La dieta dai primordiali cacciatori-raccoglitori all’uomo moderno
Le conoscenze attuali hanno da qualche tempo portato a riconoscere che le interazioni tra genetica, ambiente, natura e cultura intervengono fondamentalmente nel determinismo e mantenimento sia dello stato di salute e sia della malattia. A tal proposito, la disponibilità negli ultimi decenni delle più avanzate tecniche di biologia molecolare ha permesso di dimostrare che, mentre i fattori genetici presiedono alla suscettibilità delle condizioni patologiche, quelli ambientali inducono la malattia negli individui geneticamente predisposti. In tutto questo la nutrizione riveste una notevole rilevanza nel suo ruolo di fattore ambientale. Peraltro, molti studi sui cambiamenti della dieta hanno anche indicato che i più importanti hanno coinvolto soprattutto il tipo e la quantità degli acidi grassi essenziali e degli antiossidanti alimentari. Su tale presupposto, quindi, la ricerca ha utilizzato gli strumenti della biologia molecolare e della genetica per definire i meccanismi con cui i geni possono influenzare l'assorbimento degli alimenti, il metabolismo e la loro escrezione, la percezione del gusto e del grado di sazietà e i meccanismi con cui i nutrienti influenzano l'espressione genica stessa.
In quest’ordine di considerazioni bisogna anche aggiungere, però, che dall'inizio della rivoluzione agricola, mentre le principali trasformazioni della dieta degli uomini si sono sviluppate negli ultimi 10.000 anni, al contrario i geni sono rimasti pressoché invariati. In effetti, essendo il tasso di mutazione spontanea del DNA nucleare stimato dell’ordine dello 0,5% per ogni milione di anni, gli ultimi 10.000 rappresentano un periodo molto piccolo per un cambiamento significativo dei geni, forse equiparabile allo 0.005%. In rapporto a tutto ciò, se ne deduce che i geni degli uomini contemporanei sono molto simili a quelli degli antenati del periodo paleolitico di 40.000 anni fa, momento in cui il profilo genetico era già stabilito. Pur tuttavia, gli esseri umani vivono oggi in un ambiente nutrizionale molto diverso da quello per il quale fu selezionata la propria costituzione genetica. Peraltro, gli studi sugli aspetti evolutivi della dieta indicano, come prima accennato, che gli ampi cambiamenti che l’hanno interessata sono avvenuti specialmente nei riguardi del tipo e nella quantità degli acidi grassi essenziali e degli antiossidanti degli alimenti.
Inoltre, c’è da annotare che le condizioni di vita e di sanità pubblica, progressivamente migliorate negli ultimi decenni, hanno, in particolare, fatto segnare dal 1800 in poi un aumento crescente della speranza di vita in tutto il mondo e, soprattutto, nelle società più economicamente sviluppate.
Sotto altro aspetto, la malattia aterosclerotica parallelamente ha sostituito sempre più decisamente all’apice della classifica delle principali cause di morte le malattie infettive. Tutto ciò ha fatto maturare, quindi, il presupposto comune che l'aterosclerosi fosse una patologia prevalentemente legata allo stile di vita. In effetti, si è avanzata l’ipotesi che se l’uomo moderno avesse potuto emulare gli antenati dell’era preindustriale o anche preagriculturale, avrebbe probabilmente potuto evitare l'aterosclerosi, o almeno le sue manifestazioni cliniche.
Così che, in conformità a queste premesse, si sono avanzati spontanei i quesiti:
- Allora l’aterosclerosi quando ha fatto la sua apparizione nel corso della storia dell’uomo?
- Si può davvero definire l’aterosclerosi una patologia dello stile di vita?
- L’aterosclerosi è semplicemente la vera malattia dell’invecchiamento o è legata ad altre cause?
L'aterosclerosi attraverso 4000 anni di storia: cosa raccontano le mummie
Già nel 1852 Johann Nepomuk Czermak durante l'autopsia della mummia di un’anziana donna egiziana rilevò aspetti di aterosclerosi dell’aorta (S.B. Akad. Wiss. Wien, 9, 427 (1852).).
In seguito, furono identificate in autopsie di altre mummie egiziane di 3000 anni fa altre lesioni consimili, sempre nell’aorta, ma anche in altre grandi arterie.
Nel 1931 Long AR nell’esaminare il cuore di una mummia della collezione del Metropolitan Museum di New York, vissuta durante la ventunesima dinastia (1070-945 aC), trovò l’evidenza istologica di un’aterosclerosi coronarica. Vi era anche l’ispessimento intimale e la calcificazione nelle arterie coronarie epicardiche, associati ad aree di fibrosi miocardica in coerenza con un precedente infarto miocardico (Chic) 1931; 12:92–4.).
Stimolati da queste ricerche, Randall C Thompson dell’University of Missouri, Kansas USA e collaboratori hanno tentato di dare risposta ai quesiti espressi al termine del precedente capitolo con il loro studio di revisione scientifica sulle mummie degli esseri umani antichi (The Lancet, Early Online Publication, 11 March 2013doi:10.1016/S0140-6736 (13) 60598-X).
Gli Autori hanno, infatti, analizzato i risultati delle ricerche affidate alla moderna TAC per la valutazione dell'entità delle calcificazioni vascolari negli individui antichi vissuti in ambienti e culture diverse.
Il loro studio, denominato HORUS in rapporto all’omonima divinità egizia, intendeva anche poter precisare se l'aterosclerosi fosse comune in diverse società antiche, comprese quelle con marcate differenze di dieta e di caratteristiche genetiche. Erano, così, oggetto dello studio 137 mummie di oltre 4000 anni fa, appartenenti a popolazioni di quattro disparate regioni geografiche del mondo. In particolare, erano compresi i corpi di settantasei antichi egizi dell’era predinastica, cinquantuno dei popoli dell’attuale Perù, cinque delle culture arcaiche del sud-ovest dell’America e cinque delle Isole Aleutine dell'Alaska moderna.
La selezione era stata effettuata per la particolarità delle aree geografiche, per le età e i vari attributi culturali e sulla base dello stato di conservazione delle mummie, probabilmente corrispondenti a soggetti adulti. In particolare, gli antichi egizi e i peruviani erano contadini, i puebloani ancestrali erano raccoglitori/agricoltori e gli isolani delle Aleutine erano cacciatori/raccoglitori senza agricoltura. Era noto, peraltro, che tutti questi popoli non erano vegetariani ed erano dediti a un’attività fisica abbastanza intensa.
Le diete, come anche i climi di appartenenza, erano piuttosto disparati e l’alimentazione variava notevolmente in rapporto alla notevole distanza geografica che li divideva. Pesce e selvaggina erano presenti in tutte le culture, ma la fonte di proteine variava dai bovini domestici degli egiziani alla dieta quasi esclusivamente marina degli Unangani.
Gli Autori nel loro studio definivano, quindi, l’aterosclerosi certa in caso di dimostrazione di una placca calcifica nella parete di un'arteria e probabile se le calcificazioni si estendevano lungo il corso previsto del vaso. L’aterosclerosi probabile e quella certa si osservavano in tutte le quattro aree geografiche in quarantasette delle 137 mummie, pari al 34% dei casi. In particolare, nei settantasei antichi egizi si ritrovava in ventinove, pari al 38%, nei cinquantuno antichi peruviani in tredici, pari al 25%, nei cinque soggetti del sud-ovest dell’America in due, pari al 40% e nei cinque delle Isole Aleutine dell'Alaska moderna in tre, pari al 60%, (p = NS).
Peraltro, l’aterosclerosi era presente nell’aorta di ventotto mummie, pari al 20% dei casi, nelle arterie iliache o femorali di venticinque, pari al 18% dei casi, nelle arterie poplitea e tibiale di venticinque, pari al 18% dei casi, nelle arterie carotidi di diciassette, pari al 12%dei casi, e nelle coronarie di sei, pari al 4% dei casi. Dei cinque letti vascolari esaminati, l’aterosclerosi era presente da uno a due in trentaquattro mummie, il 25% de casi, da tre a quattro in undici, l’8% dei casi, e in tutti e cinque i distretti vascolari in due, l’1% dei casi. L’età al momento della morte era correlata positivamente con l'aterosclerosi.
In conclusione, secondo i dati degli Autori, l'aterosclerosi nelle quattro popolazioni preindustriali, compresi i cacciatori e i raccoglitori preagricolturali, era presente in più di un terzo dei campioni mummificati. Ciò aumentava, invero, l’ipotesi della possibilità di una predisposizione naturale della malattia.
Pertanto, la tomografia computerizzata (TAC) delle mummie di queste aree attraverso un periodo di 4000 anni suggeriva che nelle popolazioni antiche la malattia sarebbe stata molto più comune di quanto si potesse credere. Tale dato di fatto comportava, secondo gli Autori, che l’arteriosclerosi, anche se comunemente considerata una malattia moderna, era legata più sostanzialmente a una predisposizione naturale.
Definizione dei grassi alimentari
I lipidi, o grassi, sono largamente diffusi in natura e insieme ai carboidrati, alle proteine e agli acidi nucleici costituiscono una delle quattro principali classi di composti organici d’interesse biologico. Si caratterizzano per essere solubili nei solventi organici, come l’alcool, mentre sono insolubili in acqua. La classe dei grassi più comunemente presente in natura è quella delle sostanze unite dai legami estere ai gruppi idrossilici del glicerolo. Sono componenti di base delle molecole anfipatiche, ossia contenenti sia un gruppo idrofilo e sia idrofobo, quali i glicolipidi e i fosfolipidi. Essi entrano nella composizione delle membrane biologiche, ma costituiscono anche una riserva energetica sotto forma di triacilgliceroli, esteri neutri del glicerolo. Sono responsabili del trasporto e della localizzazione di membrana delle proteine specifiche e alcuni derivati hanno funzioni ormonali e di messaggeri di segnale.
Si trovano in natura quasi esclusivamente legati come esteri al gruppo ossidrilico di un alcool, in genere il glicerolo, come glicerolipidi, o al gruppo ossidrilico del colesterolo come suoi esteri. Più raramente si legano a un gruppo aminico di un alcool, come nella sfingosina. Peraltro, nei sistemi biologici solo una piccola frazione di acidi grassi è presente in forma libera e, comunque, complessata a proteine specializzate, quali l’albumina plasmatica.
Il nome sistematico di un acido grasso deriva dal nome dell’idrocarburo da cui si forma con sostituzione della –o finale con la desinenza –oico.
Gli atomi di carbonio sono numerati dal gruppo carbossilico e il secondo e il terzo sono spesso indicati rispettivamente come α e β. L’atomo di carbonio metilico all’estremità distale della catena è chiamato anche carbonio ω o n. La posizione di un doppio legame è indicata dal simbolo Δ, seguito dal relativo numero esponente. In alternativa, la posizione di un doppio legame può essere indicata contando dall’estremità distale e considerando l’atomo del carbonio metilico ω o n come numero 1. Gli acidi grassi sono costituiti da una catena carboniosa, di solito a numero pari di atomi di carbonio, in genere tra dodici e ventiquattro. I più comuni sono quelli a sedici e diciotto atomi. Essi sono normalmente indicati con la lettera C, che sta per carbonio, seguita da un numero corrispondente agli atomi di carbonio contenuti nella catena. Seguono poi i due punti e un altro numero corrispondente ai doppi legami.
Struttura dei grassi alimentari
Negli alimenti i grassi sono costituiti per oltre circa il 95% dai trigliceridi o triacilgliceroli, formati da tre molecole di acidi grassi esterificati con il gruppo idrossilico (-OH) di una molecola di glicerolo. Gli acidi grassi, in particolare, costituiscono la molecola dei trigliceridi e dei lipidi complessi e possono esterificare anche il colesterolo. Essi hanno, di solito, una struttura lineare con un gruppo carbossilico HOOC- a un estremo e un gruppo metilico -CH3 all’altro. Il resto della molecola è una catena d’idrocarburi. Sono composti sintetizzati in natura attraverso la condensazione di unità di malonyl coenzima A per azione del complesso multienzimatico acido grasso sintasi.
I saturi sono costituiti da una catena carboniosa con legami singoli C-C e le numerose forme presenti in natura differiscono tra loro per il numero di atomi di carbonio, partendo dall’acido propionico con tre atomi fino all’esatriacontanoico con trentasei. I rappresentanti d’interesse biologico sono acidi carbossilici con un numero di atomi di carbonio pari, comunemente tra quattro e ventisei.
Più precisamente possono essere classificati in rapporto alla lunghezza della loro catena carboniosa in quattro gruppi:
- a catena corta da quattro a sei atomi di carbonio,
- a catena media da otto a dodici atomi di carbonio,
- a catena lunga da quattordici a diciotto atomi di carbonio,
- a catena molto lunga con venti o più atomi di carbonio.
Nonostante la lunghezza della catena degli idrocarburi sia un fattore determinante nella funzione degli acidi grassi, essi sono comunemente classificati in base alla presenza dei doppi legami in:
- saturi (SFA) per l’assenza dei doppi legami tra gli atomi di carbonio,
- monoinsaturi (MUFA) con un singolo doppio legame,
- polinsaturi (PUFA) con diversi doppi legami.
Nell’acido grasso insaturo la molecola si piega nella sede del doppio legame carbonio-carbonio, mentre nel saturo, in assenza dei doppi legami, la molecola è lineare.
Come accennato in precedenza, gli acidi grassi saturi possono ottenersi con gli alimenti della dieta o derivare in forma endogena da una molecola di acetil-CoA per sintesi dal malonil-CoA. Sono, quindi, come già detto, nutrienti non essenziali.
I MUFA, per loro conto con un unico doppio legame nella catena carboniosa, hanno come rappresentanti principali della dieta l’acido palmitoleico (C16:1 n-7) e l’oleico (C18:1 n-9). Questi derivano rispettivamente dall’acido stearico e dal palmitico per biosintesi regolata dall’enzima Δ-9-desaturasi. L’olio d’oliva con percentuali variabili dal 60 all'80% è particolarmente ricco di acido oleico, anche presente nelle mandorle, nelle nocciole, nelle arachidi, nei pistacchi e nei loro rispettivi oli. L’acido palmitoleico, invece, si trova specialmente nell'olio di Macadamia e in quello dell’olivello spinoso.
Per quanto riguarda i PUFA, essi sono ulteriormente classificati come acidi grassi n-3 e n-6 sulla base della posizione del primo doppio legame dal terminale metilico. Negli n-3 il primo doppio legame avviene al terzo atomo di carbonio della catena dell'acido grasso dal terminale metilico (o omega) e negli n-6 al sesto.
Inoltre, negli acidi grassi naturali la disposizione spaziale dell’idrogeno dei legami semplici è trans (t), mentre nei legami doppi assume comunemente una conformazione di tipo cis (c). Tale denominazione è in rapporto alla posizione spaziale degli atomi d’idrogeno associati ai carboni impegnati nel doppio legame.
Nella - cis i due atomi d’idrogeno legati a quelli di carbonio impegnati nel doppio legame sono disposti sullo stesso piano, mentre nella - trans la disposizione spaziale è opposta.
Per quanto riguarda la nomenclatura essa risponde al numero degli atomi di carbonio, a quello dei doppi legami e alla posizione del primo a partire dal gruppo metilico con l'aggiunta di o “n”, in modo da indicare che quelli con la stessa numerazione sono collegati metabolicamente l'uno con l'altro.
Gli animali terrestri, in particolare i mammiferi, contengono prevalentemente acidi grassi saturi (SFA), mentre gli oli vegetali sono costituiti, soprattutto, dai monoinsaturi, di cui l’acido oleico è il rappresentante principale.
Gli SFA sono acidi grassi completamente idrogenati e, non contenendo doppi legami tra gli atomi di carbonio, hanno una forma strutturale lineare che permette di confezionarli per le riserve. Essi a temperatura ambiente esistono in uno stato solido e variano in lunghezza da due a quaranta atomi di carbonio, presentandosi, però, nella catena alimentare comunemente in maggior parte con dodici e diciotto, come l’acido laurico (12: 0), il miristico (14: 0), il palmitico (16: 0) e lo stearico (18: 0). Meno comunemente presenti negli alimenti sono i composti a catena più breve, come il caprilico (8: 0) e il caprico (10: 0). Questi ultimi sono MCT (medium-chain triglycerides).
Proprietà dei grassi alimentari
L'alimentazione interviene in modo importante nel mantenimento della salute umana giocando un ruolo abbastanza chiaro nella promozione e prevenzione delle malattie. In particolare, i grassi della dieta, pur essendo sostanze nutrizionali essenziali e indispensabili per la vita, determinano, per molti versi, condizioni negative per la salute. Negli ultimi decenni, peraltro, diverse ricerche hanno potuto dimostrare che i più importanti cambiamenti della dieta si sono verificati, soprattutto, sul tipo e sulla quantità degli acidi grassi essenziali e degli antiossidanti assunti. Sono anche emerse evidenze importanti sulle relazioni tra i grassi alimentari e la salute. In particolare, da qualche tempo si è andata consolidando la convinzione dello stretto rapporto tra i grassi e la patologia, più specificamente orientato verso il problema dell’arteriosclerosi, delle malattie cardiovascolari e della coronaropatia.
Gli acidi grassi sono, in particolare, insolubili in acqua e sono provvisti di un’alta proprietà energetica.
Svolgono importanti funzioni, quali quella:
- estetica, partecipando alla definizione della morfologia del corpo,
- plastica, partecipando alla formazione delle membrane cellulari di tutti i tessuti dell’organismo,
- di protezione e sostegno di tutte le strutture anatomiche,
- d’isolamento termico, impedendo la dispersione della temperatura corporea,
- energetica, permettendo nell’organismo la formazione di riserve in poco volume e assicurando, così, 9Kcal di energia lorda/gr,
- di mezzo di trasporto delle vitamine e di altre sostanze liposolubili,
- di appetibilità degli alimenti.
Gli SFA derivano, come accennato, soprattutto da fonti animali, come carni, uova, burro, o dai prodotti alimentari trasformati contenenti oli vegetali, naturalmente saturi. I grassi animali, come il burro, il lardo e il sego di manzo, contengono prevalentemente l’acido palmitico (16: 0) e lo stearico (18: 0). Per loro conto, invece, i grassi alimentari ad alto contenuto di acido stearico (18: 0) includono il sego con il 19% di grasso 18 : 0 e il burro di cacao con il 33% di 18 : 0. Le evidenze più recenti portano a considerare che questo tipo di grasso pare che non influisca negativamente sui livelli del colesterolo del siero poiché i cibi a suo alto contenuto possono incidere sulla salute in altri modi. Peraltro, sebbene i prodotti di origine animale costituiscano le fonti primarie degli acidi grassi saturi, gli oli vegetali tropicali, come quello di palma e di palmisto, sono comunemente utilizzati negli alimenti trasformati, principalmente a causa delle loro proprietà fisiche. Peraltro, questi oli, che si ricavano entrambi da un albero di palma, possiedono differenti profili di acidi grassi. Infatti, l’olio di palma contiene il 49% di SFA, principalmente il 16 : 0, e quello di palmisto l’82%, principalmente il 12: 0. In confronto, lo 87% degli acidi grassi dell’olio di cocco, derivato dalla palma omonima, sono saturi, con il 12: 0 in alta concentrazione. Anche se l'olio di cocco non è comunemente utilizzato negli alimenti trasformati, i nuovi prodotti alimentari sul mercato, come il latte, gli spread, lo yogurt, che lo contengono, reclamizzano i presunti benefici degli MCT (medium-chain triglycerides) per la salute. In aggiunta agli SFA presenti in forma naturale negli alimenti, gli oli vegetali idrogenati hanno origine industriale con un processo di aggiunta di atomi d’idrogeno ai legami insaturi, tanto da trasformarli in saturi, formando, così, grassi con caratteristiche ideali per la produzione alimentare. In questo processo di produzione di acidi grassi completamente idrogenati (SFA), si formano, però, anche acidi grassi parzialmente idrogenati (TFA).
Pur tuttavia, gli SFA non sono comunemente commercializzati in forma d’integrazione alimentare e gli MCT rappresentano un'eccezione.
Gli integratori MCT contengono in capsule o in forma liquida principalmente acidi grassi 8: 0 e 10: 0. Alcuni derivano dall’olio di cocco che ne contiene più del 50% e di cui il 58,7% ha una lunghezza di catena carboniosa da sei a dodici. Per questa ragione sono commercializzati con l’indicazione di proprietà di promozione della salute. A questo proposito, è importante notare che l'olio supplementare di MCT è utilizzato per la terapia medica nutrizionale in pazienti privi della capacità di metabolizzare correttamente i lipidi a catena lunga.
Pur se la percentuale di calorie derivate dal consumo degli SFA nella dieta sia per gli uomini e sia per le donne è raccomandata in quota inferiore al 10%, i dati stimati di numerose osservazioni di tutto il mondo riportano valori senz’altro superiori. Per quanto riguarda la razza, l’etnia e lo stato economico delle persone non vi sono differenze particolari di raccomandazione. È da notare, però, che la pizza, i latticini e i dessert di una dieta occidentale compongono circa il 31% degli SFA di cui i più consumati sono il palmitico (16: 0) e lo stearico (18: 0), che rappresentano ognuno il 25% della loro quota totale.
I grassi trans, per loro conto, sono un tipo di grassi insaturi rari in natura e sono presenti in tracce nella carne e nei latticini. Essi contengono una catena lunga d’idrocarburi saturi o anche insaturi con doppi legami. In natura gli insaturi hanno generalmente una configurazione cis. La parziale idrogenazione comporta la formazione di un ampio numero d’isomeri posizionali e geometrici degli acidi grassi cis naturali. Tra i numerosi isomeri negli oli idrogenati degli TFA prodotti industrialmente il principale è l’acido elaidico (18: 1).
I TFA sono presenti nella carne dei ruminanti e nel grasso del loro latte, sempre come idrogenazione biologica dei grassi insaturi 18: 2 e 18: 3 nel rumine. Il più rilevante TFA nella carne dei ruminanti e nei latticini è il c9, t11-CLA con l’acido vaccinico che raggiunge dal 50 all’80% del totale TFA prodotto. Da notare che il CLA è classificato come acido grasso n-6 e non come rTFA (ruminant TFA). Risorse di TFA commerciali parzialmente idrogenati includono quelle degli oli di origine marina o vegetale. Nella produzione alimentare i grassi liquidi, come gli oli vegetali cis insaturi, sono idrogenati per produrre grassi saturi con proprietà fisiche più desiderabili, come quella di fondersi a una temperatura prefissata e più conveniente.
Come già accennato, i dTFA (Dietary trans fatty acids) sono principalmente prodotti d’idrogenazione secondo un processo chimico che rende insaturi gli oli solidi a temperatura ambiente. Essi sono presenti ad alti livelli nella margarina, nello strutto e nei cibi preparati.
Le differenze di lunghezza della catena e lo stato di saturazione e, quindi, il numero dei doppi legami degli acidi grassi condizionano, comunque, le loro prestazioni e quelle dei cibi che li contengono, anche riguardo al loro ruolo nell’organismo e all’impatto sulla salute umana e sul rischio di malattie. L’organismo umano riesce a sintetizzare in quantità adeguate solo gli acidi grassi saturi e i monoinsaturi, mentre non dimostra questa capacità nei riguardi di quelli a due o più doppi legami. Questi sono, pertanto, definiti EFA (Essential Fatty Acids) e sono indispensabili sia per le funzioni cellulari di base e sia in generale per la crescita e lo sviluppo dell’organismo.
Peraltro, la diversa forma molecolare, lineare nei grassi saturi o piegata a livello del doppio legame negli insaturi, conferisce, invero, la proprietà della consistenza, una delle più importanti caratteristiche di queste macronutrienti. In effetti, la forma lineare permette alla molecola di impaccarsi bene, per cui il grasso assume la consistenza solida a temperatura ambiente. Al contrario la forma piegata comporta la densità liquida degli oli. I doppi legami carbonio-carbonio della molecola dell'acido grasso insaturo influiscono anche sulla sua conservabilità. Infatti, essi rendono la molecola più facilmente deteriorabile e ossidabile da parte degli agenti, come l’ossigeno, il calore e la luce. Pertanto, il numero dei doppi legami della molecola condiziona le sue proprietà, rendendola più labile e meno resistente alla conservazione.
Grassi alimentari saturi e salute cardiovascolare
Da qualche tempo si è ritenuto che, essendo il grasso il più ricco di calorie tra i macronutrienti, la riduzione del suo consumo avrebbe potuto avere come logica conseguenza un maggiore calo dell'incidenza dell’obesità, del diabete e della sindrome metabolica. In effetti, gli SFA, per la loro struttura lineare e per la loro capacità di far parte saldamente delle membrane cellulari, con le loro proprietà di segnalazione tenderebbero a produrre conseguenze pregiudizievoli per la salute. Pur tuttavia, i vari composti dimostrano, in tal senso, differenti comportamenti. Gli acidi grassi 12 : 0, 14 : 0 e 16 : 0 determinano aumento delle LDL, mentre l’acido stearico (18 : 0) ha un’azione neutrale, ma un effetto trombogenico per interferire con l’aggregazione piastrinica. Esso, comunque, è presente in parecchi alimenti da limitare nella dieta, come i dolci, i dessert, i formaggi e la carne lavorata.
Di certo, da quando William Heberden presentò al Royal College of Physicians nel 1768 e pubblicò nel Medical Transactions of the College del 1772 il classico resoconto sull’angina pectoris e dieci anni più tardi Edward Jenner gli suggerì in una lettera l'associazione con la malattia delle arterie coronariche, l’argomento è stato di sempre maggiore interesse tra i medici delle successive generazioni. Pur tuttavia, per lungo tempo i diversi articoli della letteratura scientifica, che si occupavano dell’arteriosclerosi, dell’ostruzione coronarica e della loro relazione con l’ischemia e l’infarto miocardico, riportavano scarsa considerazione sulla patogenesi della malattia coronarica e, soprattutto, non rivolgevano alcuna attenzione ai lipidi del sangue o alimentari. Incominciarono, in effetti, all’epoca a descriversi in prima battuta solo le associazioni dell'origine della malattia coronarica con l’ipertensione e il fumo di sigaretta e anche di tanto in tanto con l'ereditarietà e con le condizioni di stress lavorativo e psico-socio-ambientale.
In ambito sperimentale, invece, Weiss S e Minot GR, rivisitando quanto a loro noto sulla nutrizione e l'arteriosclerosi, pur dando il resoconto positivo di studi sui conigli alimentati con dieta ricca di colesterolo, si dichiararono non del tutto convinti che tale relazione potesse riscontrarsi negli uomini. Si avanzava solo la possibilità che una dieta ricca di proteine, in particolare di carne, avrebbe potuto avere effetti dannosi.
Negli anni ‘40 i lipidi erano solo considerati come costituenti delle placche ateromatose e con origine dal plasma, ma ancora allora i rapporti tra i disturbi del metabolismo lipidico e l’aterosclerosi o la malattia coronarica erano considerati solo nel contesto del diabete, dell’ipotiroidismo e della sindrome nefrosica.
A tal proposito, è bene ricordare che nel 1949 Ryle JA e Russell WT dell’Institute of Social Medicine, Oxford nella loro revisione annotavano in Inghilterra e Galles un drammatico aumento della mortalità per malattia coronarica nel corso degli ultimi venticinque anni (Br Heart J 1949; 11: 370-89).
Emergevano, peraltro, i seguenti punti d’interesse:
- La mortalità tra i maschi e le femmine di età compresa fra trentacinque anni e oltre nel 1945 era quindici volte superiore a quella del 1921.
- Il numero annuale dei decessi per malattia coronarica era al momento di circa 25.000 casi.
C’erano, quindi, evidenze di una differenza nella mezza età tra i due sessi con la mortalità dei maschi cinque volte maggiore rispetto alle femmine e con successiva riduzione del rapporto con l'aumentare dell'età per stabilizzarsi a valori inferiori ai due dall'età dei settantacinque anni. La spiegazione più realistica di questa differenza nei sessi era attribuita alle influenze lavorative o socio-economiche. La mortalità per malattia vascolare cerebrale mostrava fino al 1939 un aumento parallelo a quello della malattia coronarica.
In conclusione, l’ampia disamina degli Autori considerava fattori di rischio della malattia coronarica il sesso, l’età e numerosi fattori socio, ambientali, lavorativi e geografici, ma era ancora lungi dall’indicare i grassi e il colesterolo in questo novero.
Bisogna, così, giungere alla pur lontana definizione nel Framingham Heart Study di Thomas R. Dawber e collaboratori del colesterolo alto nel siero come importante fattore di rischio per la malattia coronarica. Da allora, si è sviluppata, quindi, nella comunità dei medici la campagna aggressiva contro di esso con l’obiettivo di ridurlo. Il Framingham è stato un importante studio epidemiologico di coorte, condotto dal 1947 nella cittadina statunitense di Framingham (Massachusetts), con l'obiettivo di stimare il rischio delle patologie cardiovascolari (Am J Public Health Nations Health, vol. 41, nº 3, Mar 1951, pp. 279-81).
Come particolare interessante è bene ricordare come la ricerca trasse le sue origini, in modo particolare, dalle condizioni di salute cardiovascolare del presidente Franklin D. Roosevelt e dalla sua morte prematura per la cardiopatia ipertensiva e l’ictus fatale nel 1945.
Lo studio, in effetti, iniziato nel 1948 con 5.209 soggetti adulti, è arrivato alla sua terza generazione di partecipanti.
Peraltro, Syed S Mahmood dell’Harvard Medical School, Boston, MA, USA e collaboratori hanno proprio ricordato il 29 settembre 2013 come la ricorrenza dei sessantacinque anni dell’esame del primo volontario nel 1948 del Framingham Heart Study (Lancet. 2014 Mar 15;383(9921):999-1008).
Durante questo periodo lo studio ha fornito una sostanziale comprensione epidemiologica dei fattori di rischio delle malattie cardiovascolari.
Gli Autori nella loro rassegna hanno descritto gli eventi che hanno portato alla fondazione del Framingham Heart Study e hanno fornito una breve panoramica storica dei contributi ottenuti.
Prima di esso poco si conosceva circa l’epidemiologia della malattia cardiovascolare ipertensiva o arteriosclerotica. Questo studio longitudinale, in effetti, ha definito gran parte delle conoscenze, ormai comuni, in materia delle malattie cardiache, come gli effetti della dieta, dell’esercizio fisico, degli errori del metabolismo e della pressione arteriosa e l’azione di farmaci comuni, come l'aspirina.
Si è anche fatta strada, così, la convinzione, ampiamente condivisa, che i grassi saturi nella dieta e il colesterolo alimentare causassero un suo aumento totale plasmatico e anche delle LDL-C e, quindi, che aumentassero con il loro consumo il rischio delle malattie cardiache.
Dal loro canto, già in precedenza M. F. Oliver e G. S. Boyd dell’University of Edinburgh nel 1053 studiarono 200 soggetti con malattia coronarica, provata con l’elettrocardiografia, e 200 controlli abbinati al campione patologico, proprio in ragione dell'età e del sesso (Br Heart J 1953;15:387-92).
Gli Autori rilevarono nel gruppo della malattia coronarica un significativo aumento dei valori del colesterolo totale plasmatico e del suo rapporto con i fosfolipidi a tutte le età e in entrambi i sessi, ad eccezione delle donne nel sesto decennio di vita. Vi era anche un’associazione tra l’ipercolesterolemia e la malattia coronarica in piccolo gruppo di uomini di età inferiore ai quaranta anni.
Sotto altro aspetto furono interessanti le osservazioni di George Mann nel 1960, della Vanderbilt University sugli uomini Masai che consumavano una dieta molto ricca in grassi di derivazione animale. Ciò nonostante, questi nomadi africani erano anche molto magri, avevano bassi livelli di colesterolo ed erano in sostanza esenti da malattie cardiache. Peraltro, l’ipotesi dell’origine genetica di questa condizione fu confutata dallo studio sugli uomini Masai trasferiti a Nairobi che avevano iniziato una dieta più moderna, facendo rilevare una colesterolemia molto alta. Altre osservazioni analoghe furono annotate, peraltro, presso altre tribù dell’Africa, come alcune del Kenya e della Nigeria.
Pur tuttavia, la prima imputazione scientifica sui grassi saturi fu avanzata nel 1953 dal fisiologo statunitense Ancel Keys dell’Università del Minnesota, promotore della dieta mediterranea. Lo studioso notò che mentre il tasso di mortalità totale negli Stati Uniti era in declino, il numero dei decessi dovuti alle malattie cardiache era, invece, costantemente in ascesa. Per trovare la spiegazione a tale condizione, dal 1957 Keys e i suoi collaboratori cominciarono il noto Seven Countries Study con l’osservazione di 12.000 uomini di età tra i quaranta e i cinquantanove anni in diciotto aree di sette paesi (Italia, Isole Greche, Jugoslavia, Olanda, Finlandia, Giappone, Stati Uniti) (Circulation 1970;41 (4S1):1-198).
Gli studiosi condussero un confronto tra l'assunzione dei grassi e la mortalità per malattie di cuore in comunità di studio contrastanti per i loro modelli alimentari e per la loro relativa uniformità del lavoro rurale. Si fu, così, in grado di determinare che nelle società in cui il grasso era una componente importante di ogni pasto, come negli Stati Uniti e in Finlandia, vi erano i più alti livelli di colesterolemia e di mortalità cardiaca. Al contrario, nelle culture in cui le diete erano basate su frutta fresca e verdura, pane, pasta e molto olio d'oliva e che corrispondevano alle regioni del Mediterraneo, la colesterolemia era bassa e le malattie di cuore più rare. Il rapporto, com’è noto, dopo la sua pubblicazione ebbe un decisivo impatto sulle strategie di prevenzione pubblica cardiovascolare.
Lo studio, comunque, ha costituito un punto di riferimento per il rapporto dieta/cuore. L’assunzione dei grassi animali fu presto qualificata come un forte predittivo della malattia cardiaca e fu ritenuta altrettanto importante l’associazione tra colesterolo totale e la mortalità cardiovascolare. Tutto ciò portò alla conclusione che i grassi saturi di origine animale, e non gli altri tipi, aumentassero il colesterolo nel sangue, predisponendo alle malattie cardiache.
Pur tuttavia, è bene notare che pur esistendo più di una dozzina di tipi di grassi saturi, gli esseri umani consumano prevalentemente l’acido stearico, il palmitico e il laurico, presenti in quasi il 95 per cento dei grassi saturi in un pezzo di costolette, di fetta di pancetta, o in un pezzo di pelle di pollo e in quasi il 70 per cento di quelli del burro e del latte intero.
Oggi è ben noto che l'acido stearico, presente in elevate quantità nel cacao e nei grassi animali, non ha alcun effetto sui livelli della colesterolemia. In realtà esso nel fegato è convertito in un grasso monoinsaturo, l'acido oleico dell’olio d'oliva, salutare per il cuore. L’acido palmitico e il laurico, tuttavia, sono noti per aumentare il colesterolo totale, ma, sebbene entrambi aumentino le LDL, alzano anche le HDL e forse in maggiore quantità.
In effetti, una volta che Gofman Jw dell’University of California at Berkeley descrisse il metodo di separazione delle frazioni lipoproteiche nel sangue, divenne più evidente come le LDL e le VLDL, che veicolavano il colesterolo nel sangue, erano più strettamente associate con il rischio delle malattie cardiache (J Biol Chem. 1949 Jun;179(2):973-9).
Più tardi si dimostrò, comunque, che il rapporto tra il colesterolo totale e le HDL-C era, invece, l’indicatore migliore del rischio. Dal 1990, in effetti, si sono succedute tutte le conoscenze in questo campo di scienza medica così importante e si sono rilevati i meccanismi per cui i grassi alimentari e gli specifici tipi di acidi grassi regolano il colesterolo e le lipoproteine. Nel corso degli studi è diventato, però, chiaro che i livelli elevati delle LDL circolanti nel sangue erano suscettibili della perossidazione lipidica. Tutto ciò si traduceva nelle LDL ossidate per opera dei macrofagi di alcune arterie, in particolare quelle del cuore, con la consequenziale progressione verso l’aterosclerosi. Si evinceva, in effetti, chiaramente che sia l’apporto nutrizionale e sia il metabolismo endogeno contribuivano in modo diretto e rilevante sulla composizione sierica dei lipidi, utilizzata comunemente come importante strumento diagnostico. La concentrazione di ciascun elemento poteva, difatti, incidere in maniera specifica sia sullo sviluppo e sia sulla progressione delle differenti malattie metaboliche con ripercussione grave a livello cardiovascolare.
Peraltro, su tali premesse si è formato un crescente movimento per l’adozione di un approccio più granulare per catturare in maggiore pienezza la complessa serie delle funzioni attraverso cui le HDL possono conferire la protezione cardiovascolare. Queste proprietà includono l’efflusso del colesterolo dalle cellule periferiche, il RCT (reverse cholesterol transport) e le azioni antinfiammatorie, antiossidanti, antitrombotiche e proendoteliali. Gli studi epidemiologici più recenti sostengono gli sforzi di una revisione delle proprietà delle HDL-C, mostrando il loro valore limitato nei riguardi della previsione del rischio cardiovascolare.
L’ultracentrifugazione ha permesso di isolare le frazioni HDL2-C e HDL3-C, o altre in rapporto alle variazioni della densità delle molecole che conferiscono una funzionalità differenziale. Si riporta spesso che le HDL2 rappresentano la forma di protezione ma vi sono dati epidemiologici in conflitto tra loro e sul rapporto con il rischio più basso associato con le HDL2-C piuttosto che con le -C HDL3.
La relazione tra nutrizione e stato di salute è diventata, quindi, oggetto di studio della ricerca, abbracciando sia gli aspetti epidemiologici e sia quelli clinici e molecolari. È diventato sempre più imperativo individuare le connessioni significative tra la dieta e le patologie degenerative e di conseguenza correggere in maniera mirata e specifica le abitudini alimentari. Tutto ciò è diventato un preciso intendimento di coordinamento di forze a più livelli per un potenziale sviluppo di strumenti preventivi e, al tempo stesso, diagnostici e terapeutici.
Lewington S della CTSU, University of Oxford, UK e colleghi del Prospective Studies Collaboration hanno compiuto una metanalisi combinata degli studi prospettici sulla mortalità vascolare che avevano registrato sia la pressione sanguigna e sia il colesterolo totale al basale per determinare la rilevanza congiunta di questi due fattori di rischio (Lancet. 2007 Dec 1;370(9602):1829-39).
Gli Autori avevano considerato, infatti, che l’età, il sesso e la pressione sanguigna avrebbero potuto modificare le associazioni tra il colesterolo totale e le sue due principali frazioni, HDL e LDL e la mortalità vascolare.
Si ottenevano le informazioni da sessantuno studi osservazionali prospettici, per lo più in Europa occidentale o nell’America settentrionale, comprensivi di quasi 900.000 adulti senza malattie precedenti e con le misure di base del colesterolo totale e della pressione sanguigna. Durante quasi dodici milioni di anni-persona a rischio di età compresa tra i quaranta e gli ottantanove anni, accadevano più di 55.000 morti vascolari, di cui 34.000 per cardiopatia ischemica [IHD], 12.000 per ictus e 10.000 per altre cause. Le informazioni sul colesterolo HDL erano disponibili per 150.000 partecipanti, tra i quali ricorrevano 5.000 decessi vascolari, di cui 3.000 per IHD, 1.000 per ictus e 1.000 per altre cause.
Nei paesi più sviluppati il colesterolo totale, inferiore a 1 mmol e in tutta la sua gamma principale e senza soglia apparente, si associava con circa la metà (HR 0,44 [IC 95%: 0,42-0,48]), un terzo (0,66 [0,65-0,68]) e un sesto (0.83 [,81-0,85]) alla più bassa mortalità IHD in entrambi i sessi nell’età dai quaranta ai quarantanove, dai cinquanta ai sessantanove e dai settanta agli ottantanove anni rispettivamente. La riduzione del rischio proporzionale diminuiva con l'aumentare della pressione arteriosa, giacché i suoi effetti assoluti e del colesterolo erano approssimativamente additivi. Tra i diversi indici semplici che coinvolgevano le HDL, il rapporto colesterolo totale / HDL era il più forte predittivo di mortalità IHD. Era, difatti, il 40% più informativo rispetto al colesterolo non-HDL e più di due volte del colesterolo totale. Il colesterolo totale era debolmente e positivamente correlato alla mortalità per l’ictus totale e ischemico nella precoce mezza età tra i quaranta e i cinquantanove anni, ma questo risultato si sarebbe potuto in gran parte o totalmente spiegare con l'associazione del colesterolo con la pressione sanguigna. Inoltre, si osservava una relazione positiva solo nella mezza età e solo in quelli con pressione arteriosa sotto la media. In età avanzata dai settanta agli ottantanove anni, in particolare per quelli con pressione sistolica oltre circa 145 mm Hg, il colesterolo totale era negativamente correlato alla mortalità per l’ictus totale ed emorragico. I risultati per le altre mortalità vascolari erano intermedi tra quelli per l’IHD e l’ictus.
In conclusione, il colesterolo totale appariva positivamente associato con la mortalità IHD sia in età media e sia nell’anziano e a tutti i livelli di pressione sanguigna. L'assenza di un'associazione indipendente positiva del colesterolo con la mortalità per ictus, soprattutto in età più avanzata o con i più alti livelli di pressione sanguigna, era inspiegabile e proponeva ulteriori ricerche. Tuttavia, vi erano prove conclusive da studi randomizzati che le statine riducevano sostanzialmente non solo i tassi degli eventi coronarici, ma anche quelli d’ictus totale nei pazienti con una vasta gamma di età e pressione arteriosa.
Peraltro, la genetica e la genomica, di poi applicate a questo campo, hanno sviluppato un ruolo essenziale sia nell’identificare molecole, quali markers di predisposizione alle patologie, e sia nell’approfondire gli effetti generali della dieta e dei singoli nutrienti in ciascun individuo. Sono state, così, dimostrate nei primi anni ’90 le SREBPU (sterol regulatory element binding proteins). Sono geni regolati da comuni recettori nucleari eterodimerici, quali il PPAR (peroxisome proliferator-activated receptors), LXR (liver X receptor) e il RXR (retinol X receptor). Come riportato in letteratura, le SREBP-1 sono modulate da nutrienti, quali i PUFA (gli acidi grassi polinsaturi). Le proteine SREBP, localizzate nel reticolo endoplasmatico, funzionano come fattori di trascrizione degli specifici geni coinvolti nella sintesi del colesterolo, nell’endocitosi delle lipoproteine a bassa densità (LDL), nella sintesi degli acidi saturi e insaturi e nel metabolismo del glucosio. Il loro precursore è trasportato al Golgi dallo SCAP (SREBP-cleavage activating protein), poi tagliato da due proteasi per liberare la forma matura trascrizionalmente attiva. Vi sono evidenze che hanno dimostrato come la formazione delle proteine mature sia controllata dai livelli degli ossisteroli, dell’insulina/glucosio e dei PUFA. Esse, comunque, assumono un particolare ruolo nel metabolismo lipidico e dipendono, in certo qual modo, dai livelli dei fattori prima menzionati. I PUFA, in particolare l’acido docosaesaenoico e gli altri
in misura minore, hanno dimostrato di regolare l'espressione dei geni SREBP e di conseguenza, riducendo la loro espressione e quella degli enzimi per la sintesi del colesterolo, ne comportano la diminuzione della sua quantità nel sangue.
Pur tuttavia, le evidenze del coinvolgimento dei grassi saturi sono rimaste carenti, anche se era ben noto che una dieta ricca di questi macronutrienti aumentasse il colesterolo del siero e una ricca di polinsaturi lo diminuisse. In realtà, i PUFA sono soggetti all’ossidazione e generano sostanze antigeniche riconosciute dalle cellule immunitarie per la clearance delle LDL ossidate in aterogenesi. In effetti, numerosi rapporti e commenti negli ultimi anni hanno iniziato a mettere in discussione gli effetti perniciosi degli acidi grassi saturi nella dieta.
Nonostante tutto, l’alternativa di aumentare l'assunzione dei carboidrati in loro vece è apparsa meno conveniente. La sostituzione di grassi saturi, infatti, per il 5% con i carboidrati comporta una quota più bassa di colesterolo totale, di LDL, di HDL e un aumento dei trigliceridi. L'entità della riduzione del colesterolo totale è proporzionale a quella delle HDL in modo che il loro rapporto rimane invariato. Pertanto, si può instaurare un più alto rischio cardiovascolare con la dieta ricca di carboidrati, piuttosto che con gli SFA. Di converso, la sostituzione degli SFA per il 5% con i PUFA riduce il rischio cardiovascolare di circa il 10%. Inoltre, alcuni studi avrebbero documentato un maggior rischio di diabete 2 e d’infiammazione cronica di basso grado con l’eccesso di assunzione degli SFA.
Sta di fatto che, se da una parte si conviene concordemente che l'alimentazione costituisce una pietra angolare per la prevenzione degli esiti negativi per la salute, tra cui le patologie croniche non trasmissibili come le malattie cardiovascolari (CVD) e il cancro, dall’altra la quantità e la qualità dei vari cibi integrali sono ancora in discussione nei meriti. Tutto ciò è di particolare importanza per gli effetti degli acidi grassi alimentari e sul presupposto del loro ruolo alimentare sfavorevole. In effetti, le indagini epidemiologiche suggeriscono che gli acidi grassi, individualmente esaminati con le loro associazioni tra i vari sottotipi, possono variare il valore del rischio coronarico.
Particolare interesse hanno gli MCT, componenti importanti del latte umano. Essi, difatti, non avendo la lunga catena carboniosa degli SFA, sono immessi nella circolazione portale dell’organismo umano e sottoposti al processo della ß-ossidazione. Così che, ossidati e partecipando alla termogenesi, sono sottratti come trigliceridi alla funzione di riserva energetica di grasso. Tutto ciò rappresenta un processo vantaggioso che può anche favorire con la perdita di peso la riduzione dell’adiposità. L’olio di cocco che contiene queste sostanze in buona quantità, però, non è consigliato a causa del suo alto contenuto di colesterolo.
Per altro verso, gli effetti negativi sulla salute degli dTFA sono stati individuati nei lipidi del sangue, nella funzione metabolica, nell’insulino-resistenza, nell’ossidazione, nell’infiammazione e nella salute generale e in particolare del cuore. Hanno, in effetti, dimostrato di aumentare il grado dell’infiammazione sistemica, i livelli delle LDL e dei trigliceridi. Abbassano anche le HDL e accelerano, così, il rischio delle malattie cardiovascolari. Grazie alla gamma dei loro deleteri effetti biologici, compresa il blocco della produzione degli n3FA per inibizione dell’attività delta-6 desaturasi, si è ipotizzato che i dTFA possano essere associati anche a una maggiore aggressività e irritabilità delle persone.
In conseguenza di queste caratteristiche, nel 2013 la FDA (Food and Drug Administration) degli Stati Uniti ha emesso un’indicazione preliminare per cui gli oli parzialmente idrogenati con grassi trans non erano riconosciuti generalmente sicuri. Questo dato di fatto era tale da portare a un divieto industriale di questi prodotti nella dieta americana. Anche in altri paesi, d’altra parte, si erano definiti dei limiti legali al loro contenuto negli alimenti.
È un dato di fatto, comunque, che diversi studi controllati e osservazionali hanno concordato sull’evidenza che il consumo degli acidi grassi trans influiva negativamente sui fattori di rischio vascolare ed era fortemente e indipendentemente associato con gli esiti della malattia coronarica. Inoltre, erano dimostrate anche le associazioni positive tra l'assunzione dei grassi trans con il cancro al seno, alle ovaie e colorettale. I percorsi, proposti attraverso cui l’aumento dei loro livelli di consumo potesse influenzare i risultati della salute, comprendevano gli effetti negativi sui fattori di rischio intermedi, come i lipidi circolanti, la funzione endoteliale e l’infiammazione. Questo insieme di evidenze epidemiologiche e d’intervento ha stimolato, in definitiva, le raccomandazioni delle linee guida internazionali sulla restrizione del consumo di questi prodotti alimentari.
Purtroppo, le indagini epidemiologiche continuano a rimarcare nella dieta occidentale l’eccesso di assunzione nutrizionale degli SFA e degli TFA, che, peraltro, non sono i soli a contraddistinguerle nei loro aspetti negativi per il benessere. Concorrono, infatti, anche altri fattori tra cui principalmente l’alto consumo dei carboidrati, delle carni lavorate e del sodio. La dieta mediterranea, per suo conto, indica, invece, convenientemente il consumo di frutta e verdura e anche di noci e frutta secca, il cui contenuto in grassi è costituito da una minore quota di SFA, ma anche da una buona quota di PUFA senza il ferro dell’eme e il sodio della carne.
Ridurre il consumo degli SFA (saturated fatty acids) è divenuta, quindi, ormai da qualche tempo una fondamentale raccomandazione dietetica per limitare il rischio delle malattie cardiovascolari. In particolare, la forte attenzione agli SFA come fattore di rischio cardiovascolare si è proposta nel 1960 e nel 1970 in seguito alle evidenze degli studi specifici generalmente in sani adulti, tra cui quelli ecologici in tutte le nazioni del mondo e quelli metabolici a breve termine.
In definitiva, la giusta quota d'assunzione totale dei grassi ha rappresentato da qualche tempo l'obiettivo primario delle raccomandazioni dietetiche e, in particolare, negli ultimi decenni si è progressivamente accresciuta l’attenzione sull'impatto sulla salute da parte dei singoli acidi grassi. La FAO (Food and Agriculture Organization of the United Nations) ha raccomandato l'assunzione totale di grassi del 20 - 35% delle calorie totali, valori indicati anche dalle Linee Guida 2010 DGA (Dietary Guidelines for Americans). L'AHA (American Heart Association) e il National Cholesterol Education Program hanno, per loro conto, raccomandato il 25 - 35% delle calorie giornaliere dai grassi.
Pur tuttavia, è bene notare che in una dieta sana non è un obiettivo importante il solo limite della quota dei grassi totali, ma anche la qualità degli stessi. Così che il rapporto dei vari tipi di acidi grassi e la loro sostituzione, come i grassi insaturi verso i saturi, potrebbero costituire un metodo più vantaggioso per la salute e per la riduzione dei rischi per le malattie croniche. In ogni modo, il riconoscimento dei differenti effetti individuali sulla salute di questi nutrienti permette oggi giorno di raccomandarli ragionevolmente nelle diete, insieme ai cibi che li contengono.
Peraltro, gli obiettivi principali fissati dalla World Health Organization sono stati quelli di un consumo inferiore al 10% del totale di calorie con l’alimentazione e dall’American Heart Association minore del 7%. I grassi trans dovrebbero, in particolare, mantenersi sotto l'uno per cento circa delle calorie alimentari e l'assunzione del colesterolo inferiore ai 300 mg il giorno. Pur tuttavia, il mantenere i grassi saturi sotto il 10 per cento delle calorie dovrebbe essere l'obiettivo principe, poiché questi sono i grassi predominanti che influenzano negativamente i valori dei lipidi nel sangue. In effetti, l’evidenza degli studi ha riportato che minore è l’assunzione combinata dei grassi saturi e trans e del colesterolo dietetico, maggiore è il risultato sul benessere cardiovascolare. Diversi studi hanno anche dimostrato che una dieta, impostata come in precedenza riportato, avrebbe effetti positivi anche nel ridurre il rischio del diabete di tipo 2 e l’obesità.
È bene ribadire, comunque, che i TFA, per conoscenza comune odierna con proprietà di aumentare il rischio cardiovascolare a qualsiasi quota di assunzione, dovrebbero esse allontanati dalla dieta nel maggior modo possibile, soprattutto nella loro forma sintetica commerciale. Devono, in effetti, rappresentare una quota inferiore allo 1% delle calorie introdotte con l’alimentazione.
Pur tuttavia, le stime più recenti della loro assunzione alimentare in Europa e in America del nord sono di circa 3 - 4 grammi il giorno. Quote minori al grammo giornaliero sono riportate per l’Asia. Questi dati, comunque, corrispondono alle riduzioni già attivate sui consumi precedenti che corrispondevano a circa dieci gr/die. Da notare, peraltro, che gli rTFA (ruminant TFA) rappresentano il 20% dei TFA totali e derivano per l’85% dai grassi del latte.
Linda Van Horn della Northwestern University Feinberg School of Medicine, Chicago e collaboratori, annotando che nel corso degli ultimi decenni numerosi studi avevano riportato il potenziale aterogenico degli acidi grassi saturi e trans e del colesterolo in contrapposto agli effetti benefici delle fibre, dei fitostanoli / fitosteroli, degli n-3 PUFA, della dieta mediterranea e delle altre a base dei vegetali, hanno voluto fornire una revisione completa e sistematica delle evidenze sulle associazioni dei fattori dietetici chiave con il rischio delle malattie cardiovascolari (Journal of the American Dietetic Association 2008, 108 (2): 287–331).
Con il 25-35% di grassi, ma con meno del 7% di SFA e di TFA alimentari si riscontrava una riduzione del rischio cardiovascolare.
I criteri utilizzati e i risultati citati fornivano il razionale scientifico ai professionisti e ad altri operatori sanitari interessati al benessere dei pazienti per il consumo dei prodotti alimentari.
Mente A dell’Hamilton General Hospital, Canada e collaboratori hanno condotto una ricerca sistematica nella letteratura sugli studi prospettici di coorte o randomizzati che indagavano sulle assunzioni alimentari a proposito della malattia coronarica CHD (Arch Intern Med. 2009 Apr 13;169 (7):659-69).
Una forte evidenza supportava le associazioni dei fattori protettivi, tra cui l'assunzione delle verdure, delle noci e della dieta mediterranea con la CHD. Lo stesso si osservava per le associazioni dei fattori nocivi, tra cui l'assunzione degli acidi grassi trans e degli alimenti con un alto indice glicemico o con un loro eccessivo consumo. Tra gli studi di più elevata qualità metodologica c'era anche una forte evidenza sugli acidi grassi monoinsaturi e le abitudini alimentari occidentali prudenti. Moderata evidenza esisteva nelle associazioni dell’assunzione di pesce, di acidi grassi omega-3 marini, di folati, di cereali integrali, delle vitamine “E” e “C” alimentari, del beta carotene, dell’alcool, della frutta e delle fibre. Prove insufficienti di associazione erano presenti per l'assunzione della vitamina “E” supplementare e della “C”, dei grassi saturi e polinsaturi, del grasso totale, dell’alfa-linolenico, della carne, delle uova e del latte. Tra le esposizioni alimentari con una forte evidenza di causalità negli studi di coorte, solo un modello alimentare mediterraneo era, però, legato alla CHD negli studi randomizzati.
In conclusione, l'evidenza supportava una valida associazione di un numero limitato di fattori e modelli dietetici con la CHD.
Siri-Tarino PW dell’Harvard School of Public Health Boston MA e collaboratori, tenuto conto che la riduzione dei grassi saturi nella dieta era stata considerata generalmente efficace per migliorare la salute cardiovascolare, hanno voluto riassumere in una metanalisi le evidenze degli studi epidemiologici prospettici nei meriti (Am J Clin Nutr March 2010 vol. 91 no. 3 535-546).
Gli Autori identificavano, così, ventuno studi nella bibliografia internazionale con 347.747 soggetti durante 5-23 anni di follow-up in cui si sviluppavano 11.006 casi di malattia coronarica o ictus. L'assunzione dei grassi saturi non appariva associata a un aumentato rischio di malattia coronarica o cardiovascolare e ictus. Le stime complessive di rischio relativo, che confrontavano i quintili estremi di assunzione dei grassi saturi, erano 1,07 (IC 95%: 0,96, 1,19; P = 0,22) per la malattia coronarica, 0.81 (IC 95%: 0,62, 1,05; P = 0,11) per l'ictus, e 1.00 (IC 95%: 0,89, 1,11; P = 0,95) per malattia cardiovascolare. L’esame dell’età, del sesso e della qualità degli studi non modificava, peraltro, i risultati.
In conclusione, questa meta-analisi di studi epidemiologici prospettici dimostrava l’assenza di prove significative per affermare che la dieta di grassi saturi fosse associata a un aumentato rischio di malattia coronarica e, comunque, cardiovascolare.
D. A. J. M. Schoenaker della Wageningen University, The Netherlands e collaboratori hanno voluto esaminare il rapporto tra gli SFA (saturated fatty acid) e il totale di fibre solubili e insolubili con gli incidenti di CVD (cardiovascular disease) e di tutte le cause di mortalità nei pazienti diabetici di tipo 1 (Diabetologia (2012) 55:2132–2141).
Il lavoro traeva spunto dal rilievo della bassa aderenza alle raccomandazioni dietetiche nei riguardi degli SFA e delle fibre in tali pazienti con il possibile aumento del rischio di malattia cardiovascolare (CVD) e della mortalità. Gli Autori, quindi, eseguivano un'analisi prospettica di coorte in 2.108 di pazienti europei diabetici tipo 1 per il 51% maschi e di età compresa tra i quindici e i sessanta anni, senza CVD al basale e iscritti nell’EURODIAB Prospective Complications Study. La dieta era valutata da una registrazione ogni tre giorni. Gli HR erano calcolati utilizzando i modelli proporzionali di Cox.
Durante un follow-up di 7,3 anni si documentavano 148 casi di CVD fatale e non-fatale e quarantasei decessi per tutte le cause. Nessuna associazione statisticamente significativa si riscontrava tra gli SFA e la CVD e tutte le cause di mortalità. Le fibre alimentari totali per 5 gr / die erano associate, invece, a un più basso rischio per tutte le cause di mortalità (HR 0,72; IC 95%: 0.55, 0.95). Quest’associazione era più forte per le fibre solubili (per 5 g / die, HR 0,34; IC 95%: 0.14, 0.80), rispetto a quelle insolubili (per 5 g / die; HR 0,66; IC 95%: 0.45, 0.97). Risultati simili si rilevavano per l'associazione con la CVD.
In conclusione, questo studio suggeriva che gli SFA non erano significativamente associati alla malattia cardiovascolare e alla mortalità per tutte le cause nel diabete di tipo 1. Al contrario, il maggior consumo di fibre alimentari, in particolare di quelle solubili, poteva contribuire alla prevenzione delle CVD e di tutte le cause di mortalità in questi pazienti.
Marcia C de Oliveira Otto dell’University of Texas School of Public Health, Houston, TX e collaboratori rilevavano per l’appunto che, nonostante le raccomandazioni dietetiche concentrate sulla limitazione del consumo dei grassi saturi (SF) per ridurre il rischio della malattia cardiovascolare (CVD), l’evidenza degli studi prospettici non supportava un forte legame tra le due condizioni (Am J Clin Nutr 2012;96:397–404).
In conformità a tale premessa, gli Autori studiavano in una popolazione multietnica l'associazione tra il consumo di SF da diverse fonti di cibo e l'incidenza degli eventi cardiovascolari.
Arruolavano, così, 5.209 soggetti dai quarantacinque agli ottantaquattro anni al basale seguendoli dal 2000 al 2010, valutando la loro dieta con l’utilizzo di un questionario di frequenza alimentare. L’incidenza di 316 casi di CVD era valutata durante le visite di follow-up. Dopo aggiustamento per i fattori confondenti demografici, dello stile di vita e della dieta, la maggiore assunzione di SF dei prodotti lattiero-caseari si associava con più basso rischio cardiovascolare. L’HR per lo SF (IC 95%) per 5 g / die e + 5% di energia da prodotti lattiero-caseari era 0.79 (0.68, 0.92) e 0.62 (0.47, 0.82), rispettivamente.
Al contrario, una maggiore assunzione di SF della carne si associava con un maggiore rischio CVD. L’HR (IC 95%) per 5 g / giorno e un + 5% di energia di SF della carne era 1.26 (1.02, 1.54) e 1.48 (0.98, 2.23), rispettivamente. La sostituzione del 2% delle calorie da SF della carne con quella da latticini si associava, invece, con un rischio inferiore del 25% di CVD con HR (95% IC) di 0.75 (0.63, 0.91). Nessuna associazione si osservava tra lo SF delle piante o del burro e il rischio cardiovascolare. Pur tuttavia, gli intervalli di assunzione erano stretti.
In conclusione, le associazioni degli SF con la salute potevano dipendere dagli acidi grassi specifici per alimento o da altri nutrienti nei cibi contenenti SFA.
Glen D. Lawrence della Long Island University, Brooklyn, NY, annotando la debole evidenza dell’associazione tra grassi saturi nella dieta e la malattia coronarica o la morte prematura, sebbene i primi studi ne avessero dimostrata la veridicità, ha inteso riassumere le raccomandazioni sul loro consumo al vaglio delle conoscenze scientifiche correnti (Adv. Nutr. 4: 294–302, 2013).
In effetti, l’Autore documentava che nel corso degli anni i dati rivelavano che gli acidi grassi saturi alimentari (SFA) non erano associati con la CAD (coronary artery disease) e così pure con altri effetti negativi sulla salute. Nel peggiore dei casi essi erano debolmente associati in alcune analisi quando altri fattori potevano essere trascurati. Di converso, diversi studi più recenti indicavano che gli SFA, soprattutto quelle dei latticini e dell’olio di cocco, potevano migliorare la salute. Nel frattempo erano già stati proposti i meccanismi per spiegare gli effetti negativi sulla salute di alcune alternative o di sostituzione delle sostanze nutritive, come i carboidrati semplici e i PUFA. Continuava anche a crescere l’evidenza dell’aumento dell'infiammazione e di molte altre malattie da parte dei PUFA6 (polyunsaturated fatty acids). Per altro verso, la sostituzione nella dieta dei grassi saturi con i carboidrati, soprattutto zuccheri, portava a un aumento dell’obesità e delle comorbidità a essa associate. I PUFA 3, invece, sembravano contrastare questi effetti negativi.
In definitiva, gli effetti negativi sulla salute in passato, associati con i grassi saturi, diventavano meno probabili e probabilmente legati a fattori diversi. Secondo l’Autore era verosimile che altri fattori, come i PUFA ossidati o i conservanti nelle carni trasformate, fossero la principale causa degli effetti avversi sulla salute e non l’alto contenuto degli SFA. Lo scarso effetto esercitato dai grassi saturi sui livelli sierici del colesterolo, quando modeste ma adeguate quantità di oli polinsaturi fossero incluse nella dieta, e la mancanza di prove evidenti sulla loro responsabilità delle condizioni attribuibili agli stessi PUFA, rendeva conto della loro cattiva reputazione nella letteratura sanitaria.
In conclusione, Lawrence nella sua revisione affermava che:
- gli effetti della perossidazione lipidica che promuovevano l’aterogenesi erano più pronunciati per i PUFA che non per gli SFA o per i MUFA.
- gli effetti negativi proinfiammatori degli omega-6 PUFA e di altri fattori erano equilibrati da quelli probabilmente protettivi degli omega-3.
- gli effetti negativi sulla salute delle carni lavorate erano basati sulle evidenze della potenzialità cancerogena dei conservanti e dei metodi di cottura ad alta temperatura.
- le malattie, conseguenti a quegli alimenti tradizionalmente indicati come ricchi di acidi grassi, potevano dipendere dalla loro preparazione e dai metodi di cottura dalle sostanze derivate dai PUFA e dai carboidrati.
- la componente grassa dei latticini e degli oli tropicali ad alto contenuto di acidi grassi saturi, e quindi screditata come malsana, aveva avuto conferma da numerosi studi di effetti positivi sulla salute.
- le diete, con un aumento dei carboidrati per contenere una più bassa quota di grassi, si dimostravano a maggior rischio per la salute, in particolare per quella cardiovascolare.
Autore, pertanto, sulla base della sua recensione, stimolava una rivalutazione razionale delle raccomandazioni dietetiche esistenti.
Kazumasa Yamagishi dell’University of Tsukuba, Japan e collaboratori hanno voluto verificare l'ipotesi dell’associazione inversa tra l'assunzione degli SFA con il rischio d’ictus e dei suoi sottotipi e positivamente con quello della malattia coronarica nella popolazione giapponese la cui media di assunzione di acidi grassi saturi era inferiore a quella degli occidentali (Eur Heart J. 2013;34(16):1225-1232).
Tutto ciò traeva spunto dal fatto che gli SFA della dieta erano considerati aterogenici, ma con associazioni ancora dibattute tra la loro assunzione con l’ictus e le malattie coronariche.
L’JPHC Study (Japan Public Health Center-based Prospective Study) coinvolgeva due subcoorti per un totale di 38.084 uomini e di 43.847 donne:
- Cohort I di età compresa tra i quarantacinque e i sessantaquattro nel 1995, con follow-up fino a tutto il 2009.
- Cohort II di età compresa tra quarantacinque e i settantaquattro anni nel 1998 con follow-up fino al 2007.
Si esaminavano gli HR (hazards ratios) per l’incidente totale d’ictus, di quello ischemico, di emorragie intraparenchimale e subaracnoidea, d’infarto del miocardio e di morte cardiaca improvvisa tra i quintili degli SFA della dieta. Si riscontravano associazioni inverse tra l'assunzione degli SFA e l’ictus totale [hazard ratio multivariato (intervallo di confidenza 95%) per i più alti vs i quintili più bassi = 0,77 (0,65-0,93), P = 0.002], le emorragie intraparenchimali [0.61 (0,43-0,86), P per = 0.005] e l’ictus ischemico [0,84 (0,67-1,06), P = 0,08]. Il dato era più particolare per l’emorragia profonda intraparenchimale [0.67 (,45-,99), P = 0.04] e l’infarto lacunare [0.75 (0.53, 1.07), P = 0.02]. Si osservava anche un’associazione positiva tra l'assunzione degli acidi grassi saturi e l’infarto miocardico [1,39 (0,93-2,08), P = 0.046], soprattutto negli uomini. Nessuna associazione si rilevava tra l'assunzione degli acidi grassi saturi e l'incidenza dell’emorragia subaracnoidea o della morte cardiaca improvvisa.
In conclusione, in questa popolazione giapponese l'assunzione degli acidi grassi saturi si associava inversamente con l’emorragia profonda intraparenchimale e l’infarto lacunare e positivamente con l’infarto del miocardico. Gli Autori facevano osservare che questa relazione era in linea con alcuni studi precedenti, ma non tutti. Pur tuttavia, i principali punti di forza del loro studio erano la grande dimensione del campione e la disponibilità dei sottotipi d’ictus, con il 98% dei casi diagnosticato dalla TC / MRI. Si documentava, così, che l'associazione inversa di assunzione degli SFA con l’incidenza dell’ictus si riscontrava principalmente a carico dell’emorragia intraparenchimale e dell’infarto lacunare. Per altro verso, l’associazione positiva tra l’assunzione degli SFA e l’infarto del miocardio costituiva la prima osservazione epidemiologica in Asia, ma l'associazione globale tra l'assunzione degli SFA e le malattie cardiovascolari totali era inversa e condizionata dalla presenza dell’ictus.
Aseem Malhotra del Croydon University Hospital, London, UK nella sua pubblicazione ha inteso fornire alcuni promemoria utili riguardanti le cause della malattia coronarica (CHD) e le prescrizioni per la riduzione del suo rischio, annotando diversi presupposti della letteratura esistente per lo più distorti (BMJ 2013;347:f6340).
L’Autore annotava che la formula, secondo cui i grassi saturi dovevano essere rimossi dalla dieta per ridurre il rischio delle malattie cardiovascolari, aveva dominato le raccomandazioni dietetiche e le linee guida degli ultimi decenni. Eppure, si erano andate accumulando evidenze scientifiche paradossalmente a sostegno del contrario.
Inoltre, l’ossessione del controllo dei livelli del colesterolo totale, che aveva portato all’eccessivo uso dei farmaci e in particolare delle statine, aveva fuorviato gli studiosi dai fattori di rischio più gravi che non la dislipidemia aterogenica.
- Le diete a basso contenuto di grassi saturi tagliavano i livelli delle grandi particelle LDL galleggianti a più basso rischio rispetto a quelle piccole e dense imputate maggiormente di peggiorare le malattie cardiovascolari.
- I grassi saturi della dieta potevano effettivamente proteggere contro il rischio cardiovascolare.
- Le diete a basso contenuto di grassi promuovevano un modello aterogenico di lipidi nel sangue rivolto a peggiorare la resistenza all'insulina.
- I bassi livelli di colesterolo totale erano associati alla mortalità cardiovascolare e non cardiaca, il che indicava che l'alto colesterolo totale non era un fattore di rischio in una popolazione sana.
- Anche in prevenzione secondaria, nessun farmaco ipocolesterolemizzante, oltre le statine, aveva dimostrato beneficio di sopravvivenza, supportando l'ipotesi che i vantaggi del farmaco erano indipendenti dal loro effetto sul colesterolo.
- La dieta mediterranea conferiva tre volte il beneficio di sopravvivenza in prevenzione secondaria, a fronte delle statine. In effetti, nello studio PREDIMED ciò portava a un miglioramento del 30% rispetto a una dieta magra.
Jyrki K. Virtanen dell’University of Eastern Finland, Kuopio, Finland e collaboratori, sulla base dell’incoerente evidenza epidemiologica del ruolo degli acidi grassi saturi nella dieta (SFA) nello sviluppo della malattia coronarica (CHD), hanno svolto uno studio nei meriti (Arteriosclerosis, Thrombosis, and Vascular Biology. 2014; 34: 2679-2687).
Gli Autori hanno, così, arruolato 1.981 uomini del KIHD (Kuopio Ischemic Heart Disease Risk Factor Study) di età dai quarantadue ai sessanta anni, privi di malattia coronarica al basale dal 1984 al 1989. Il consumo del cibo era valutato con registrazione ogni quattro giorni. Durante un follow-up medio di 21,4 anni, si verificavano 183 eventi coronarici fatali e 382 non fatali. L’assunzione di SFA o di grassi trans non si associava con il rischio di CHD. Al contrario, sostituendo gli SFA, i grassi trans, o i carboidrati, l'assunzione dei grassi monoinsaturi correlava con un aumento del rischio di malattia coronarica fatale e quella dei grassi polinsaturi con una sua diminuzione. Le associazioni con l’aterosclerosi carotidea erano molto simili, mentre le associazioni con la CHD fatale erano più deboli.
In conclusione, gli Autori ritenevano che i loro risultati suggerissero che l'assunzione degli SFA non fosse un fattore di rischio indipendente per la malattia coronarica, anche in una popolazione con le gamme più elevate della loro assunzione.
Mohammad Y Yakoob dell’Harvard School of Public Health, Boston, MA e collaboratori, sulla base dei risultati contrastanti dei precedenti studi osservazionali sul consumo auto riferito dei latticini e sul rischio d’ictus, hanno voluto testare l'ipotesi che i biomarcatori circolanti dei lipidi del latte, l’acido pentadecanoico (15: 0), l'eptadecanoico (17: 0) e il trans palmitoleato (trans 16: 1N-7), fossero associati a una minore incidenza della malattia e in particolare dell’ischemica (Am J Clin Nutr December 2014 vol. 100 no. 6 1437-1447).
A questi biomarcatori, che fornivano una misura oggettiva dei grassi di origine lattiero-casearia, aggiungevano il 14: 0 che si ottiene dai prodotti lattiero-caseari ma anche dalla carne e che può essere sintetizzato in modo endogeno.
Dai partecipanti di due grandi coorti americane, l’Health Professionals Follow-Up Study con 51.529 uomini e la Nurses’ Health Study con 121.700 donne, gli Autori individuavano prospetticamente, con i campioni di sangue conservati nel 1993-1994 (n = 18.225) e 1989-1990 (n = 32.826) rispettivamente, 594 casi d’ictus per un follow-up medio di 8.3 anni. Li confrontavano, quindi, 1 : 1 con soggetti di controllo per rischio di età, di sesso, di razza e di fumo. Gli eventi d’ictus e dei sottotipi erano aggiudicati mediante le cartelle cliniche o altre documentazioni di supporto. La regressione logistica condizionale era usata per stimare le associazioni degli acidi grassi con l’ictus e i risultati specifici di coorte erano combinati da varianza inversa pesata.
Dopo aggiustamento per le caratteristiche demografiche, gli stili di vita, i fattori di rischio di malattia cardiovascolare, la dieta e gli altri acidi grassi circolanti, le associazioni significative con l’ictus totale erano osservate per il 15: 0 plasmatico (HR raggruppata per il massimo rispetto al quartile più basso: 0,85; IC 95%: 0.54, 1.33), il 17: 0 (0,99; 0,67, 1,49), il trans 16: 1 n-7 (0,89; 0,55, 1,45), il o 14: 0 (1,05; 0,62, 1,78). I risultati erano simili per i sottotipi dell’ictus ischemico ed emorragico, per gli acidi grassi delle RBC (red blood cell) e per le diverse analisi di sensibilità.
In conclusione, in queste due grandi coorti prospettiche i biomarcatori circolanti dei lipidi lattiero-caseari non erano significativamente associati con l’ictus.
Jocelyne R Benatar dell’Auckland City Hospital, New Zealand e collaboratori, riferendo non ancora noto se latticini potessero influenzare il rischio delle malattie cardiovascolari o del diabete, hanno inteso valutare gli effetti del cambiamento dell’assunzione dei latticini sui fattori di rischio cardiometabolici (European Journal of Preventive Cardiology November 2014 vol. 21 no. 11 1376-1386).
Gli Autori, così, randomizzavano 180 volontari sani ad aumentare, ridurre o non cambiare, come risposta ai consigli dietetici, la loro assunzione di latticini per un mese. Misuravano, poi, il peso corporeo, la circonferenza della vita, la pressione arteriosa, i lipidi a digiuno, la resistenza all'insulina e la proteina C-reattiva (CRP) al basale e dopo un mese, facendo il confronto con il gruppo alimentare.
Completavano lo studio 176 (98%) soggetti. La variazione media, auto riportata per una maggiore quantità dei latticini, era +0,9 SD 1,1 g / giorno (+ 71%), mentre nessun cambiamento era avvenuto nel -2.1 SD 0,4 g / giorno (-15%). Una diminuzione si registrava nel -10,8 SD 1,2 g / giorno (-77%). Non c'era alcuna variazione statisticamente significativa nelle LDL o HDL colesterolo, nei trigliceridi, nella pressione arteriosa sistolica o diastolica, nella proteina C-reattiva, nel glucosio o insulina con l’IC 95% standard, a significare differenze a meno dello 0.2 per tutti e per la CRP minore di 0,3. C'era un piccolo aumento del peso corporeo (0,4 kg, SD 3.1) in chi aveva ottenuto la richiesta di aumentare i latticini.
In conclusione, i consigli dietetici in volontari sani, rivolti a cambiare l’assunzione dei latticini per un mese, non ottenevano alcun effetto clinicamente significativo sui fattori di rischio cardiometabolico. Queste osservazioni, secondo gli Autori, suggerivano che i latticini potevano essere inclusi come parte di una dieta normale sana, senza aumentare il rischio cardiometabolico.
Elena Fattore dell’IRCCS–Istituto di Ricerche Farmacologiche Mario Negri, Milan, Italy e collaboratori, tenuto conto che l’olio di palma (PO) poteva essere considerato un grasso malsano a causa del suo alto contenuto di acidi grassi saturi, hanno voluto valutare l'effetto sui marcatori lipidici connessi con la malattia coronarica (CHD) e cardiovascolare (CVD) della sua sostituzione con altri grassi alimentari. (Am J Clin Nutr June 2014 vol. 99 no. 6 1331-1350).
Gli Autori hanno, così, compiuto una metanalisi includendo cinquantuno studi con tempi d’intervento che variavano da due a sedici settimane. Le diverse sostituzioni dei grassi diversificavano dal 4 al 43%. Il confronto della dieta PO con quelle ricche di acido stearico, di monoinsaturi (MUFA) e di (PUFA) mostrava valori significativamente più alti del colesterolo totale, delle LDL, dell’apolipoproteina B, delle HDL e dell’apolipoproteina AI, mentre la maggior parte degli stessi biomarcatori era significativamente inferiore rispetto alle diete ricche in acido miristico / laurico. Il confronto delle diete ricche in PO con quelle in acidi grassi trans mostrava concentrazioni significativamente più elevate di colesterolo HDL e di apolipoproteina AI e significativamente inferiori di apolipoproteina B, di trigliceridi e di rapporto colesterolo totale / HDL. Le analisi stratificate e di metaregressione mostravano che le concentrazioni più elevate di colesterolo totale e di LDL, quando si sostituiva PO con gli acidi grassi monoinsaturi e polinsaturi, non erano significative nei giovani e nei soggetti con diete con una percentuale di energia più bassa derivata da grassi.
In conclusione, i cambiamenti sia favorevoli e sia sfavorevoli nei marcatori di rischio CHD / CVD avvenivano quando il PO sostituiva i grassi alimentari primari, mentre si verificavano solo cambiamenti favorevoli in sostituzione degli acidi grassi trans.
Rajiv Chowdhury dell’University of Cambridge and Medical Research Council, United Kingdom e collaboratori hanno inteso riassumere le evidenze sull’associazione tra gli acidi grassi e la malattia coronarica (Ann Intern Med. 2014;160(6):398-406).
Gli Autori estrapolavano dalla letteratura trentadue studi osservazionali di 512.420 partecipanti che assumevano acidi grassi, diciassette di 25.721 che assumevano biomarcatori e ventisette di 105.085 che assumevano una supplementazione.
Negli studi osservazionali il confronto tra i terzi superiori e inferiori di assunzione di base mostrava il rischio relativo degli acidi grassi saturi per la malattia coronarica di 1,03 (IC 95%, 0,98-1,07), dei monoinsaturi di 1,00 (IC, 0,91-1,10), degli ω-3 polinsaturi a catena lunga di 0,87 (IC, 0,78-0,97), degli ω-6 polinsaturi di 0,98 (IC, 0,90-1,06) e degli acidi grassi trans di 1.16 (IC, 1,06-1,27). Le corrispondenti stime per la circolazione degli acidi grassi erano rispettivamente 1.06 (IC, 0,86-1,30), 1,06 (IC, 0,97-1,17), 0,84 (IC, 0,63-1,11), 0,94 (IC, 0,84-1,06) e 1,05 (IC, 0,76 per 1.44). Si rilevava, comunque, un’eterogeneità delle associazioni tra gli acidi grassi circolanti individuali e la malattia coronarica.
Negli studi randomizzati e controllati il rischio relativo per la malattia coronarica era 0,97 (IC, 0,69-1,36) per l’integrazione con α-linolenico, 0,94 (IC, 0,86-1,03) per gli ω-3 polinsaturi a catena lunga e 0,86 (IC, 0,69-1,07) per gli ω-6.
In conclusione, secondo lo studio degli Autori l'evidenza corrente non supportava in modo chiaro le linee guida cardiovascolari che incoraggiavano un basso consumo dei grassi saturi totali e un elevato consumo di quelli polinsaturi.
I commenti, comunque, al loro lavoro concernevano il fatto di:
- aver concluso una panoramica completa su più grassi,
- aver incluso studi di coorte e randomizzati sulla dieta e sui biomarcatori,
- aver usato endpoint rigidi,
- aver applicato metodi coerenti tra i grassi alimentari.
Si rilevavano anche:
- errori grossolani di estrazione dei dati dai documenti originali,
- omissione d’importanti studi, soprattutto sui grassi polinsaturi,
- omissione d’importanti corpi d’evidenza, come studi di alimentazione,
- mancanza di confronti specifici,
- incapacità di riconoscere queste limitazioni.
Qianyi Wang dell’Harvard School of Public Health, Boston e collaboratori hanno arruolato nel 1992 2.742 adulti del Cardiovascular Health Study di età di 74 + 5 anni con misura dei fosfolipidi TFA plasmatici, senza malattia cardiovascolare prevalente (J Am Heart Assoc. 2014 Aug 27;3(4). pii: e000914).
Lo studio era motivato dall’osservazione che, mentre il consumo auto-riferito dei TFA (trans-fatty acid) era stato osservato in collegamento con la malattia coronarica (CHD), i rapporti tra i biomarcatori oggettivi dei sottotipi dei TFA (t-16:1n9, total t-18:1, cis/trans- (c/t-), t/c- e t/t-18:2) con le malattie cardiovascolari (CVD) o con la mortalità totale non erano ben stabiliti.
Gli eventi coronarici fatali e non, la mortalità CVD e non e la mortalità totale erano giudicati centralmente fino al 2010. Si utilizzavano per i dati i rischi proporzionali di Cox.
Durante 31.494 persone-anno occorrevano in totale 1.735 morti e 639 eventi coronarici. Nel modello multivariato, inclusa la regolazione reciproca per i cinque sottotipi di TFA, il t / t-18: 2 circolante si associava a una maggiore: mortalità totale (hazard ratio (HR) per gli estremi dei quintili= 1.23, IC 95% = 1,04-1,44, P-trend = 0,01), a una maggiore mortalità cardiovascolare (HR = 1.40, IC 95% = 1,05-1,86, P-trend = 0,02), e una maggiore CHD totale (HR = 1.39, IC 95% = 1,06-1,83, P-trend = 0,01). Il t / c-18: 2, dopo aggiustamento reciproco, era positivamente correlato alla mortalità totale (HR = 1.19, P-trend = 0.05), alla CHD totale (HR = 1.67, P-trend = 0.002) e alla CHD non fatale (HR = 2.06, P-trend = 0.002). Queste associazioni erano insignificanti senza la regolazione reciproca. Né il t-16: 1N9 e neppure il t-18: 1 erano significativamente associati con la mortalità totale o CVD. Non lo era anche il c / t-18: 2, una volta escluso i primi casi.
In conclusione, tra i TFA circolanti il t / t-18: 2 era maggiormente e negativamente associato con la mortalità totale, principalmente a causa del maggior rischio di CVD. Il t / c-18: 2 era anche positivamente associato con la mortalità totale e la CHD, ma solo dopo aggiustamento per altri TFA. Questi risultati evidenziavano la necessità di ulteriori indagini sulle fonti alimentari, sulle determinanti non dietetiche e sugli effetti salutistici degli specifici sottotipi TFA, soprattutto degli isomeri t-18: 2.
Rajiv Chowdhury dell’University of Cambridge, e collaboratori hanno commentato ampiamente lo studio di Qianyi Wang (J Am Heart Assoc. 2014;3:e001195).
In sintesi, gli Autori hanno affermato che sulla base dell’importante Cardiovascular Health Study, se gli effetti dannosi dei grassi trans sulla salute fossero stati causati in particolare dall’isomero t / t-18: 2 ed eventualmente anche al t / c-18: 2, si sarebbero dovute aspettare forti implicazioni per le linee guida e le politiche future sulla riduzione dietetiche dei grassi trans. Tali implicazioni avrebbero dovuto includere misure rivolte a ridurre i grassi trans nei cibi contenenti questi isomeri specifici e a individuare ed etichettare gli altri processi industriali e i PHVO (partially hydrogenated vegetable oils) da cui derivavano. Tuttavia, prima di tale traduzione a livello politico, gli Autori ritenevano fondamentale indagare in modo affidabile su:
In conclusione, gli Autori affermavano che il tempo attuale degli studi rafforzava la raccomandazione esistente di ridurre il consumo dei grassi trans nella popolazione.
Ann Marie Navar-Boggan della Duke University Medical Center, Durham in North Carolina e collaboratori, rilevando che molti giovani adulti con moderata iperlipidemia non soddisfacevano i criteri per il trattamento con statine seguendo i nuovi orientamenti delle linee guida AHA / ACC (American Heart Association/American College of Cardiology) sul colesterolo concentrate sul rischio cardiovascolare a dieci anni, hanno voluto analizzare l'associazione tra anni d’esposizione all’ipercolesterolemia nel giovane adulto e il rischio di CHD (coronary heart disease) futura. (CirculationAHA.114.012477, 2015)
Gli Autori hanno, così, esaminato i dati della Framingham Offspring Cohort per identificare 1.478 adulti senza malattia cardiovascolare a cinquantacinque anni, esplorando l'associazione tra la durata dell’iperlipidemia moderata in età adulta e la possibile CHD successiva.
In un follow-up medio quindici anni, i tassi di CHD erano significativamente elevati tra gli adulti con l'esposizione prolungata all’iperlipidemia dall’età dei cinquantacinque anni. In particolare, per quelli con assenza di esposizione si rilevava il 4,4%, per quelli da uno a dieci anni l’8,1% e il 16,5% per quelli dagli undici ai venti (p <0,001). Quest’associazione persisteva anche dopo aggiustamento per gli altri fattori di rischio cardiaco, incluse le non-HDL-C a cinquantacinque anni (HR 1.39, IC 95% 1,05-1,85 per decade d’iperlipidemia).
Complessivamente, l'85% dei giovani adulti a quaranta anni con iperlipidemia prolungata, secondo le linee guida in vigore, non avrebbe ricevuto il consiglio di assumere le statine. Tuttavia, tra quelli a cinquantacinque anni non considerati candidati alla terapia con le statine, rimaneva un’associazione significativa tra l’esposizione cumulativa all’iperlipidemia in età giovane adulta e il conseguente rischio di CHD (HR aggiustato 1.67, IC 95% 1,06-2,64).
In conclusione, l’esposizione cumulativa all’iperlipidemia in età adulta aumentava, in modo dose-dipendente, il successivo rischio di CHD. Gli adulti fra trentacinque e cinquantacinque anni con esposizione prolungata all’innalzamento anche moderato delle non-HDL-C presentavano, in effetti, ogni dieci anni passati il rischio di future cardiopatie del 40% circa e potevano, di certo, beneficiare di una prevenzione primaria più aggressiva.
Seth S. Martin del Johns Hopkins Ciccarone Center for the Prevention of Heart Disease Baltimore – USA e collaboratori Lipoproteine considerando l’alta eterogeneità delle HDL (High-density lipoprotein) e la prognosi controversa sulle sue sottoclassi, hanno voluto approfondire questo loro aspetto nella prevenzione secondaria (Eur Heart J. 2015;36(1):22-30).
Gli Autori hanno, così, analizzato i dati in modo collaborativo da due coorti potenzialmente complementari:
Tutti i pazienti avevano al basale la sottoclassificazione delle HDL che erano stratificate per terzili di HDL-C e delle sue due principali sottoclassi (HDL2-C, HDL3-C) rispetto all’hazard ratio multivariabile aggiustato per la mortalità e la mortalità / infarto miocardico. I pazienti avevano un’età dalla mezza a quella anziana (TRIUMPH: 58,2 ± 12,2 anni; IHCS: 62,6 ± 12,6) e in maggior parte erano uomini (TRIUMPH: 68,0%; IHCS: 65,5%).
Nell’IHCS i livelli medi di HDL-C erano inferiori (34.6 ± 10.1 mg / dL) rispetto a quelli del TRIUMPH (40 ± 10,6 mg / dL). L’HDL3-C rappresentava più dei 3/4 di HDL-C in entrambe le coorti (media HDL3-C / HDL-C 0,78 ± 0,05). Nel TRIUMPH durante i due anni di follow-up, occorrevano 226 (il 9,2%) decessi, mentre nell’IHCS 401 (il 16,6%) morti / infarti miocardici in cinque anni. Non si osservavano associazioni indipendenti con i risultati delle HDL-C o HDL2-C.
Al contrario, il più basso terzile delle HDL3-C era indipendentemente associato a un rischio maggiore del 50% in ogni coorte. In particolare nel TRIUMPH, con terzile centrale come riferimento, l’HR, corretto integralmente per la mortalità di HDL3-C, era uguale a 1.57 con IC 95% pari a 1,13-2,18. Nell’IHCS l’HR, corretto integralmente per mortalità / infarto miocardico, era 1,55 con IC 95% pari a 1,20-2,00.
In conclusione, in prevenzione secondaria, l’aumento del rischio a lungo termine degli eventi clinici gravi si associava con le basse HDL3-C, ma non con le HDL2-C o l’HDL-C, mettendo in evidenza il valore potenziale di una sottoclassificazione delle HDL-C.
Grassi, infiammazione intestinale, obesità e insulinoresistenza
L’intestino umano durante il periodo evolutivo è stato colonizzato da migliaia di specie di batteri che costituiscono il microbiota. Questo complesso batterico rappresenta nell’organismo un vero e proprio organo con un ruolo-chiave nel mantenimento delle buone condizioni di salute e di prevenzione delle malattie, in particolare nei riguardi dell’obesità e delle patologie croniche non-trasmissibili a essa collegate. In particolare, ciascun individuo ha un microbiota personalizzato che può, però, alterarsi in modo significativo per effetto di diversi eventi e, quando per diverse ragioni non torna alla normalità, può dare seguito a una disbiosi con molteplici conseguenze. Vi sono, in effetti, presupposti reali che indicano come l’alterazione del microbiota intestinale possa aprire il campo alle patologie croniche e a quelle immunologiche, quali le malattie cardiovascolari e intestinali, il cancro del colon e in particolare l’obesità. Diversi studi, in effetti, hanno dimostrato l’associazione tra la prevalenza di alcuni batteri intestinali con l’obesità, l’indice di massa corporea e il diabete mellito di tipo 2. Tutto ciò in ragione del fatto che il microbiota può aumentare l’estrazione energetica dal cibo, modificare le vie metaboliche dell’ospite, provocare un’infiammazione cronica di basso grado. Può aumentare, così, l’insulino-resistenza e influenzare le attività dell’intestino, in particolare la secrezione delle incretine e la sua motilità. È dimostrato, comunque, che una dieta iperlipidica e povera in fibre determina:
Peraltro, la riduzione dei bifidobatteri comporta anche un più alto livello plasmatico di LPS (lipopolysaccharides) e una secrezione delle citochine proinfiammatorie dipendenti. In ultima analisi, la dieta iperlipidica e il LPS promuovono un’infiammazione di basso grado e dei disordini metabolici indotti consistenti nell’insulinoresistenza, nel diabete di tipo 2, nell’obesità, nella steatosi epatica, nell’infiltrazione macrofagica del tessuto adiposo.
Anche gli omega 3, ma con effetto protettivo, influenzano la quantità e il tipo di del microbiota.
Per altro canto, le diete ad alto contenuto di prodotti a base di carne contengono il LPS (lipopolysaccharides), gli induttori del TLR4 (Toll-like receptor 4), il recettore immunitario localizzato sulla superficie di diverse cellule. Gli LPS si trovano sulla membrana esterna dei batteri gram-negativi, come l’Escherichia Coli, e si comportano come endotossine. La loro tossicità è dovuta alle porzioni lipidiche, il lipide A, di cui tutti gli acidi grassi sono saturi. La loro immunogenicità, invece, è provocata dalle loro porzioni in polisaccaridi contenenti O-antigeni. Il rilascio del lipide A avvia in circolo una serie di risposte immunitarie dopo la lisi dei batteri per azione del sistema immunitario dell'ospite. Questo stesso include proprietà tendenzialmente disintossicanti gli LPS attraverso la IAP (intestinal alkaline phosphatase). Tuttavia, anche gli LPS derivati dai prodotti alimentari, dai trasformati o commestibili a base di carne, possono scatenare reazioni immunitarie nell’ospite a causa della loro resistenza alle temperature e al basso pH. Gli LPS, comunque, inducono l’attivazione del TLR4 con infiammazione per secrezione delle citochine e chemochine proinfiammatorie. I grassi alimentari aumentano l’assorbimento e le concentrazioni plasmatiche degli LPS e l’espressione del TLR4 delle cellule mononucleate negli esseri umani normali. In effetti, aumenti dell'espressione e dell'attività degli TLR4 e dell’endotossicità sono stati osservati nei monociti dei pazienti con sindrome metabolica. Gli LPS sono, quindi, internalizzati e trasportati in circolo dai chilomicroni insieme ai grassi alimentari.
Tutti questi processi contribuiscono, in ultima analisi, a produrre e mantenere l’infiammazione sistemica, acuta o cronica, indotta dalla dieta. Eventualmente concorrono allo sviluppo delle malattie metaboliche, tutte associate con l’infiammazione cronica sistemica di basso grado come l'obesità, il diabete di tipo 2 e le malattie cardiovascolari. In effetti, è stata già rilevata l’associazione positiva tra l'attività sierica degli LPS e i biomarcatori della sindrome metabolica, come i livelli plasmatici dei trigliceridi, l’insulinoresistenza, l’infiammazione cronica nel diabete di tipo 1. Inoltre, i livelli plasmatici della LBP (LPSbinding protein) sono stati dimostrati alti sia nei topi inclini all’obesità sia in quelli alimentati con dieta ad alto contenuto di grassi, rispetto ai controlli mantenuti alle diete standard. La LBP è una proteina della fase acuta capace di trasferire gli LPS sulla superficie cellulare dei CD14 ed è un biomarker di endotossiemia metabolica. Peraltro, negli esseri umani obesi, rispetto ai controlli di peso normale, i livelli della LBP sono stati rilevati alti e associati positivamente con i biomarcatori della sindrome metabolica e del diabete di tipo 2. In tal modo, l’infiammazione e l’endotossiemia indotta dagli LPS sono strettamente collegate all'obesità e al diabete di tipo 2, dimostrando la stretta connessione tra il metabolismo e il sistema immunitario. Infatti, da una parte la malnutrizione perviene all’immunosoppressione o alla suscettibilità alle infezioni, dall’altra l’ipernutrizione, ovverossia l’obesità, porta all’immunoattivazione, o alla suscettibilità alle malattie infiammatorie, come il diabete. L’ipernutrizione, con l’assunzione a lungo termine dell’alto contenuto dei grassi / zuccheri nella dieta, e l'infezione portano all’infiammazione cronica e acuta attraverso i sistemi sensibili ai nutrienti e agli agenti patogeni.
I macronutrienti alimentari possono, infatti, agire come induttori dell’attivazione del TLR4.
I lipidi, per loro conto, non sono agenti immunogenici, ma possono agire da apteni. I sistemi sensibili ai nutrienti e agli agenti patogeni possono riconoscere i composti con somiglianze strutturali, come gli acidi grassi saturi della dieta e il lipide A, derivato dagli agenti patogeni. In seguito, tutto ciò può condurre alle stesse conseguenze dell'infiammazione acuta o cronica. Quest’ultima, associata all'obesità, può essere caratterizzata da una continua attivazione del sistema immune innato e indotta dall’ipernutrizione, così che l’attivazione del TLR4, prodotta dagli LPS, sarebbe coinvolta in entrambe le condizioni, cioè l’infiammazione acuta dell’infezione e/o quella cronica dell’ipernutrizione.
D’altro canto, gli acidi grassi saturi sono in grado d’indurre risposte infiammatorie attraverso l’attivazione del TLR4, mentre gli ω-3, C20: 5 (eicosapentaenoic acid) e C22: 6 (decosahexaenoic acid), acidi grassi polinsaturi ben noti, hanno mostrato, principalmente nei modelli animali, proprietà antinfiammatorie e antidiabetiche. Essi, in effetti, attraverso l’attivazione del PPARγ (peroxisome proliferator-activated receptor gamma), sottoregolano l'infiammazione e l’adiposità tramite la sovraregolazione dell’adiponectina e la β-ossidazione. Analogamente il lipide A, contenente acidi grassi insaturi, non è tossico e può servire come un antagonista delle endotossine.
Oltre ai grassi, anche i carboidrati alimentari, attraverso l’attivazione del TLR4, sembrano essere coinvolti nel processo infiammatorio. In effetti, l’assunzione di alti livelli di zuccheri induce l’espressione nei monociti umani del TLR4. L'insulina, invece, ne riduce l’attivazione indotta dagli LPS, come pure lo stress ossidativo. D’altra parte, gli acidi grassi saturi esacerbano l'espressione e l'attività del TLR4, indotta nei monociti umani dal glucosio, con aumento di generazione del superossido, dell'attività del NF-kB (nuclear factor kappa-light-chain-enhancer of activated B cells) e dei fattori proinfiammatori. Peraltro, una diminuzione dei livelli del GLUT4 (insulin-sensitive glucose transporter) è una caratteristica del diabete di tipo 2 e della resistenza all'insulina. L’insulinoresistenza deriva, in effetti, da una sottoregolazione del GLUT4 e, quindi, del trasporto selettivo del glucosio nel tessuto adiposo. Inoltre, i ridotti livelli del GLUT4, propri del diabete di tipo 2, sembrano essere in parte dovuti all’espressione soppressa del GLUT4 per merito degli acidi grassi liberi, attraverso il PPARγ. Questo fattore è noto, infatti, per innescare la differenziazione adipogenica degli adipociti.
Pur tuttavia, gli agonisti del PPARγ, come i tiazolidinedioni, provocano la dissociazione della proteina PPARγ dal gene promotore del GLUT4. Si migliora, così, la resistenza all'insulina bloccando la soppressione del GLUT4, mediata dagli acidi grassi come l’arachidonico, e / o degli agonisti TLR4, cioè gli LPS, inducendo l’espressione del GLUT4 attraverso l'attivazione PPARγ. In definitiva, vi sarebbe, attraverso l’attivazione del TLR4, un’associazione tra i macronutrienti della dieta con l’infiammazione e le malattie metaboliche, secondo percorsi di trascrizione redoxsensibili. A tale proposito e poiché l'intestino è esposto ad antigeni estranei con gli alimenti, il GALT (gut associated lymphoid tissue) ha evoluto i meccanismi adeguati per evitare le forti risposte immunitarie agli antigeni e per proteggere contro gli organismi patogeni introdotti con il cibo.
Yukiko K Nakamura e Stanley T Omaye dell’University of Nevada Reno, USA nella loro recensione hanno dibattuto ampiamente quanto descritto, ribadendo come l’associazione tra l’infiammazione intestinale e le diete ricche di grassi fosse un evento precoce dell’obesità e della resistenza all'insulina (Nutrition & Metabolism 2012, 9:60).
Gli Autori, difatti, concludevano nel loro lavoro che la nutrizione ottimale doveva includere l'assunzione a lungo termine delle diete ricche dei carboidrati non raffinati o meglio delle fibre / prebiotici. La sovralimentazione, che richiamava a lungo termine l'adozione di diete ricche di grassi / carne con particolare percentuale dei grassi saturi e dei carboidrati raffinati o di semplice zucchero, tendeva, di certo, ad alterare l'ambiente intestinale, il microbiota, la struttura e le funzioni della mucosa. Provocava anche una barriera vulnerabile per i microbi e aumentava la permeabilità o l’essudazione dell'intestino. Queste alterazioni permettevano ai batteri intestinali e / o agli LPS di passare in circolo producendo, alla fine, l’infiammazione cronica sistemica di basso grado, associata con le malattie metaboliche.
Acidi grassi trans della dieta (dTFA) e irritabilità e aggressività comportamentali
Beatrice A. Golomb dell’University of California San Diego, United States of America e collaboratori hanno, per loro conto, analizzato il rapporto degli dTFA all'aggressione sulla base delle diete e comportamenti di uno studio clinico (PLoS ONE Mar 2012, Vol 7, Issue 3 e32175).
Su un campione di 1.018 soggetti di base, 945 uomini e donne adulte completavano come obiettivo dell’analisi il sondaggio dietetico e la visita. I soggetti esaminati tra il 1999 e il 2004 non erano sotto terapia con farmaci ipolipemizzanti e non presentavano condizioni di alterato LDL-colesterolo, di diabete, di HIV, di cancro o di malattie cardiache. L'età media dei partecipanti era di cinquantasette anni con range dai quarantacinque ai sessantanove, il 68% era di sesso maschile e per l'80% erano bianchi. Il consumo medio giornaliero di grassi trans era 3,49 grammi (gamma, 1,02-5,96 g / die). I ricercatori mediante un questionario di frequenza alimentare raccoglievano, con una varietà di strumenti validati, come l’Overt Aggression Scale Modified-aggression sub scale, la Life History of Aggression, la Conflict Tactics Scale e l’impazienza e l’irritabilità auto stimate, i dati nutrizionali e le informazioni sugli atti comportamentali di aggressione verso se stessi, gli altri e gli oggetti.
Tutto ciò in rapporto al particolare obiettivo prefissato per cui:
- l’OASMa (Overt Aggression Scale Modified – Aggression subscale) primaria era una misura designata dell'aggressione e indagava sulle azioni reali aggressive di comportamento della settimana precedente.
- la LHA (Life History of Aggression) esaminava l’aggressione comportamentale del soggetto nel corso della vita, escludendo in genere la violenza dell’infanzia.
- La CTS (Conflict Tactics Scale) esaminava le tattiche, comprese le aggressive, impiegate o contro il soggetto, come ostilità comportamentali o attribuzioni di contrarietà nelle precedenti due settimane.
- L’impazienza misurava questo sentimento soggettivo auto riferito chiedendo ai soggetti di valutarlo su una scala da zero, quando non presente, a dieci, quando considerato massimo.
- L’irritabilità era una misura soggettiva autoriferita, chiedendo ai soggetti di valutare questo sentimento con una scala da zero, quando non presente, a dieci quando considerato massima.
L'associazione degli dTFA all'aggressione era analizzata mediante regressione e logit ordinale, non aggiustato e adattato per i potenziali confondenti, quali sesso, età, istruzione, alcool e fumo. Ulteriori analisi stratificate sul sesso, età ed etnia esaminavano in prospettiva la stessa associazione.
I maggiori dTFA erano fortemente e significativamente associati con una maggiore aggressività e in modo predittivo più coerente rispetto agli altri fattori valutati. Il rapporto era confermato e mantenuto trasversalmente e prospetticamente con aggiustamento per i fattori confondenti in rapporto al sesso, all'età, all’etnia.
In conclusione, secondo gli Autori il loro studio forniva l’evidenza del collegamento tra gli dTFA con l’irritabilità e l’aggressività comportamentali. Tutto ciò assumeva, di certo, una buona rilevanza in materia dei grassi trans della dieta per le determinazioni di politica pubblica.