la base neurochimica della depressione
Pur tuttavia, la teoria monoaminergica della depressione appare abbastanza semplicistica e numerosi studi tenderebbero a riconoscere una base più complessa ai cambiamenti dell’umore, del sonno, dell’appetito, dell’attività locomotoria e sessuale, della temperatura corporea, delle funzioni cognitive. Degni di menzione sono gli studi che hanno dimostrato la diminuita espressione della tirosina idrossilasi e dei recettori b-adrenergici e serotoninergici e un’alterata attività funzionale di alcune specifiche sub unità delle proteine G e dell’adenilatociclasi dopo la somministrazione ripetuta dei farmaci. Gli antidepressivi, quindi, interferirebbero non solo con la produzione e il rilascio delle catecolamine, ma anche con i meccanismi di trasduzione del segnale di quei neurotrasmettitori che sono implicati nella patogenesi e nel trattamento della depressione. L’intervallo di efficacia terapeutica dei farmaci antidepressivi potrebbe, quindi, essere determinato dalla loro necessità di indurre i cambiamenti adattativi nei meccanismi di trasduzione del segnale. Da notare, peraltro a tale proposito, che, mentre l’azione primaria dei farmaci sui trasportatori o sui recettori si verifica rapidamente, la loro efficacia si manifesta solo dopo tre o quattro settimane, suggerendo il ruolo importante di una serie di fenomeni successivi attivati dall’azione primaria. L’up-regulation o sensitizzazione è, di certo, uno di questi eventi e si realizza durante il trattamento prolungato. Rientrerebbe in tale ordine anche la down-regulation o desensitizzazione, a seconda che l’efficacia aumenti o diminuisca. I recettori b e a1 nella sinapsi noradrenergica e i recettori 5-HT2A/2C della sinapsi serotoninergica vanno incontro, in effetti, a una down-regulation, riduzione di sensibilità e numero, come risposta al trattamento prolungato con gli antidepressivi.
In tale capitolo il BDNF (Brain-derived neurotrophic factor) potrebbe coprire un ruolo importante. Difatti, lo stress si è rilevato un fattore della sua riduzione drammatica con conseguente atrofia o addirittura morte dei neuroni di particolari aree cerebrali, come l’ippocampo. Peraltro, l’area ippocampale di alcuni depressi è stata rinvenuta lievemente ridotta di volume e l’atrofia o ancor più la morte cellulare dell’ippocampo, in particolare dopo lo stress, potrebbe essere alla base dell’insorgenza della depressione, almeno in parte per riduzione del BDNF. A tale riguardo, da una parte si comprenderebbe il ruolo importante rivestito dai glucocorticoidi nel danno da stress sui neuroni dell’area CA3, dall’altra l’effetto protettivo degli antidepressivi sull’atrofia con il potenziamento dell’espressione e funzione del BDNF. D’alto canto, i farmaci antidepressivi, normalizzando il livello dei glucocorticoidi, potrebbero, in via collaterale in alcuni casi, prevenire un ulteriore danno neuronale. In effetti, l’ipotesi neurotrofica degli antidepressivi sull’ippocampo, area cerebrale particolarmente importante per il controllo delle emozioni e delle funzioni cognitive, si basa proprio sull’aumento della sintesi delle proteine neurotrofiche. Abbandonando, quindi, l’ipotesi aminergica e recettoriale, la base neurochimica della depressione, pur con una compromissione della funzionalità dei sistemi monoaminergici, dovrebbe derivare dalla cascata degli alterati eventi molecolari che modulano l’espressione genica delle proteine fondamentali per l’omeostasi neuronale.
A tale proposito, di certo interesse è la metanalisi, improntata su 54 studi, in cui Karg K dell’University of Wuerzburg, Germany e collaboratori hanno rilevato, contrariamente ai risultati delle precedenti più piccole, una forte evidenza dell'ipotesi che il 5-HTTLPR (serotonin transporter promoter polymorphism) moderava la relazione tra stress e depressione (Arch Gen Psychiatry. 2011 May;68(5):444-54. Epub 2011 Jan 3).