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Notiziario agosto 2010 N°8 - Principi di cura dell'ansia e dell'attacco di panico

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Indice
Notiziario agosto 2010 N°8
I disturbi d'ansia - II^parte
Principi di cura dell'ansia e dell'attacco di panico
Effetti metabolici e cardiovascolari degli antipsicotici
Gli effetti compulsivo-comportamentali nella cura del parkinson
Messaggio per il paziente
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PRINCIPI DI CURA DELL’ANSIA E DELL’ATTACCO DI PANICO

Le diverse strategie di cura dell’ansia e dell’attacco di panico oggi disponibili, con il sostegno anche di una famiglia e di amici acculturati che possono dissipare l’irrazionale, immediata e incoercibile paura, permettono di ottenere risultati positivi nella maggior parte dei pazienti.

L’ottimale ed efficace trattamento, avendo, peraltro, dimostrato di compensare i costi delle cure mediche sino al 94%, prevede anche d’interessarsi di altri problemi emotivi di accompagnamento, qualora presenti, come la depressione, l'alcolismo e la tossicodipendenza. La ristrutturazione cognitiva, la terapia cognitiva, l’esposizione auto percettiva, i farmaci, i gruppi di sostegno e le tecniche di rilassamento sono i principi di terapia dettati dall’American Psychological Association nel 2007 e le attuali linee guida raccomandano più di tutto la pratica cognitivo-comportamentale combinata con uno degli interventi psicofarmacologici. Nella lista dei farmaci, gli inibitori selettivi della ricaptazione della serotonina (SSRI), in particolare la paroxetina e la venlafaxina, hanno sino ad ora dimostrato una superiorità d’azione e vengono, quindi, considerati gli agenti di prima scelta, seguiti dai triciclici (imipramina, clomipramina, desimipramina, ecc.), dalle benzodiazepine (BDZ) ad alta potenza (alprazolam, clonazepam) e dagli IMAO, inibitori delle Mono-Amino-Ossidasi (fenelzina, tranilcipromina). I betabloccanti sono indicati soprattutto per controllare l’irregolarità del battito cardiaco e per modulare la condizione simpatico mimetica. Da notare che le benzodiazepine, pur dimostratesi utili sui sintomi, producono, però, inconvenienti tanto da doverle sostituire quasi regolarmente con gli SSRI, soprattutto negli attacchi di panico ricorrenti e nella profilassi a lungo termine. Al contrario, gli antidepressivi, in particolare i triciclici, dimostrano maggiori vantaggi anche perché provvisti di una pur debole proprietà anti-ansia. Pur tuttavia, a carico degli SSRI si sono documentati sintomi di astinenza e, soprattutto all'inizio del trattamento, casi di esacerbazioni dei sintomi e addirittura attacchi di panico in soggetti sani.

A tale proposito è bene ricordare che g SSRI esercitano una differente inibizione selettiva verso gli isoenzimi del CYP. In particolare la fluoxetina è potente inibitore del CYP2D6 e moderato del CYP2C9 e del CYP3A4, la paroxetina lo è fortemente del CYP2D6, la fluvoxamina fortemente del CYP1A2, del CYP2C19, del CYP2C9 e moderatamente del CYP3A4, la sertralina debolmente-moderatamente del CYP2D6, il citalopram/escitalopram debolmente degli isoenzimi del CYP. Inoltre, gli SSRI dimostrano basso potenziale d’interazioni farmacodinamiche con altri farmaci serotoninergici, ma sempre possibile. Bisogna, difatti, tenere in considerazione la sindrome serotoninergica e il maggior rischio di sanguinamento che si può avere se combinati con i FANS, anche con i bassi dosaggi di aspirina, anticoagulanti orali e antipiastrinici. La duloxetina, che frena la ricaptazione della serotonina e della noradrenalina, è un inibitore moderato del CYP2D6 e, pur dimostrando un basso potenziale d'interazione farmacodinamica con altri farmaci similari, può contribuire alla determinazione della sindrome serotoninergica. Questa rara complicanza del trattamento con questi farmaci è caratterizzata da almeno quattro disturbi associati, generalmente gravi, di tipo motorio, come tremore, mioclonie, convulsioni, di tipo autonomino, come ipertemia, cefalea, sudorazione profusa, tachicardia, ipertensione/ipotensione, diarrea, crampi gastrointestinali, di tipo psichico, come agitazione, confusione, disorientamento, ipomania e logorrea. Si tratta di sintomi non specifici e derivanti da cause differenti come influenza e infezioni gastrointestinali e possono essere presenti in ogni combinazione, sviluppandosi nel giro di 24-48 ore. Agitazione, ipertemia e mioclonia sono i segni essenziali e le alterazioni della coscienza e gli altri segni di alterata funzione autonomica confermano la diagnosi.

Peraltro, a tale proposito, Gianluca Trifirò e collaboratori (Clin Pharmacol Ther 2009; 85: 89-93) del Dipartimento di Informatica medica del Centro medico Erasmus di Rotterdam, sulla base che i disturbi d'ansia colpiscono fino al 20% degli anziani, come riportato da Pollock BG e collaboratori (2), hanno ribaditoche l'introduzione degli SSRI negli anni '80ha notevolmente cambiato la gestione di particolari patologie sempre più invalidanti e letali. Gli Autori, ripercorrendo le ipotesi formulate circa una possibile associazione di tali farmaci con l’ictus ischemico, hanno, così, condotto uno studio caso-controllo su persone di sessantacinque anni e più dell’Integrated Primary Care Information database (1996-2005)dimostrando un rischio significativamente aumentato con il loro uso, soprattutto prima dei sei mesi di terapia, mentre si dimostrava nulla l’associazione con i triciclici e gli altri farmaci. I triciclici, d’altro canto, interagiscono con il CYP2D6 (con azione principale sull’idrossilazione) e con il CYP1A2, CYP2C19 e CYP3A4 (con azione principale sulla demetilazione) e sono suscettibili all’induzione enzimatica di diversi anticonvulsivanti. Questo tipo di farmaci dimostra, di poi, alto potenziale d’interazioni farmacodinamiche, in particolare con gli anticolinergici e i farmaci d’interazioni farmacodinamiche, in particolare con gli anticolinergici e i farmaci che agiscono sul sistema nervoso centrale e su quello cardiovascolare. Essi, nonostante la dimostrata efficacia della clomipramina e dell’imipramina, sono meno utilizzati rispetto agli SSRI perché, alle dosi efficaci, promuovono spesso effetti collaterali mal tollerati, destinati, però, a sfumare e a ridimensionarsi nettamente durante il proseguimento della terapia. Ronald J. Comer, nella sesta edizione del 2010 del suo testo “Fundamentals of Abnormal Psychology”, precisa, difatti, che gli antidepressivi sono efficaci nel prevenire o ridurre gli attacchi di panico funzionando a livello dei recettori cerebrali della noradrenalina. Con essi si raggiungono il recupero completo o massimale nel 50% dei casi e almeno qualche miglioramento nell’80%. Questi farmaci richiedono, però, un monitoraggio periodico per evitare le recidive e spesso è anche utile l’associazione di alcune benzodiazepine (in particolare l’alprazolam) per agire nei loro tempi di latenza. Le monoaminossidasi danno un elevato rischio d’interazioni farmacodinamiche, potenzialmente fatali, in particolare con i cibi ricchi di tiramina, i farmaci simpaticomimetici e gli altri antidepressivi.

Le raccomandazioni vigenti, sulla base delle evidenze scientifiche, consigliano come primo agente, per il rapido controllo della sintomatologia ansiosa, una benzodiazepina a breve tempo di dimezzamento, seguita da un serotoninergico portato lentamente a dose terapeutica. In conformità a tale intenzione è bene ricordare che l’alprazolam, somministrato a dosi di 0,5-6 mg, ha un tempo di dimezzamento di 12-15 ore, il bromazepam a 3-15 mg di 12, il diazepam a 5-30 di 24- 72, il clordiazepossido a 10-50 di 24-100, il clobazam a 20-30 di 20, il clonazepam a 1- 8 di 34, il clorazepate a 15-60 di 60, il lorazepam a 1-4 di 11-13, il medazepam a 10-30 di 29, l’oxazepam a 30-90 di 4-20, il tofizopam a 50-300 di 6, il buspirone a 20-30 di 2-11, l’idroxizine a 300-400 di 12-20. A ogni buon conto, gli elevati dosaggi di tali farmaci richiesti nell’attacco di panico, soprattutto dopo loro uso prolungato, provocano solitamente il rischio di sedazione, di alterazioni cognitive e psicomotorie, di dipendenza, soprattutto psicologica, e, in alcuni casi, di abuso. La letteratura medica offre, pertanto, dati controversi sulla terapia benzodiazepinica nel disturbo di panico e alcuni esperti le raccomandano nella strategia a lungo termine, mentre altri ritengono che esse siano da evitare a causa dei rischi di tolleranza e dipendenza. A tale proposito, il National Institute for Clinical Excellence ha concluso che la classe delle benzodiazepine non è efficace nel trattamento del disturbo di panico a lungo termine, raccomandandole solo a breve termine mentre la World Federation of Societies of Biological Psychiatry le suggerisce solo nei casi resistenti e non come farmaco di prima linea. Di recente si è resa disponibile la venlafaxina, con forte inibizione sulla ricaptazione della serotonina e della noradrenalina e debole sulla dopamina, non priva, però, di effetti indesiderati, come disgeusia, perdita dell’appetito e di peso, agitazione incontrollabile di parte del corpo, dolore o bruciore o intorpidimento o formicolio locali, rigidità muscolare, contrazioni, sbadiglio, sudorazione, vampate di calore, minzione frequente, difficoltà a urinare, mal di gola, brividi o altri segni d’infezione, ronzio alle orecchie, cambiamento della libido e delle prestazioni sessuali, pupille dilatate, sonnolenza, debolezza, stanchezza, vertigini, mal di testa, incubi, ansia, nausea, vomito, mal di stomaco, stipsi, diarrea, meteorismo, pirosi, eruttazione, bocca asciutta.

Sulla base delle incertezze di efficacia e di sicurezza dei farmaci è aumentato il valore della CBT (terapia cognitivo-comportamentale), forma provata di psicoterapia psicodinamica nel disturbo di panico con o senza agorafobia. In effetti, un certo numero di studi clinici randomizzati ha dimostrato che la CBT permette di raggiungere lo stato indenne da panico nel 70-90% dei pazienti, anche in un periodo relativamente breve, da sei a otto settimane, migliorando l'efficacia dei farmaci, riducendo il rischio di recidiva per chi li ha interrotti, proponendosi, così, come alternativa ai non responder ai farmaci stessi. L'obiettivo della CBT è di aiutare un paziente a riorganizzare i processi di pensiero e i pensieri ansiosi, per quanto riguarda l'esperienza che provoca il panico. La terapia autopercettiva, in particolare, ha dimostrato anche successo nell'87% dei pazienti in uno studio clinico controllato, simulando i sintomi di panico in un ambiente controllato [Psychiatric Times. Feb 2008,25 (2): 40]. La chiave per l'induzione è che gli esercizi devono imitare i sintomi più stimolanti l’attacco. Dopo ripetute prove, il paziente assimila, attraverso l'esperienza, che le sensazioni interne non hanno bisogno di essere temute, diventando, così, meno sensibile o insensibile a esse. Conformemente il cervello (ippocampo e amigdala) impara a non temerle e il simpatico sfuma l'attivazione del sistema nervoso. Per i pazienti il cui disturbo di panico comporta agorafobia, l'approccio tradizionale di terapia cognitiva consiste nell'esposizione in reale, per cui il malato viene a poco a poco accompagnato da un terapeuta alla concreta situazione che provoca panico. La psicoterapia psicodinamica è un'altra strategia, dimostratasi efficace in studi clinici controllati, che si concentra sul ruolo di dipendenza, ansia da separazione e rabbia nel causare il disturbo di panico. La terapia prevede preliminarmente di esplorare i fattori di stress che portano agli episodi e, di poi, di sondare la psicodinamica dei conflitti sottostanti il disturbo e dei meccanismi di difesa che contribuiscono agli attacchi, con attenzione ai problemi di transfert e dell'ansia di separazione implicati nella relazione terapeuta-paziente. D’altro canto, secondo studi clinici comparativi le tecniche di rilassamento muscolare e gli esercizi di respirazione non hanno dimostrato efficacia ma possibile aumento del rischio di ricaduta. In sostanza un adeguato trattamento da parte di un professionista esperto può prevenire gli attacchi di panico o, almeno, ridurli in modo sostanziale nella gravità e frequenza, offrendo un sollievo notevole. Pur tuttavia, la recidiva è sempre possibile ma, proprio come l'episodio iniziale, sempre efficacemente trattabile.

Vladen Starcevic del Nepean Hospital and University di Sydney ha condotto un esame dei recenti progressi nel trattamento dei disturbi di panico con l’obiettivo di trovare un equilibrio tra le opzioni psicologiche e psicofarmacologiche (Current opinion in psychiatry. 2006; 19: 79-83), per la rapida scomparsa degli attacchi, l’attenuazione dell'ansia generale e di quella anticipatoria, la diminuzione o scomparsa dell’evasione fobica, l’aumento delle proprie capacità, la migliore qualità di vita, la diminuzione della vulnerabilità alle recidive, notoriamente a tassi elevati, l’efficacia a lungo termine, il mantenimento dei guadagni raggiunti dopo la cessazione della cura, la minima induzione alla dipendenza, la buona tollerabilità, la paucità degli effetti collaterali, la facilità di somministrazione, l’attitudine alla compliance. Tra i principali vantaggi degli interventi farmacologici verso la CBT, Starcevic ha annotato l’esordio terapeutico più pronto (in particolare con le benzodiazepine), la prevenzione/soppressione più affidabile degli attacchi di panico con riduzione dell'ansia, la maggiore probabilità di prevenzione e/o trattamento delle complicanze psichiatriche e delle psicopatologie secondarie, come il disturbo depressivo maggiore, il protocollo di trattamento più facile da rispettare, il protocollo di trattamento più accessibile, più semplice da gestire e a costo inferiore.
Tra i principali svantaggi degli interventi farmacologici verso la CBT, ha invece rilevato l’efficacia minore nel ridurre l’evasione agorafobica, gli effetti collaterali associati, a volte intollerabili, la mancata promozione di coping attivo e l’incoraggiamento di un’eccessiva dipendenza dai farmaci, psicologica e/o fisiologica, la vulnerabilità alla ricaduta con minor grado di essere influenzata e più probabile con l’interruzione del trattamento.
In definitiva anche Starcevic conclude che le benzodiazepine sono indicate nei disturbi di panico, da moderati a gravi, per accelerare i risultati terapeutici iniziali e per ridurre gli effetti collaterali che possono verificarsi con gli altri farmaci, mentre non sembrano efficaci se aggiunti per l’effetto a lungo termine, né sembrano favorire il paziente, di là dalle prime settimane di trattamento. Peraltro, anche se dotate di rischi minori, bisogna sempre considerare la possibilità del loro eccesso d’uso e le complicazioni dopo la loro sospensione. Il trattamento farmacologico unito alle tecniche cognitivo-comportamentali può, invero, essere utile per dilatare i risultati a lungo termine e abbassare il rischio di ricaduta dopo la sua interruzione.
In conclusione, la paura e l'ansia sono normali reazioni a eventi stressanti della nostra vita, ma il panico è una grave condizione che colpisce senza motivo o preavviso, causando attacchi improvvisi neuropsichici, così pure sintomi fisici, come sudorazione e sensazione di cuore in gola. La persona, colta da un attacco di panico, presenta una paura di risposta sproporzionata alla situazione, spesso senza l’imminenza di un pericolo e, nel tempo, sviluppa una costante angoscia di avere un altro attacco, con detrimento funzionale quotidiano e della qualità generale della vita. Il panico occorre, spesso, insieme con altre gravi condizioni come la depressione, l'alcolismo o la tossicodipendenza. L’attacco di panico non può essere impedito. Tuttavia, ci sono alcuni espedienti che possono ridurne lo stress e i sintomi, come evitare categoricamente il consumo di prodotti che contengono caffeina, come caffè, tè, cola e cioccolato. Opportuno e necessario, a tale proposito, consultare il medico o il farmacista prima di assumere qualsiasi farmaco o rimedio a base di erbe da banco (OTC), contenendo molti di questi prodotti sostanze chimiche che possono aumentare i sintomi dell'ansia. Non bisogna, peraltro, dimenticare norme comportamentali salutari e corrette, come il praticare un esercizio fisico regolare e lo adottare una dieta sana ed equilibrata.



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