. Studi in coltura cellulare e in animali hanno dimostrato che la funzione dell’ApoE dipende dalla misura in cui si associa con i lipidi (stato di lipidazione) e che l’isoforma ApoE4 è meno lipidata e meno in grado di legare e liberare l’Aβ. Poco, invece, si sa circa la LD ApoE nel CSF umano. Un altro modo per alterare la lipidazione dell’Aβ è quello attraverso la dieta. Le diete ricche di livelli di grassi saturi, colesterolo e zuccheri semplici sono stati implicati nella patogenesi dell’AD e nell’aumento chimico dell’amiloide cerebrale dei modelli animali. Si è ipotizzata un’alterazione cerebrale nel segnale dell'insulina come meccanismo con cui queste diete possono influenzare il sistema nervoso centrale, poiché l'insulina può essere coinvolta nella clearance dell’Aβ.
            Hanson AJ dell’University of Washington School of Medicine e collaboratori, hanno tratto spunto per un loro studio proprio dalla considerazione che la malattia di Alzheimer sporadica (AD) è causata in parte dalla diminuzione della clearance dei peptidi prodotti dalla degradazione della β-amiloide (Aβ). Peraltro, le apolipoproteine LD (lipid-depleted) ​​presentano una minore efficacia di legame e di clearance dell’Aβ e i peptidi LD Aβ sono più tossici per i neuroni. Gli Autori hanno, così, voluto chiarire meglio lo stato di lipidazione di queste proteine e dell’apolipoproteina E ​​nel liquido cerebrospinale di adulti in rapporto alla diagnosi cognitiva, dello stato di portatore dell’allele ε4 e dopo un intervento dietetico (JAMA Neurol. 2013 Jun 17:1-9). Hanno reclutato venti adulti più anziani di età media di sessantanove anni con funzioni cognitive normali e ventisette con decadimento cognitivo lieve amnesico sempre di età media di sessantasette anni. Hanno, quindi randomizzato i partecipanti a una:

  •  dieta ad alto contenuto di grassi saturi e con un alto indice glicemico (HD con il 45% di energia da grassi e più del 25% da grassi saturi, il 35 -40% da carboidrati con indice glicemico medio maggiore di settanta e il 15 -20% di proteine, come da tipici piatti a base di cheeseburger, soda e patatine fritte,
  • dieta a basso contenuto di grassi saturi e con un indice glicemico basso (LD con il 25% di energia da grassi e meno del 7% da grassi saturi, il 55 -60% dai carboidrati con un indice glicemico medio minore di cinquantacinque e il 15 -20% di proteine, come da pesce bollito, riso e verdure al vapore.

Le diete erano equivalenti in termini di calorie e tutti i pazienti hanno mantenuto il loro peso corporeo durante lo studio di quattro settimane. L'aderenza alla dieta, comunque, si dimostrava eccellente per entrambi i gruppi.
I principali risultati e misure erano gli LD Aβ42 e Aβ40 e l’apolipoproteina E nel liquido cerebrospinale.
I livelli basali di LD Aβ erano maggiori negli adulti con decadimento cognitivo lieve rispetto agli adulti con cognizione normale (LD Aβ 42, P = .05; LD Aβ 40, P = .01). Questi risultati si amplificavano in quegli adulti con decadimento cognitivo lieve e l’allele ε4 che avevano livelli di LD apolipoproteina E più elevati, indipendentemente dalla diagnosi cognitiva (p &lt <.001). La dieta LD tendeva a diminuire i livelli di LD Aβ, mentre quella HD ad aumentare queste frazioni (LD Aβ 42, P = .01; LD Aβ 40, P = .15). I cambiamenti nei livelli di LD Aβ con la LD correlavano negativamente con i cambiamenti di quelli del liquido cerebrospinale d’insulina (LD Aβ 42 e insulina, r = -0.68 [p = 0,01]; LD Aβ 40 e insulina, r = -0.78 [P = .002]).
            In conclusione gli autori, sulla base dei loro risultati, affermavano che gli stati di lipidazione delle apolipoproteine ​​e dei peptidi dell’Aβ nel cervello si differenziano secondo il genotipo APOE e la diagnosi cognitiva. Le loro concentrazioni potevano, però, essere modulate con la dieta e i loro dati potevano, quindi, fornire una migliore conoscenza sui meccanismi attraverso i quali l'apolipoproteina E4 e la cattiva alimentazione tendevano a conferire il rischio di sviluppare l’AD. La dieta avrebbe, quindi,  potuto moderare i fattori coinvolti nella compensazione dell’amiloide, la proteina tossica legata allo sviluppo della malattia di Alzheimer (AD). In definitiva una dieta ricca di grassi saturi e di carboidrati con un alto indice glicemico avrebbe aumentato i livelli dell’Aβ non legata nel liquido cerebrospinale, mentre una dieta sana avrebbe ridotto queste frazioni.

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