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Notiziario dicembre 2009
Pratica corrente e futura della prevenzione/terapia delle malattie
La classificazione 2009 dell'ipertensione rivisitata dell'Hypertension Writing Group
Le novità 2009 per i diabetici ipertesi
Riacceso il dibatitto sulla curva «J»
Idroclorotiazide (HCTZ) vs gli altri antipertensivi
Il Kyoto Hearth Study
Il Vart Study
Diuretici: i più efficaci antipertensivi per prevenire lo scompenso
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NOTIZIARIO Dicembre 2009 N°13

A cura di Giuseppe Di Lascio

 

Con la collaborazione di:

Bagalino Alessia, Bauzulli Doriana, Di Lascio Alessandro, Di Lascio Susanna, Levi Della Vida Andrea, Melilli Simonetta, Pallotta Pasqualino, Sesana Giovanna, Stazzi Claudio, Zimmatore Elena

 


Pratica corrente e futura della prevenzione/terapia delle malattie

Pratica corrente e futura della prevenzione/terapia delle malattie

La medicina sarà sempre più orientata verso la genomica e la variazione genetica influenza: la suscettibilità delle malattie, la loro progressione, la risposta terapeutica, gli effetti non desiderati di un farmaco.

In tal modo l‘uso delle variazioni genetiche sarà importante ai fini diagnostici e per trattamenti personalizzati. L’ipertensione presenta un notevole grado di ereditabilità ed è, comunemente, riconosciuta come un disturbo multifattoriale. La genomica ha avuto molto successo per l'identificazione di patologie monogeniche in alcune forme d’ipertensione, come la sindrome di Liddle e la sindrome di Bartter. Tuttavia, nonostante le promettenti tecniche di genetica molecolare, pochi progressi sono stati compiuti nell’identificazione di geni di suscettibilità alla base dell’ipertensione essenziale a espressione poligenica. Le applicazioni diagnostiche e terapeutiche correnti della genetica nell’ipertensione sono utili per: confermare rare cause d’ipertensione secondaria, come le sindromi ereditarie neoplastiche nei pazienti con feocromocitoma, identificare l’ipertensione monogenica, come quella sopprimibile con glucocorticoidi (GRA), scrinare famiglie a rischio di disordini genetici, come membri familiari asintomatici d’ipertesi con malattia policistica renale dominante autosomica, trattare direttamente pazienti con diverse forme d’ipertensione monogenica, come l’amiloride nella sindrome di Liddle, i glucocorticoidi nella GRA, l’idroclorotiazide nella Sindrome di Gordon. Considerando, pertanto, tutti questi dati, ci si deve chiedere: come va rivista ex novo l’pertensione?

I punti essenziali che stimolano tale proposizione sono:

  1. Ciò che registriamo come P.A. alta va considerato solo un marker clinico di malattia.
  2. L’ipertensione è una malattia multiorgano, spesso asintomatica.
  3. Essa non va considerata isolatamente. Bisogna, infatti, sempre cercare i suoi “complici” (DM, dislipidemia, obesità spesso coesistono e costituiscono con l’ipertensione il quartetto letale per la cardiopatia ischemica e cardiovascolare).
  4. Il target attuale di PA è 140/90 e, quasi sicuramente, sarà più basso nel futuro.
  5. Interessa di ottenere il risultato, ma di più come si è ottenuto.
  6. Nel diabete mellito, nella nefropatia cronica, nella cardiopatia ischemica la soglia dei valori di P.A. deve essere 10 mm più bassa.
  7. Le elevazioni della PAS sono più importanti di quelli della PAD. Fatto spesso ignorato !
  8. Una pressione pulsatoria ampia (SBP-DBP) significa danno arterioso.
  9. I tempi della monoterapia sono sorpassati e sono, ormai, sostituiti da quelli della terapia combinata.
  10. Tutti gli ipertesi devono essere scrinati e trattati per i fattori di rischio cardiovascolare aggiunti.
  11. Il danno degli organi bersaglio va attentamente e prontamente indagato e trattato.
  12. l’ipertrofia ventricolare sinistra è da sola il predittore più importante di mortalità e morbidità.
  13. ABI, MAU, ABPM, PWV etc., identificano precocemente i casi di alto rischio.
  14. Vale ancora la regola del 50%, secondo la quale solo il 7% dei pazienti è sotto adeguato controllo.

La classificazione 2009 dell'ipertensione rivisitata dell'Hypertension Writing Group

I dati epidemiologici e clinici degli ultimi anni hanno riportato lo stretto rapporto tra pressione arteriosa (PA) e malattia cardiovascolare (MCV), definendo un cambiamento marcato nella considerazione di tale condizione. Il rischio, così, è stato riconosciuto elevato anche a livelli di PA in precedenza considerati normali, mentre, in alcuni casi, si è visto che gli sporadici innalzamenti possono essere valutati fisiologicamente benigni e non associati a rischio aggiuntivo di malattia cardiovascolare. Peraltro, l’elevata PA non deve essere trattata in modo isolato, ma considerata nel contesto di cura del paziente complesso, tenendo conto della presenza di altri fattori di rischio e di marcatori di malattia CV per ottenere una sua più completa o globale valutazione. Sulla base di quanto sopra, l'Hypertension Writing Group (HWG) ha proposto l’ipertensione come "una sindrome progressiva cardiovascolare, il cui marker precoce può essere presente anche prima dell’osservazione delle elevazioni della PA. L'obiettivo, dichiarato della nuova definizione, è stato quello d’identificare precocemente nel decorso della malattia gli individui a rischio di malattia cardiovascolare ed anche di evitare di etichettarli ipertesi a basso rischio di malattia cardiovascolare e, quindi, di superare il problema della sottovalutazione o della valutazione eccessiva del rischio clinico all'interno dei singoli pazienti. La HWG ha proposto, quindi, di definire tutti i pazienti come normotesi od ipertesi, eliminando la preipertensione della JNC 7, classificando i pazienti in fase 1, 2 e 3, non sulla base dei valori pressori, in quanto valori di pressione, ritenuti bassi, possono associarsi a danno CV, ma sulla base della presenza dei fattori di rischio per malattia cardiovascolare precoce, avanzata o progressiva, così come per la presenza di altri marcatori di MCV, classificati, quindi, come PA, cardiaci, vascolari, renali ed alterazioni retiniche, e di danni degli organi bersaglio, classificati come cardiaci, vascolari, renali, e cerebrovascolari. Oltre l'obiettivo di fornire una valutazione più clinicamente rilevante del rischio CV globale nella pratica clinica, questo cambiamento di paradigma servirebbe a focalizzare l'attenzione sulla necessità di soddisfare risultati non ottenuti in materia di prevenzione e di trattamento ottimale dell'ipertensione, attraverso una gamma di settori, dalla ricerca di base e sviluppo di farmaci, all'educazione del paziente ed alla gestione clinica. Due settori, in particolare, devono trarre beneficio da questa rinnovata definizione e classificazione del HWG: lo sviluppo dei costi specifici e test efficaci, sensibili nel rilevare i primi marcatori di MCV in ambito clinico, e lo sviluppo di strategie per rallentare o prevenire l'insorgenza del danno d'organo bersaglio o MCV palese, trattando i primi disordini vascolari. Forse, la prova più convincente, contro l'uso della soglia di PA per definire l'ipertensione, risiede nel fatto che non esiste una PA sopra i 115/70 mmHg, che identifichi il rischio CV. Difatti, il rischio è lineare e raddoppia per ogni aumento di 20/10 mmHg. Come conseguenza della natura dinamica della PA può essere più clinicamente rilevante utilizzare modelli di PA, piuttosto che definite soglie, misurate nella clinica, per la valutazione del rischio CV in un singolo paziente. Così, l’HWG pone particolare attenzione sulla PA ambulatoriale, la pressione sistolica (PAS) e la pressione pulsatoria (differenza tra pressione sanguigna sistolica e diastolica [PAD]) per il rischio, perché più precisi marcatori del rischio CV, rispetto alla pressione in clinica, la PAD, soprattutto nei pazienti più anziani. L’altro principio fondamentale, considerato dal HWG, è quello della correlazione tra l’elevata PA e gli altri fattori di rischio CV, poiché la sua stratificazione sulla base dei soli livelli pressori, spesso, lo sottovaluta. Difatti, ciò che è particolarmente significativo, dal punto di vista della definizione dell’ipertensione al di là delle soglie di PA, è che questi processi di malattia sono strettamente interconnessi e interagiscono per vie fisiopatologiche comuni, come processi di stress ossidativo e processi di disfunzione endoteliale. Inoltre, la presenza dei fattori di rischio e dei marcatori della malattia definiscono le fasi più precoci in un continuum di MCV, ben prima che essa sia palese e che il danno degli organi bersaglio possa essere clinicamente misurato.

Il continuum cardiovascolare dai fattori di rischio alla morte

Questi dati, presi insieme, suggeriscono che può essere più utile considerare la pressione come uno biomarker della malattia ipertensiva, ma non l'unico, e prendere atto nel paziente dei livelli sopra ottimali di PA, come quelli che propongono evidenza di danni al sistema vascolare.

La definizione dell'ipertensione rivisitata dell'Hypertension Writing Group 2009

La definizione dell'ipertensione rivisitata dell'Hypertension Writing Group 2009

Fattori di rischio cardiovascolare

I marker precoci della malattia cardiovascolare ipertensiva

Danno ipertensivo degli organi bersaglio e chiara malattia cardiovascolare

Caratterizzazione clinica, modelldi P.A. ed implicazioni pratiche sugli algoritmi della P.A.

Da notare che nell’European Meeting del giugno 2009 a Milano sono state annunciate da Giuseppe Mancia le novità principali che caratterizzeranno le prossime linee guida europee sull’ipertensione:

European Meeting on Hypertension 2009

Come si nota emerge, tra gli altri, l’importante messaggio, rispetto alle raccomandazioni precedenti, del ruolo della misurazione della pressione arteriosa a domicilio, incoraggiando tutti i pazienti ipertesi a utilizzare un dispositivo provato di misurazione della pressione arteriosa, usando la tecnica corretta per valutare la stessa nella propria casa. L’automisurazione a domicilio può contribuire: a confermare la diagnosi d’ipertensione, a migliorare il suo controllo, a ridurre il bisogno di farmaci, a identificare la presenza d’ipertensione da camice bianco e mascherata, a migliorare l'aderenza ai farmaci (Fonte: N Engl J Med 2008;358:1547-59 Lancet 2008; 372: 547–53). Permangono attuali le raccomandazioni sullo stile di vita per limitare la possibilità di divenire ipertesi: ridurre l’assunzione di sodio a meno di 2300 mg/die, seguire dieta salutare con alto tenore di frutta fresca, vegetali, basso in prodotti caseari grassi, consumare fibre dietetiche e solubili, grani integrali e proteine derivate dalle piante, grassi saturi in bassa quantità, colesterolo e sodio come da schemi dietetici, mantenere attività fisica regolare per almeno 30-60 minuti, di moderata intensità, come una passeggiata a passo svelto, per 4-7 giorni a settimana in aggiunta alle attività giornaliere di routine, consumare bassa quantità di alcol (≤2 drink standard/die e meno di 14/settimana per gli uomini e meno di 9/settimana per le donne), mantenere il peso corporeo ideale (BMI 18,5-24,9 kg/m2), circonferenza vita per europei, africani sub-sahariani, per i medio - orientali uomini<94 cm e donne <80 cm; per i sud asiatici, cinesi <90 cm e <80 cm rispettivamente, regolare le abitudini di vita anche in ambiente privo di fumo. Si ribadisce, in particolare il principio FITT riguardo all’attività fisica con Frequenza di quattro - sette volte a settimana; Intensità moderata; Tempo di 30-60 minuti; Tipo di attività cardiorespiratoria come passeggiata, jogging, ciclismo amatoriale, nuoto non competitivo. Sono, peraltro, temi di attualità nel trattamento dell'ipertensione: combinazioni fisse di un ACE-I / CCB, piuttosto che ACE/tiazidici, beta bloccanti, relegati al 4° posto nel trattamento, salvo nelle condizioni obbligate, preferenza per l’ABPM e il monitoraggio domiciliare, preferenza per la terapia cronotropa per i non-dippers e gli ipertesi ante meridiani, nuovi paradigmi per gli antagonisti dell’aldosterone, in specie nell’ipertensione resistente, trattamento farmacologico delle condizioni in precedenza descritte come preipertensione, gestione dell’ipertensione del grande anziano, terapia farmacologica per gli anziani, basata sugli stessi criteri degli adulti più giovani, usando cautela nei più fragili e nei riguardi dell’ipotensione posturale, nuovo trattamento per la sindrome metabolica, valutazione dell’ipertensione e della malattia cardiovascolare nelle minorità etniche, la polipillola. La combinazione di un ACE-I con ARB non è raccomandata nei pazienti con ipertensione senza indicazioni obbligate, malattia coronarica senza scompenso, stroke precedente, nefropatia cronica non proteinurica o diabete mellito senza micro albuminuria, ma in casi selettivi e strettamente monitorizzata nei pazienti con scompenso cardiaco avanzato o nefropatia proteinuria. (Fonte: N Engl J Med 2008;358:1547-59 Lancet 2008; 372: 547–53).


Le novità 2009 per i diabetici ipertesi

Le novità del 2009 per i diabetici ipertesi sono: conferma che:

  • i diabetici sono ad alto rischio cardiovascolare,
  • tanto che più dell’80% muore per malattia cardiovascolare,
  • la maggior parte ha l’ipertensione,  tra il 35 e il 75% hanno complicazioni attribuite all’ipertensione,  2/3 degli ipertesi non è sotto controllo (> 130/80 mmHg),
  • è spesso necessaria una combinazione di variazioni di stile di vita,
  • sono spesso necessari 3 o più farmaci con presenza di un diuretico, spesso sottoutilizzato,
  • il trattamento dell’ipertensione nel diabetico riduce la mortalità totale, l’infarto del miocardio, lo stroke, la retinopatia e il tasso d’insufficienza renale progressiva,
  • la riduzione più intensiva della pressione riduce gli eventi maggiori cardiovascolari e la mortalità totale del 25% .


Riacceso il dibatitto sulla curva «J»

Gli ipertensiologi si scontrano ancora una volta sul fenomeno della curva « J », che riconduce alla definizione di una "normale" pressione sanguigna sotto la quale è pericoloso un ulteriore abbassamento.

Difatti, mentre tutti sono d'accordo che v’è un nadir - pressione sanguigna sotto la quale la vita sarebbe impossibile -, rivolgendo l'attenzione sugli effetti pregiudizievoli del trattamento troppo aggressivo, il dibattito si concentra sul fatto se tale curva « J » avviene all'interno di una fisiologica gamma di pressione. Peraltro, i sostenitori del fenomeno della curva « J » concordano sul fatto che bisogna scoraggiarsi dal perseguire il controllo aggressivo dell'ipertensione per portare tutti i pazienti ai livelli target consigliati.

Messerli FH dello St Luke's Roosevelt Hospital Center, New York e Gurusher S Panjrath dello Johns Hopkins Hospital, Baltimore, recentemente, il 10 novembre 2009, sulla Gazzetta dell’American College of Cardiology hanno annotato che un attento esame dei dati disponibili sembra mostrare una forma « J » nel rapporto tra PA diastolica e malattia coronarica nei pazienti ad alto rischio, pur nell’asserzione della mancanza di prove precise (J Am Coll Cardiol 2009; 54:1827-34). Tuttavia, questo effetto negativo di troppo bassa pressione diastolica in malati coronarici lascia il medico pratico con la possibilità di dubbio che, in pazienti a rischio, abbassando la PA a livelli che impediscono l’ictus o la malattia renale, si potrebbe, in effetti, precipitare l’ischemia miocardica. È stato, peraltro, aggiunto che questo dato è principalmente vero per quanto riguarda la pressione diastolica, poiché non si verifica solitamente per una sistolica sufficientemente bassa, anche perché la perfusione coronarica si verifica principalmente durante la diastole. Un effetto tipo curva « J », per quanto riguarda l’infarto del miocardio e la pressione diastolica, è stato riscontrato nei trial INVEST, VALUE, TNT, ONTARGET, SYST-EUR, INSIGHT, HOT, ACTION, PROVE-IT e in altri grandi studi prospettici randomizzati. Nella maggior parte di essi l’effetto è stato più pronunciato nei pazienti con malattia coronarica manifesta, rispetto ai pazienti senza coronaropatia. Comunque, a nota di diversi autori, non bisogna avvalersi della curva « J » a sostegno di non abbassare la PA in un paziente la cui pressione sistolica non è sotto controllo, preoccupandosi solo nei casi di diastolica <70. Ovviamente, la terapia deve essere sempre personalizzata in rapporto, soprattutto, all’età e alle malattie concomitanti. Difatti, in un paziente con pregresso ictus, con sistolica di 170 o 180 mm Hg e diastolica di 60, probabilmente, potrebbe ancora essere opportuno abbassare la sistolica, perché è fattore di rischio molto più potente per una recidiva, maggiormente devastante rispetto al rischio di cardiopatia coronarica acuta per gli effetti di abbassamento della diastolica (Williams B. Hypertension and the "J-curve." J Am Coll Cardiol 2009; 54: 1835-1836).


Idroclorotiazide (HCTZ) vs gli altri antipertensivi

Per i diuretici tiazidi v’è una rivalutazione tale, da dover essere considerati inferiori alle altre classi d’antipertensivi, come riportato da Mersserli all’European meeting of hypertension del Giugno 2009 a Milano, rilevando che nei controlli della PA in clinica l’idroclorotiazide (HCTZ) è quasi efficace come gli altri antipertensivi durante il giorno, ma di notte e nelle prime ore del mattino perde la sua azione, creando un falso senso di sicurezza nel malato e nel medico.

Riduzioni medie della P.A. ambulatoriale con la HCTZ e le altre classi di farmaci


Il Kyoto Hearth Study

Hiroaki Matsubara e coll. della Kyoto Prefectural University School of Medicine hanno condotto il KYOTO HEART study, durato dal gennaio 2004 al gennaio 2009, coinvolgendo 3.031 pazienti giapponesi (nel 43% donne di età media di 66 anni), trattati per ipertensione non controllata con PAS ≥ 140 mm Hg e/o PAD ≥ 90 mmHg e per ≥ 1 fattore di rischio addizionale (Heart J. 2009 Oct;30(20):2461-9). A seguito di uno studio PROBE (prospective, randomized, open label, blinded endpoint), i pazienti hanno ricevuto valsartan 40-80 mg/die, titolato a 100-160 mg, se necessario per raggiungere la pressione sanguigna target (<140/90 mmHg o <130/80 mmHg nei diabetici o con malattia renale).

Variazione della pressione arteriosa nel Kioto Study

Lo studio è stato interrotto precocemente dopo un follow-up mediano di 3,27 anni, a causa di un inequivocabile vantaggio registrato con valsartan. Durante questo tempo la pressione sanguigna si è abbassata mediamente da 157/88 mm Hg a 133/76 mm Hg.

img

Rispetto al trattamento non ARB, il valsartan si è associato a una riduzione del 45% dell'end-point primario dello studio, un composito di eventi cardiovascolari e cerebrovascolari (83 vs 155; hazard ratio [HR], 0,55, intervallo di confidenza 95% [IC], 0,42-0,72, P = .00001). Questa differenza è risultata principalmente attribuibile a una riduzione del 49% per l'angina pectoris (P = .01 vs non-ARB) e una riduzione del 45% per l’ictus/attacco ischemico transitorio (TIA) (P <.05 vs non-ARB), mentre non ci sono state differenze significative per l’infarto acuto del miocardio (IMA), l’insufficienza cardiaca, la dissezione aortica e le componenti di altri end-point o per tutte le cause di mortalità cardiovascolare o mortalità. Inoltre, l'incidenza di diabete di nuova insorgenza era significativamente inferiore con valsartan (p = .0282). Matsubara e colleghi hanno anche speculato sul fatto che il sistema renina-angiotensina ha un ruolo più importante nello sviluppo di angina che dell’IMA, in cui la rottura dell’ateroma e la trombosi sono determinanti importanti. Gli AA hanno anche suggerito che il valsartan si propone con il più alto grado di selettività per il recettore tipo 1 dell'angiotensina (AT1), rispetto agli altri ARB, risparmiando il recettore AT2 e, quindi, con maggiore protezione vascolare attraverso l'attivazione della bradichinina. Essi prendono, dunque, atto che, essendo il recettore AT2 espresso nelle lesioni aterosclerotiche, il trattamento con valsartan blocca in modo efficace l'ispessimento delle arterie coronarie e la fibrosi perivascolare.

Franz H. Messerli dello St. Luke’s Roosevelt Hospital and Columbia University, New York e coll., sulle premesse della letteratura:

  • che i bloccanti del recettore dell'angiotensina (ARB) possono determinare un aumento dell’infarto del miocardio (Verma S: BMJ 2004;329:1248–1249),
  • che nel “the blood pressure lowering treatment trialists collaboration” si era constatato il rischio di ictus, di coronaropatia e di scompenso con il trattamento antipertensivo con gli ACE inibitori e gli ARB (Turnbull F, J Hypertens 2007;25:951–958),
  • che gli AA avevano messo in guardia, però, che solo per gli ACE-inibitori, ma non per sartani, c'era l’effetto sul rischio di gravi eventi coronarici,
  • che l’ONTARGET aveva documentato il risultato pari in efficacia di un ARB ed un ACE-inibitore in una popolazione ad alto rischio, anche se c'era stato un andamento di prevenzione migliore nel braccio dell’ARB (telmisartan) ed una migliore prevenzione della malattia coronarica in quello dell’ACE-inibitore (ramipril) (Yusuf S, N Engl J Med 2008;358:1547–1559),

nell'analizzare questi studi e i più recenti con ARB, come il TRANSCEND, PRoFESS, CASE-J trial, HIJ-CREATE, JIKEI, KYOTO, hanno riscontrato in un database di 26 trial di sartani in 100.000 pazienti, randomizzati senza insufficienza cardiaca, una riduzione del 13% del rischio di stroke (P ¼ 0,022), ma una tendenza verso un maggiore rischio d’infarto del miocardio, soprattutto 16 nel confronto con i trattamenti attivi (P ¼ 0,06). Molto si è discusso sui risultati del TRANSCEND e del PRoFESS in cui il telmisartan, nonostante la diminuzione della pressione del sangue, non ha ridotto gli eventi cardiovascolari meglio del placebo (Messerli F.H. Eur Heart J 2009 30:2427-2430).

meta analisi sugli effetti dei bloccanti del recettore dell'angiotensina sulla ODDS ratio per ima

meta analisi sugli effetti dei bloccanti del recettore dell'angiotensina sulla ODDS ratio per l'ictus

Ma, a tal proposito, vale considerare che la maggioranza dei pazienti in entrambi questi studi era stata pre-trattata con un bloccante del sistema renina-angiotensina (RAS) per cui essi permetterebbero una valutazione più degli effetti della sospensione del blocco RAS, piuttosto che del suo inizio. Ma anche altri trial con ACE-inibitori, come QUIET, 0 PEACE, PROGRESS, CAMELOT non hanno battuto il placebo, nonostante la riduzione significativa della pressione arteriosa. Nel KYOTO study, peraltro, non è stata segnalata alcuna significativa differenza di pressione tra i due bracci di trattamento, ricordando per certi versi il VALUE, ma ottenendo per un dato abbassamento di pressione del sangue una riduzione del 45% nell'end-point primario, rispetto al braccio non-ARB. Il beneficio si è determinato, soprattutto, per l’ictus e, un po’ sorprendentemente, per l’angina, mentre non per l’infarto miocardico, per l’insufficienza cardiaca e per tutte le cause mortalità. Si può ipotizzare, comunque, che gli asiatici possano essere particolarmente ricettivi agli effetti protettivi degli ARB, come si è dimostrato nel RENAAL, a parziale spiegazione delle differenze tra VALUE e KYOTO. Difatti, le malattie cerebrovascolari sono più diffuse delle coronariche negli asiatici, rispetto alle società occidentali. Risulta, peraltro, un po' difficile accettare che un ARB debba risultare migliore nel prevenire l'angina rispetto a un calcio-antagonista, come osservato in entrambi gli studi Kyoto Study e JIKEI-Heart Study. Da notare, però, che negli studi CASE-J e HIJ-CREATE, progettati in asiatici con candesartan, non si è ottenuta una riduzione della morbilità e la mortalità maggiore rispetto alla non-terapia con ARB, ponendo ipotesi sulla differenza di azione molecolare dei prodotti.


Il Vart Study

Keiko Nakayama e coll. dell’University Graduate School of Medicine, Chiba, Japan, sulle premesse che l’ipertensione rappresenta la malattia più comune in Giappone e che gli antagonisti del sistema RA hanno dimostrato azioni complementari all’abbassamento della P.A., essendo tali farmaci i più largamente usati nella loro nazione insieme ai calcioantagonisti a riconosciuta buona azione antipertensiva, hanno pubblicato lo studio multicentrico VART (Valsartan Amlodipine Randomized Trial), per un totale di 1.021 pazienti di età media di 60 anni, con ipertensione di nuova diagnosi o già in trattamento con farmaci antipertensivi, iscritti presso 92 strutture sanitarie tra il giugno 2002 ed il marzo 2006, seguiti fino al marzo 2009 (Hypertension Research (2008) 31, 21–28), per saggiare le differenze delle due classi di agenti antipertensivi nei meriti della loro azione cumulativa. Dopo la sospensione di qualsiasi precedente terapia antipertensiva, 510 pazienti hanno ricevuto inizialmente dosi di valsartan 80 mg/die e 511 amlodipina 5 mg/die, aumentate a 160 mg e 10 mg rispettivamente e con aggiunta di alfa-bloccanti, beta-bloccanti, diuretici se la pressione arteriosa si manteneva > 135/85 mm Hg. I controlli dei livelli pressori sono rimasti uguali in entrambi i gruppi di trattamento e a 36 mesi la pressione sanguigna media era 135 ± 13/80 ± 19 mm Hg nei pazienti in trattamento con valsartan e 135 ± 14/80 ± 10 mm Hg in quelli trattati con amlodipina.

Curve di kaplan-meier per l'endpoint composito primario nel vart study

Non vi era alcuna differenza significativa tra i due bracci di trattamento per l'end-point primario, per un composito di mortalità per ogni causa ed eventi cerebrovascolari, cardiaci, vascolari e renali (HR, 1.0; 95% CI, 0,57-1,97; P = .943). Inoltre, non vi era alcuna differenza significativa nei singoli end-point che componevano il composito, inclusi l’infarto miocardico acuto, l’ictus e lo scompenso cardiaco. Tuttavia, miglioramenti significativi sono stati osservati in una serie di obiettivi secondari. A 36 mesi, l'indice di massa ventricolare sinistra (LVMI) si è ridotto in entrambi i gruppi, ma il cambiamento percentuale nel gruppo valsartan era significativamente maggiore rispetto al gruppo amlodipina (p<.05). La norepinefrina plasmatica era diminuita significativamente con valsartan (p = .00495), ma non vi era alcun cambiamento significativo con amlodipina. A 24 mesi, la captazione del 123I-MIBG, calcolato come rapporto cuore/mediastino, è risultata significativamente aumentata nel gruppo valsartan (P <.0001), ma non nel gruppo amlodipina. A 36 mesi, peraltro, si è osservato un significativo aumento del rapporto albumina/creatinina (UACR) nelle urine nel gruppo amlodipina (P <.0001), ma non nel gruppo valsartan.

End point secondari nello studio vart

La diagnosi di diabete mellito di nuova insorgenza è stata registrata solo nell’1,7% del gruppo valsartan vs 3,4% del gruppo amlodipina (OR 0,47, 0,20-1,11), anche se l'aumento non ha raggiunto la significatività statistica in entrambi i gruppi.

Nuova diagnosi di diabete

Da notare che i pazienti del VART STUDY, senza l’alto rischio degli altri trial, erano anche più giovani, come nel VALUE, in cui la media di età era 67 anni. Ad esempio, la percentuale di pazienti con diabete nel VART (circa l'8%) era inferiore ad altri studi e nella maggior parte dei casi, circa il 70%, era attiva una monoterapia.


Diuretici: i più efficaci antipertensivi per prevenire lo scompenso

Tocci G. e coll. dell’Università di Roma La Sapienza, sulle premesse anche del Framingham Heart Study per cui lo sviluppo d’insufficienza cardiaca, di solito considerata un "soft" end-point nel trattamento degli ipertesi, corrisponde al 40% degli uomini e al 60% delle donne, hanno presentato al CES 2009 a Barcellona la più grande meta-analisi, mai effettuata su tale malattia, dimostrando che l'incidenza globale d’insufficienza cardiaca è comparabile con altri eventi cardiovascolari e non significativamente diversa da quella per l'ictus (J Hypertens. 2008;26:1477-1486).

Metanalisi sulla prevenzione dello scompenso

Non essendoci, peraltro, prove conclusive sull’ottimale scelta di una classe di antipertensivi per la prevenzione dell'insufficienza cardiaca nei soggetti ipertesi, la meta-analisi degli AA ha voluto svolgere un’indagine nella letteratura tra il 1997 e il dicembre 2008 in merito alle più efficaci strategie nei meriti. Hanno, così, identificato 25 lavori su ipertesi o su pazienti ad alto rischio cardiovascolare, ipertesi per più del 65%, con una durata di follow-up di ≥ 2 anni in ≥ 200 soggetti, con segnalazione d'incidenza assoluta di scompenso e di altri eventi cardiovascolari maggiori. I 25 studi prescelti hanno interessato un totale di 217.387 soggetti, di cui il 40,3% randomizzati in terapia antiipertensiva tradizionale, principalmente con diuretici e agenti anti-adrenergici; 18,6% con terapia a base di diuretici, 4,1% con alfa-bloccanti e 2,2% con beta -bloccanti. I rimanenti pazienti erano trattati con inibitori delle più recenti classi di farmaci antipertensivi, calcioantagonisti, ACE-I e ARB. Di converso, il 7,1% dei pazienti era randomizzato con placebo o il miglior trattamento standard per la loro condizione e lo scompenso cardiaco era il più delle volte un end-point secondario. L’insufficienza cardiaca, come nuovo evento, si era verificata negli studi in un totale di 8.291 casi.

Metananalisi sull'efficacia differenziale nella prevenzione dello scompenso

Tutti gli anti-ipertensivi, ad eccezione degli alfa-bloccanti, si sono dimostrati più efficaci nel prevenire L’insufficienza cardiaca rispetto al placebo con i diuretici al primo posto (OR, 0.56, IC 95%, 0,44-0,69), seguiti dagli ARB (OR, 0.67, IC 95%, 0,52-0,80), dagli ACE-inibitori (OR, 0.67, IC 95%, 0,56-0,79) e dai CCBS con effetto inferiore (0,78, 0,62-0,92).

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