NOTIZIARIO Settembre 2010 N°9
A cura di Giuseppe Di Lascio
Con la collaborazione di:
Bagalino Alessia, Bauzulli Doriana, Di Lascio Alessandro, Di Lascio Susanna, Levi Della Vida Andrea, Melilli Simonetta, Pallotta Pasqualino, Sesana Giovanna, Stazzi Claudio, Zimmatore Elena
Vitamina “D” e malattie cardiometaboliche
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a vitamina D rappresenta, invero, nel diabete mellito un nuovo campo di studio e apprendimento di sviluppo immediato.Nell'attuale stato delle conoscenze la vitamina esercita, in effetti, un ruolo nella patogenesi del diabete di tipo 1 e nell’insorgenza del LADA (Latent Autoimmune Diabetes in Adults) con azioni immunomodulatrici, influenzando l'attività dei linfociti e delle interleuchine. Nel diabete di tipo 2 sembra, invece, agire attraverso meccanismi diversi che interessano la secrezione e la sensibilità all'insulina attraverso i suoi effetti sulle cellule beta, sui mediatori dell’infiammazione e sull’ormone paratiroideo.
L'incidenza crescente, epidemica del prediabete e del diabete di tipo 2, principalmente caratterizzati dall’insulinoresistenza, rappresenta un problema di salute critico con conseguenti devastanti costi personali e sanitari. Peraltro, negli studi epidemiologici, espressi dai livelli nel siero di 25-idrossi-D, la vitamina appare inversamente associata al diabete e la sua integrazione, anche come metabolita attivo 1,25 (OH) 2D, risulta migliorare la sensibilità all'insulina, pure nei soggetti con parametri normali di metabolismo del glucosio. I meccanismi proposti in tale condizione risiedono nelle potenziali relazioni con i miglioramenti nella massa magra, la regolazione del rilascio, l’alterata espressione dei recettori e gli effetti specifici sull’azione dell'insulina. Queste azioni possono essere mediate dalla produzione sistemica o locale di 1,25 (OH) 2D o dalla soppressione del paratormone, che possono incidere negativamente sulla sensibilità all'insulina. Pertanto, gli studi nei meriti sostengono una sostanziale relazione tra la vitamina “D” e la sensibilità all'insulina, pur necessitando ulteriori chiarimenti per definirne più esattamente i meccanismi alla loro base.
Anastassios G. Pittas e coll. della Division of Endocrinology, Diabetes and Metabolism, Tufts-New England Medical Center, Boston, hanno analizzato gli studi osservazionali sull’associazione, relativamente coerente, tra carenza di vitamina “D”, assunzione di calcio o prodotti caseari con la sindrome metabolica o il diabete mellito 2, rilevando la prevalenza di DM 2 con un OR 0,36 (IC 95% 0,16-0,80) tra i non-neri con alta vs bassa 25 –OH-D e la prevalenza di sindrome metabolica con un OR 0,71 (IC 95%0,57-0,89) per l'assunzione più alta di latte vs la più bassa (Journal of Clinical Endocrinology & Met.abolism. 2007, 92, 6, 2017-2029). Gli AA. hanno anche individuato le associazioni inverse per il diabete mellito o la sindrome metabolica con incidenza di T2DM [OR 0,82 (IC 95%0,72-0,93)] per l’alta vs la bassa condizione combinata di vitamina “D” e apporto di calcio e per l'alta vs la più bassa assunzione di prodotti caseari [OR 0,86 (IC 95%0,79-0,93]. Le evidenze hanno supportato che l’uso d’integratori di vitamina “D” e/o calcio rivestiva un ruolo nella prevenzione del T2DM solo nelle popolazioni ad alto rischio, come nell'intolleranza al glucosio. È stato, però, notato che gli studi osservazionali a disposizione erano limitati perché per la maggior parte trasversali e non regolarizzati per i fattori confondenti. I longitudinali, invece, erano di breve durata con inclusione di alcuni soggetti, utilizzando una grande varietà di formulazioni farmacologiche di vitamina “D” e di calcio o con analisi post-hoc. Pur tuttavia, la metanalisi ha permesso di concludere che l’ipovitaminosi “D” e la carenza di calcio possono influenzare negativamente la glicemia, mentre l'integrazione combinata con entrambe queste sostanze può sortire efficacia nell’ottimizzare il metabolismo del glucosio.
Attualmente le dosi raccomandate per il calcio sono generalmente di 1200 mg/die per gli adulti oltre i 50 anni e per la vitamina “D” di 400 UI/die dai 51 ai 70 anni e di 600 UI/die dai 70 anni e oltre. Tuttavia, vi è un consenso crescente di raccomandare assunzioni di vitamina “D” sopra le attuali per ottenere i risultati migliori. I livelli ottimali di vitamina, comunque, non sono stati ancora del tutto definiti, ma, per una serie di obiettivi scheletrici e non, la sua concentrazione serica più vantaggiosa sembra essere 30-40 ng/ml. Per quanto riguarda, poi, il diabete mellito di tipo 2 è più difficile trarre una conclusione definitiva per un livello ottimale, anche se sono stati fatti studi in una varietà di coorti con una vasta gamma di livelli di 25-OH-D. Tuttavia, i dati suggeriscono che concentrazioni seriche di 25-OHD superiori a 20 ng/ml sono auspicabili, anche se quelle oltre i 40 ng/ml potrebbero essere più vantaggiose. A tal fine, però, occorrono 1000 UI/die di vitamina “D”. Per quanto riguarda il rapporto tra assunzione di calcio e diabete mellito di tipo 2, le evidenze della letteratura suggeriscono un’assunzione di 600 mg/die, pur essendo ottimale una dose superiore ai 1200 mg. I dati NHANES III, per l’appunto, hanno dimostrato che l’ipovitaminosi della 25-OH-D (<25 ng ml) può interessare durante l'inverno fino a metà degli adolescenti e adulti non istituzionalizzati, anche alle latitudini meridionali. Successivi studi hanno, d’altro canto, dimostrato la sua prevalenza dal 36 al 100% in una varietà di popolazioni, sia giovani adulti sani sia anziani ricoverati in ospedale. Nei riguardi della carenza di calcio, s’incontrano maggiori difficoltà di documentazione biochimica. Gli americani, ad esempio, non assumerebbero le dosi raccomandate, per cui nelle persone dai 51 ai 70 anni esse corrisponderebbero a 708 mg/die per gli uomini e 571 per le donne e oltre i 70 anni a 702 mg/die per i primi e a 517 per le seconde.Peraltro, l’ipovitaminosi “D”, combinata con lo scarso apporto di calcio, può essere più prevalente. Nel Nurses Health Study il gruppo con il maggior apporto, equivalente per il calcio a dosi maggiori di 1200 mg/die e per la vitamina “D” a dosi maggiori di 800 UI/die, ha presentato incidenza di rischio di diabete tipo 2 più bassa, corrispondendo questo dato, però, solo all’1,3% della coorte.
Calcio vitamina “D” e DM 2 nel NHS
Pertanto, sulla base della potenziale correlazione tra vitamina “D”, calcio e diabete su riportata, sembrerebbe plausibile considerare lo stato non ottimale, relativo a tali sostanze, concausa da non trascurare nei confronti della crescente progressione epidemiologica del diabete nella società moderna. Peraltro, queste condizioni dividono in comune altri cofattori quali l’invecchiamento, l'inattività fisica, la pelle scura e l'obesità.Invero, la vitamina “D” e il calcio condizionano, come già detto, la funzione delle cellule ß-pancreatiche, la sensibilità all'insulina e l'infiammazione sistemica, quasi di regola presenti nell’intolleranza al glucosio e nel diabete di tipo 2. Diverse evidenze sostengono, difatti, il ruolo della vitamina sulla funzione delle cellule-ß sul piano esclusivo della risposta insulinica allo stimolo del glucosio, senza influire sull’insulinemia basale. L'effetto diretto della vitamina può essere mediato, in effetti, dal legame della sua componente attiva circolante 1,25-OH-D sui recettori della ß-cellula. In alternativa, l'attivazione della vitamina “D” può esprimersi all'interno della cellula-ß per mezzo dell’enzima 1-idrossilasi, di recente dimostrato nel loro contesto. L’effetto indiretto può, invece, essere mediato attraverso il suo importante ruolo della regolazione del calcio extracellulare e del suo flusso attraverso la cellula-ß, essendo la secrezione insulinica un processo calcio-dipendente.Si può ipotizzare che l'assunzione inadeguata di calcio o l’ipovitaminosi “D” possano entrambe alterare l'equilibrio tra il pool extracellulare e quello intracellulare del calcio della cellula-ß, interferendo, così, con il rilascio normale d’insulina, specialmente in risposta ad un carico di glucosio.
Potenziali meccanismi favorevoli della vit. “D” e calcio nel DM2
La vitamina “D”, quindi, mostra di avere un vantaggioso effetto, sia diretto sull’azione dell'insulina stimolando l'espressione dei suoi recettori e rafforzando, in tal modo, la reattività per il trasporto del glucosio, sia indiretto attraverso il suo ruolo di regolazione del calcio extracellulare che garantisce il normale afflusso di calcio attraverso le membrane cellulari per il suo carico citosolico [Ca+ +] intracellulare adeguato.Il calcio è, difatti, essenziale entro un range molto ristretto per i processi intracellulari insulino-mediati dei tessuti insulino-sensibili, come i muscoli scheletrici e il tessuto adiposo.
Variazioni nei Ca+ + nei tessuti bersaglio primario dell’insulina, possono contribuire alla determinazione della resistenza periferica all'insulina attraverso la trasduzione della compromissione del segnale dell'insulina, portando a una diminuitaattivitàdi trasporto del glucosio.
Inoltre, va ricordato che il diabete di tipo 2 si associa a infiammazione sistemica, legata, soprattutto, alla resistenza all'insulina e all’alto grado di citochine che si attiva nel processo. Tale condizione può essere un fattore aggiuntivo come causa della disfunzione delle cellule-ß,innescando la loro apoptosi. Sotto tale aspetto, la vitamina “D” può migliorare la sensibilità all'insulina e promuovere la sopravvivenza delle cellule-ß direttamente, modulando la produzione e gli effetti delle citochine.
Rischio di diabete e livelli di vit. “D”
Pittas AG e coll. in una più recente revisione sistematica della letteratura sull’argomento (Ann Intern Med. 2010 Mar 2;152(5):307-14) hanno selezionato 13 studi osservazionali (14 coorti) e 18 trial randomizzati. Tre su sei analisi (da 4 diverse coorti) hanno riportato un più basso rischio d’incidente di diabete nel più alto verso il più basso stato di vitamina “D”. Tuttavia, nessuno degli studi controllati ha rilevato alcun effetto nell’integrazione di vitamina D. Otto, invece, non hanno rilevato alcun effetto della vitamina sulla glicemia o sull’incidenza di diabete. Nella metanalisi di 3 coorti, la bassa concentrazione di 25-idrossivitamina-D si è associata all’ipertensione (rischio relativo, 1.8 [IC 95%, 1,3-2,4]. In altra metanalisi di 10 studi la supplementazione di vitamina non ha significativamente ridotto la pressione arteriosa sistolica (differenza media ponderata -1,9 mm Hg [IC, -4,2 a 0,4 mm Hg]) e non ha prodotto effetti sulla pressione arteriosa diastolica (differenza media ponderata -0,1 mm Hg [IC, -0,7 a 0,5 mm Hg]. D’altra parte, la bassa concentrazione di 25-idrossivitamina “D” si è associata con l’incidente di malattia cardiovascolare in 5 su 7 analisi (6 coorti), mentre 4 studi non hanno rilevato effetti della supplementazione sui risultati cardiovascolari. Da notare, però, che i trial includevano principalmente partecipanti di razza bianca e quelli osservazionali erano eterogenei e che diversi riportavano analisi post hoc. Tale revisione permette di concludere che l'associazione tra vitamina “D” ed effetti cardiometabolici è incerta.
Livelli di vit. “D” e rischio di malattie cardiometaboliche
D’altro canto, Parker J e coll. dell’University of Warwick, United Kingdom, con lo scopo di valutare l'associazione tra i livelli di 25OHD con le patologie cardiometaboliche, tra cui le malattie cardiovascolari, il diabete e la sindrome metabolica, hannoanch’essi effettuato una revisione sistematica della letteratura corrente nei meriti. Hanno, di fatto, voluto stimare il rischio di sviluppare disturbi cardiometabolici in rapporto alle concentrazioni più alte e più basse di vitamina serica (Diabetes Metab Res Rev. 2009 Jul;25(5):417-9). Hanno, quindi, identificato 28 studi da 6.130 referenze comprendenti 99.745 partecipanti. Gli AA. hanno, così, rilevato che i livelli elevati di 25OHD serica si associavano con una riduzione del 43% di disturbi cardiometabolici [OR 0,57, 95% (IC 0,48-0,68)]. In particolare, gli alti livelli di vitamina erano associati a una sostanziale diminuzione delle malattie cardiovascolari, diabete di tipo 2 e sindrome metabolica nella popolazione di mezza età e negli anziani. Degno di nota è che se tale rapporto si dovesse rivelare reale, assumerebbero importanza gli interventi mirati alla carenza di vitamina “D” nella popolazione adulta per poter efficacemente rallentare l'epidemia in corso delle patologie cardiometaboliche.
Livelli di vit. “D” e malattia CV
Massimo Cigolini e coll. della Division of Internal Medicine and Diabetes Unit, ‘Sacro Cuore’ Hospital, Negrar, Verona, hanno valutato la relazione tra MCV (infarto miocardico, angina, ictus ischemico, rivascolarizzazione coronarica o endoarteriectomia carotidea) manifesta e concentrazioni seriche di 25-idrossivitamina D, funzione renale basale, secondo la formula MDRD (Modification of Diet in Renaldisease) come segue:
in 462 diabetici di tipo 2 consecutivi di età media di 62 ± 7 anni, per il 64% uomini, ipertesi per il 76,3%, con media stimata di velocità di filtrazione glomerulare (GFR) di 94 ± 33 ml/min/1.73 m2 (Nephrology Dialysis Transplantation 2008 23(1):269-274).
La funzione renale risultava fortemente e inversamente condizionata dalla MCV (malattia cardiovascolare). In un'analisi multivariata di regressione logistica si dimostrava un'associazione inversa tra i livelli serici di 25-idrossivitamina “D” e MCV prevalente [odds ratio 0,95 (IC 95% 0,92-0,98; P = 0,001)] in tutta la popolazione, indipendentemente dalla funzione renale basale e da altri fattori di rischionoti.
Inoltre, l'associazione tra le concentrazioni seriche di 25-idrossivitamina e MCV [odds ratio 0,97 (IC 95% 0,94-0,99, p = 0,045)] è rimasta statisticamente significativa nei partecipanti al minimo stimato del terzile di GFR dopo l'aggiustamento per i potenziali fattori confondenti. In conclusione, la ridotta concentrazione d’idrossivitamina “D” si è dimostrata indipendentemente associata a MCV prevalente nei diabetici di tipo 2 con disfunzione renale lieve, aprendo il campo a considerazioni interessanti di ordine clinico e terapeutico.
Effetti razziali delle integrazioni di vit. “D” nel DM2
Considerando che in USA la prevalenza del diabete di tipo 2, indipendentemente dall’obesità e da altri fattori noti confondenti, risulta più elevata tra gli afro-americani (AA) rispetto ai soggetti di origine europea (AE), ritenendola ipovitaminosi “D” una possibile causa di tale condizione, Alvarez JA e coll. dell’University of Alabama a Birmingham, hanno voluto condurre uno studio di verifica dell'ipotesi di un massiccio miglioramento della sensibilità all'insulina con la vitamina “D” nella dieta (Nutrition & Metabolism2010, 7:28).
Gli AA hanno, pertanto, studiato 115 afro-americane e 137 americane europee sane, in premenopausa, rilevando un’associazione positiva tra vitamina e SI (beta standardizzato = 0.18, P = 0,05) e inversa con l’HOMA-IR (beta standardizzato = -0,26, P = 0,007) nelle AA, indipendentemente all’età, grasso corporeo totale, assunzione di energia e kcal% dai grassi.
Al contrario la Vitamina “D” non risultava significativamente associata con gli indici di sensibilità all'insulina/resistenza nelle EA (beta standardizzato = 0.03, P = 0,74 e standardizzato beta = 0.02, P = 0.85 per il SI e HOMA-IR, rispettivamente). Analogamente alla vitamina il calcio nella dieta appariva associato con SI e HOMA-IR nelle AA, ma non nelle EA. Pertanto questo studio sembra fornire nuovi risultati sul valore della vitamina “D” e del calcio nella dieta come fattori indipendenti per la sensibilità all'insulina nei diversi gruppi etnici.
Lo studio TIDE
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o studio TIDE (Thiazolidinedione Intervention With Vitamin D Evaluation), coordinato da ricercatori della McMaster University, Hamilton, è stato approntato per testare, in primo luogo, gli effetti cardiovascolari del trattamento a lungo termine con rosiglitazone e pioglitazone, se utilizzato come parte di standard di cura, rispetto a quelli simili senza questi farmaci in pazienti con diabete di tipo 2 con storia o rischio di malattia cardiovascolare e, in secondo luogo, per confrontare gli effetti della supplementazione a lungo termine di vitamina “D” sulla mortalità e sul cancro.
Lo studio sta arruolando pazienti con l’obiettivo di raccogliere 16.000 adesioni. Un altro endpoint dello studio è di verificare il ruolo della vitamina “D” nella prevenzione del diabete. Prenderanno parte allo studio pazienti con diabete di tipo 2 di età uguale o superiore ai 50 anni, che hanno sofferto di un infarto miocardico o un ictus o sono stati sottoposti a un intervento cardiochirurgico o stanno assumendo un farmaco antipertensivo e/o un farmaco ipolipidemizzante. Si attendono da tale studio risultati che possano chiarire più concretamente e decisamente i rapporti della vit. “D” con le malattie cardiometaboliche.
I supplementi di calcio aumentano il rischio d’infarto?
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onsiderando i risultati contrastanti dell’impiego degli integratori di calcio nella dieta per combattere l’osteoporosi, suggerendone alcuni l’alto effetto protettivo contro la malattia vascolare e mostrandone, invece, altri il rapido aumento delle calcificazioni con mortalità per insufficienza renale ed eventi cardiovascolari nelle donne, Ian Reid R e coll. dell’Università di Auckland hanno condotto una metanalisi per rivalutare i risultati negativi dei supplementi di calcio di un loro precedente lavoro (BMJ2008; 336:262-266).
Nell’analisi combinata di cinque studi i ricercatori hanno rilevato che i supplementi di calcio si associavano ad un aumento di circa il 30% nell'incidenza d’infarto miocardico (hazard ratio 1,31, 95% IC 1,02-1,67, p = 0,035 ), indipendentemente da età, sesso e tipo di supplemento, proporzionalmente maggiore in rapporto alla più elevata assunzione (BMJ 2010; 341:c3691). Più modesto e non significativo risultava l’aumento del rischio d’ictus e di mortalità. Una simile analisisu 11 studi mostrava, d’altra parte, un rischio relativo di 1,27 d’infarto miocardico (95% IC 1,01-1,59, p = 0,038) associato a supplementi di calcio.
Integratori di vit. “D” e rischio CV
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u Wang e coll. delBrigham and Women's Hospital, Boston, hanno esaminato la letteratura scientifica relativa all'uso di integratori di vitamina “D” ed eventi cardiovascolari consequenziali (Ann Intern Med2010; 152:315-323). Gli AA.hanno riscontrato riduzioni di eventi cardiovascolari negli adulti con integrazione di vitamina in sei studi prospettici e in altri quattro randomizzati, controllati che comprendevano vitamina-D verso placebo. Quando, però, sono stati combinati tutti i dati degli studi, si è osservato che la supplementazione di vitamina “D” si associava con una leggera, ma statisticamente non significativa, riduzione di eventi cardiovascolari (rischio relativo 0,90; 95% IC 0,77-1,05).
Integratori di calcio e calcium score delle coronarie
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l controverso effetto degli integratori di calcio nella dieta delle donne in postmenopausa, relativo all’associazione di essi a un rischio di eventi avversi, ha suggerito JoAnn E. Manson e collaboratori del Brigham and Women's Hospital di Boston a esaminare un gruppo di 374 donne in menopausa, randomizzate con 1.000 mg di calcio e 400 UI di vitamina D3 tutti i giorni, in confronto con un altro di 380 donne trattate con placebo per un follow up di 7,4 anni (Menopause, giugno 2010). Sulla base dei risultati della tomografia computerizzata, la media del calcium score delle arterie coronarie per il gruppo di supplementazione è stata 91,6 a fronte di 100,5 del gruppo placebo (p = 0.74). Gli AA. in ulteriore analisi hanno trovato che il gruppo con integratori dietetici ha presentato un OR (Odds Ratio) di 0,96 per un punteggio di calcio coronarico tra 0 e 100, un aOR di 0,72 per un punteggio di 101 a 300 e un aOR di 1,09 per un punteggio superiore a 300, rispettivamente. Nessuno di questi risultati era significativamente differente da quelli del gruppo placebo (p> 0,30 per tutti).Anche nelle donne che assumevano calcio e vitamina D al basale in quantità relativamente elevate nella dieta, non è stato rilevato aumento o diminuzione del rischio di calcificazione delle arterie coronariche.
Potenziale Ruolo della Vitamina “D” nella prevenzione CV
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ami L. Bair e collaboratori dell’Intermountain Medical Center, Murray, UT, considerando la scarsità degli studi clinici randomizzati e osservazionali a sostegno dei benefici della vitamina D nella malattia cardiovascolare, hanno riportato all'AmericanHeart Association 2009 Scientific Sessions i risultati di uno studio supiù di 27. 000 persone di 50 anni o più, senza storia di malattia cardiovascolare per poco più di un anno, trovando che quelli con livelli molto bassi di vitamina “D” (<15 ng / mL) avevano il 77% in più di probabilità di morte, il 45% in più di sviluppare malattia coronarica e il 78% in più di avere un ictus, rispetto a quelli con livelli normali (> 30 ng / mL). Quelli con deficit di vitamina “D” presentavano anche il doppio delle probabilità di sviluppare insufficienza cardiaca.Tali risultatipermettevano agli AA di concludere che la moderata carenza di vitamina “D” si associava allo sviluppo di malattia coronarica, insufficienza cardiaca, ictus e morte senza una chiara relazione di causa-effetto.
Ipovitaminosi “D” e scompenso
Eisen HJ e collaboratori della Drexel University, Philadelphia, PAhanno presentato all’Heart Failure Society of America 2010 Scientific Meeting i risultatidi un loro studio di 13.131 persone di età superiore ai 35 anni, arruolati dal NHANES 3 (Terzo National Health and Nutrition Esame Survey) e seguiti in media per otto anni, relativo ai rapporti tra carenza di vitamina “D” e mortalità in scompenso cardiaco (2010 Scientific Meeting; September 14, 2010; San Diego). I livelli serici molto bassi di vitamina “D” si associavano a un rischio di morte da scompenso cardiaco di circa tre volte superiori rispetto a quelli normali. In particolare, le morti per insufficienza cardiaca e quelle per altre cause presentavano rispettivamente il 37% e il 26% di livelli bassi di 25 [OH] D <20 ng/ml, rispetto al basale (p <0,001). Nelle analisi aggiustate per età, sesso, razza, e comorbidità, l'hazard ratio per la mortalità in carenza di vitamina “D” era 3,39 e 2.02 nel caso d’insufficienza di 20-29 ng/mL, risultati entrambi significativi a p <0,001 rispetto ai livelli normali di 25 [OH] D> 30 ng/mL. Alla luce di questi dati, gli AA., sulla base che la carenza di vitamina “D” è molto più comune negli afroamericani (> 60%) rispetto ai bianchi (circa il 20%), hanno considerato i risultati del loro studio come altra possibile spiegazione delle differenze di prevalenza etnica dello scompenso cardiaco.
Ipovitaminosi “D” e PAD
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ichal Melamed e coll. dell’Albert Einstein College of Medicine, Bronx, New York, sulla base delle contrastanti evidenze sugli effetti negativi dell’ipovitaminosi “D” sul sistema cardiovascolare, considerando che i recettori della vitamina hanno un'ampia distribuzione tissutale che include la muscolatura liscia vasale, l’endotelio e i cardiomiociti, prendendo anche atto che i più alti tassi di malattia coronarica e ipertensione si registrano nelle popolazioni più lontane dall'equatore per una minore esposizione al sole, hanno esaminato i dati sui livelli di 25-idrossivitamina-D in 4.839 partecipanti al NHANES (National Health and Nutrition Examination Survey) e valutato l'associazione tra i suoi livelli e la PAD (peripheral artery disease)(Arteriosclerosis, Thrombosis, and Vascular Biology. 2008;28:1179-1185).
Gli AA. Hanno, così, riscontrato che i livelli più elevati di 25-idrossivitamina D si associavano a un inferiore tasso di prevalenza di PAD e solo il 3,7% degli individui con i livelli più alti, il quarto quartile, presentava la malattia. Invece, tra quelli con i livelli più bassi l’8,1% ne era affetto.
Quali soglie di vitamina “D” per la stratificazione del rischio cardiovascolare?
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ami L. Bair e collaboratoridell’Intermountain Medical Center, Murray, UT, con la premessa che la vitamina “D “ è sempre più coinvolta in una vasta gamma di problemi di salute come le malattie cardiovascolari, l’ipertensione,il diabete, la depressione e la malattia renale, volendo ottimizzare le soglie per la valutazione del rischio, hanno valutato 31.289 persone di oltre 50 anni secondo 3 diverse categorie di Vit “D” (J. Am. Coll. Cardiol. 2010;55;A59.E563)definite sulla base dei livelli della vitamina (ng/mL).
I risultati hanno riportato un’età media di 67 ± 11 anni, nel 74% donne con la Cat 2 come migliore indicatore di 7 dei 10 esiti valutati (vedi tabella). La Vit “D” si è associata a un aumentato rischio con livelli crescenti e illivello > 43 ng/ml è apparso quello ottimale.
Integrazione di vitamina “D” in soggetti carenti, associata a un ridotto rischio cardiovascolare
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empre Tami Bair e collaboratori, sulle premesse della particolare prevalenza d’ipovitaminosi “D”, causa non solo di malattie dello scheletro ma anche di cardiovasculopatie tanto da poter essere considerata come marker di rischio, hanno voluto determinare se la normalizzazione del basso livello di partenza di vitamina “D” (<a> 30 ng/mL) potesse associarsi a una riduzione del rischio cardiovascolare stesso (J. Am. Coll. Cardiol. 2010;55;A59.E564). Hanno, quindi, valutato prospetticamente 9.491 pazienti con un grado inizialmente basso di vitamina (<30) definendo almeno un livello nel follow-up e utilizzando l'ultimo per stimare la normalizzare (> 30) con l’associazione della riduzione del rischio CV.
La vit. “D” di base nei pazienti carenti con media di 57 ± 19 anni, per il 77,9% femmine, era 19,3 ± 6. Di essi un totale di 4.507, il 47%, ha segnato un aumento (D> 30) con una riduzione del rischio di morte, di SCA, di scompenso e d’insufficienza renale (vedi tabella).
Gli AA., sulla base di tali dati, hanno concluso che la normalizzazione dei livelli di Vit “D” nei casi di suo deficit, adottando, peraltro, testpoco costosie terapia sicura e di facile somministrazione, assume un indiscutibile vantaggio di salute.